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Tecno-scienza e tardo-capitalismo: otto Tesi per una discussione inattuale
Per una nuova scienza, libera e autonoma dal complesso militare-industriale
Nella nostra epoca, quella del tardo-capitalismo, pressoché tutte le forme dei saperi propriamente scientifici sono stravolte: l’originaria «filosofia della natura» coltivata nelle università da piccoli gruppi di ricercatori, se non da singoli individui, si è via via dislocata all’interno del complesso militare-industriale, divenendo appunto Big Science: una vera e propria fabbrica di innovazioni tecnologiche caratterizzata dai costi immani e da decine e decine di migliaia di ricercatori che lavorano in un regime di fabbrica di tipo fordista. Si può affermare che il Progetto Manhattan, ovvero la costruzione della bomba atomica americana, costituisca il punto di non ritorno che separa la scienza moderna da quella tardo-moderna, la Big Science appunto. A dispetto di una opinione tanto fallace quanto diffusa, non esiste né può esistere un «capitalismo cognitivo»; semmai v’è, in formazione, un “capitalismo tecnologico”, un modo di produzione che promuove una furiosa applicazione della scienza alla valorizzazione del capitale – applicazione che genera continue innovazioni di processo e di prodotto, ma queste non hanno alcun significativo rapporto con l’accumularsi delle conoscenze. Infatti, per loro natura, le scoperte scientifiche non possono essere né promosse né tanto meno programmate, perché esse sono in verità risposte a domande mai formulate – come accade nei viaggi o nei giochi. Le tesi che seguono presuppongono la constatazione nel senso comune del basso livello culturale e l’alto grado di specializzazione della forza-lavoro nelle società tecnologicamente più sviluppate, e.g. gli USA; e cercano di porre, su un piano non-metafisico, la questione di una “nuova scienza” che recuperi l’autonomia della conoscenza rispetto al complesso militare-industriale.
I) I saperi antichi: teoria, tecnica, morale
Nell’antichità classica la scienza è conoscenza razionale delle cose del mondo; e questa razionalità è fissata attraverso norme ben definite, rigidi criteri generali che finiscono col rendere il concetto di scienza non più una mera descrizione ma un vero e proprio concetto normativo astratto.Così per Pitagora come per Eudosso, Aristotele, Euclide, Eratostene etc. la scienza è una conoscenza universale nel senso che essa vale per tutto – non v’è scienza che di ciò che è generale – e per tutti – non v’è scienza privata o riservata.
Inoltre la scienza deve rispettare delle procedure di produzione: risolversi nello svelamento delle ‘essenze’; dispiegarsi a partire da pochi principi fondamentali rispettando l’ordine logico; essere ad un tempo mezzo e fine – la scienza è disinteressata, non invasiva, nel senso non si propone di cambiare il mondo ma solo di conoscerlo contemplandolo; e.g. L’astronomia.
D’altro canto, la scienza è solo uno dei saperi del mondo antico, quello teorico che, appunto, ha il fine in se stesso e lascia intatto il suo oggetto; accanto a questo v’è la tecnica, téchne sapere poietico nel senso etimologico del termine – poiéin = saper fare, fabbricare. Un sapere che costruisce il suo oggetto, ben distinto tanto dal sapere teorico quanto dal sapere pratico, quello etico-politico che mira alla perfezione del soggetto agente.
Qui la critica che tentiamo di abbozzare si riferisce unicamente al sapere scientifico e a quello tecnico; e, soprattutto, al rapporto tra i due.
Presso gli antichi ma ancora nel basso Medioevo la téchne include la retorica così come l’architettura e perfino la medicina. La tecnica designa un sistema codificato di gesti e regole manipolatorie che, una volta interiorizzate, permettono di riprodurre l’analogo dell’oggetto o del fenomeno cercato. Questo fa sì che, per l’agente, adoperare una determinata tecnica non richieda la conoscenza dei principi scientifici su i quali essa eventualmente si regge – e.g. si può stabilire con un sestante la latitudine in mare aperto senza nulla sapere delle sfere celesti; così come è possibile guidare un camion, e se del caso ripararne il motore, ignorando bellamente la termodinamica.
II) Scienza e strumentazione tecnica nell’epoca moderna
Se questo, detto rozzamente, è lo statuto della scienza occidentale nell’epoca classica, a partire dal Rinascimento – per concludersi con Galileo, Cartesio e Newton – nasce un concetto di scienza che non è più riconducibile alle norme classiche. La nuova scienza utilizza le matematiche non già per impadronirsi delle essenze ma come strumenti per conoscere il reale; e.g. la matematizzazione dell’idraulica.
Subentra così nel cuore del pensiero scientifico una attitudine alla manipolazione del reale; manipolazione che prenderà il nome di sperimentazione; e nella misura in cui si sviluppa il rapporto con la tecnica e poi direttamente con l’industria, la nuova scienza non sarà più principalmente una attività conoscitiva ma piuttosto un progetto di dominio del mondo.
La fisica settecentesca mette a punto una nuova norma, una nuova definizione di scientificità, un altro fondamento.
L’esperimento – da non confondere con l’esperienza – fa ormai parte integrante della conoscenza razionale; sicché accanto alla razionalità, che appartiene al soggetto della conoscenza, emerge «l’oggetto scientificamente conoscibile in generale» che fissa in qualche modo i limiti stessi della scienza; e.g. Dio smette d’essere un oggetto della scienza, non si fruga più l’universo per scoprirne il fine, il perché, ma solo per spiegare i fenomeni che si manifestano, il come.
III) Il criterio di scientificità tra norma e descrizione
La norma della scientificità non si esaurisce nella razionalità logico-matematica data a priori; ma appaiono dei principi generali, come il principio di causalità, che sono, a vero dire, altrettante tesi sulla natura dell’oggetto scientifico, su ciò che può essere conosciuto scientificamente.
Il tentativo della modernità di dotare la scienza di un aspetto normativo si inquadra all’interno di uno sforzo di pensiero che si propone di fondare la conoscenza nell’attività del soggetto razionale. E tuttavia questo sforzo si risolve spesso in una petizione di principio: si erige in norma un concetto descrittivo. Storicamente, ogni norma di scientificità, lungi dall’essere a priori, dipende strettamente dallo stato delle conoscenze all’epoca del suo proporsi.
Può avvenire allora, è avvenuto nel XIX secolo nelle università europee, che avendo preso la fisica – la filosofia della natura – come paradigma della scientificità i saperi umanistici siano stati privati di ogni rilevanza scientifica. Così come,quasi per contrappasso, quando i concetti principali della fisica – spazio, tempo, velocità, energia: considerati norme auto evidenti e intangibili, veri e propri attributi della ragione – sono stati rimessi in discussione dalla relatività e dalla meccanica quantistica ecco che allora queste innovazioni teoriche verranno avvertite alla stregua di una crisi della razionalità occidentale.
Il concetto di scienza non è una norma ma una descrizione; e come ogni descrizione è relativa.
In verità, le forme della scientificità sono storiche, quindi mutabili, sempre in rapporto con la costruzione di esperimenti di cui esse svelano il senso – così, una scienza senza storia non è una scienza, né lo è una conoscenza isolata; mentre è scientifico tutto ciò che, pur appartenendo al passato, si rivela descrivibile con le nuove forme assunte dalla razionalità.
Possiamo quindi concludere a questo proposito che nessun criterio assoluto di scientificità può sottrarsi al condizionamento delle pratiche attraverso le quali esso è prodotto: la scientificità non esiste al di fuori di qualche specifica scienza – la scienza come concetto normativo è una costruzione linguistica astratta, qualche volta utile, più spesso imbarazzante, sempre e comunque relativa.
IV) L’autonomia mancata della scienza moderna
La scienza antica,proprio perché conteneva in se stessa il proprio fine – era disinteressata, si limitava a contemplare il mondo – godeva di una assoluta autonomia rispetto a qualsiasi normatività esterna.
Non così per la scienza moderna che ha il suo fine preminente al di fuori di sé, nel suo applicarsi alla produzione. L’autonomia della scienza ne risulta seriamente compromessa mentre la tecnica appare come “applicazione della scienza”.
Per inciso, occorre chiarire che per ‘autonomia’ intendiamo quella del pensiero scientifico e non già il fenomeno sociologico che fa sì che nelle nostre società la scienza appartenga ad un piccolo numero di ricercatori e non sia certo un bene comune. Qui siamo in presenza di una vera e propria alienazione che ha l’origine e il rimedio nel sistema scolastico. Da questa alienazione nasce il mito di una conoscenza assoluta in nome della quale alcuni potrebbero offrire ad altri una sorta di sapere incontrollabile, suscettibile d’essere appreso senza mai essere agito, cioè semplicemente ricevuto, anzi acquistato. e ancora questa alienazione che permette alla mitologia scientista di giustificare e quasi accreditare ciò che non ha alcun rapporto con la scienza, e.g. gli extraterrestri, la parapsicologia, la catastrofe ambientale e così via.
V) La relazione uterina tra tecnica e scienza, ovvero la tecno-scienza
Tuttavia, la visione moderna della tecnica come applicazione della scienza è talmente riduttiva da risultare sostanzialmente falsa. La scienza non precede sempre la tecnica. Il mondo tecnico ha una sua razionalità: infatti, non solo sono esistite ed esistono società nelle quali la tecnica si sviluppa senza la scienza, ma nella nostra epoca, diciamo così post-moderna, la scienza dipende dalla tecnica ancor più di quanto quest’ultima sia subordinata a quella; e.g. la fisica delle particelle elementari è semplicemente inconcepibile senza le macchine acceleratrici, gigantesche fabbriche dove decine di migliaia di ricercatori lavorano alla maniera di operai in regime fondista.
Gli oggetti creati dalla tecnica, ha osservato lucidamente Simondon, godono di una esistenza indipendente, un po’ come accade alle opere d’arte. Ma questa indipendenza non arriva mai a fondarne l’immanenza, a far si che posseggano in se stessi il loro fine. La tecnica contemporanea si sviluppa nella misura in cui ha la possibilità di inserirsi nel processo di produzione globale – sicché la scienza che abbisogna per la sua esistenza della tecnica risulta essa pure dipendente dalla possibilità di applicazione nel sistema economico-sociale capitalistico.
VI) Tecno-scienza e complesso militare-industriale
Lo sviluppo scientifico nei paesi capitalisticamente avanzati è strettamente legato alla organizzazione del lavoro, in particolare nell’industria bellica. Nella misura in cui la ricerca scientifica è organizzata, pianificata, sovvenzionata essa dipende dal potere politico e dai suoi fini. Così una critica delle politiche governative non può di certo esentare dalla sua potenza roditrice la ricerca scientifica. Se lo fa essa assume arbitrariamente la natura socialmente neutrale della scienza; se non lo fa essa diviene inevitabilmente una epistemologia implicita relativa al tipo di società che la produce. L’alternativa alla concezione della scienza come sapere neutrale e assoluto è relativizzare la razionalità alla società e all’epoca che l’ha prodotta. Ma negare la neutralità della scienza contemporanea non è possibile senza proporre una altra razionalità che resta però una norma vuota se non riesce a produrre una altra scienza.
D’altro canto una analisi dei saperi scientifici sperimentalmente verificati, dal Rinascimento fino ai nostri giorni, rivela una rete di presupposti ontologici ed epistemologici che sono indispensabili tanto alla teoria come al metodo impiegato.
Così la fisica, quella classica come quella quantica, non è né ontologicamente né epistemologicamente neutra. Una legge di natura che risulti verificata dall’experimentum comporta ipso facto la conferma dei presupposti, propriamente filosofici e quasi sempre impliciti, che consentono la formulazione stessa della legge.
Possiamo a questo proposito ricordare la drastica affermazione di Einstein: è la teoria che decide quali sono i “fatti” da osservare; detto altrimenti, il fisico non compara la sua teoria con il mondo reale piuttosto confronta le predizioni della teoria con le misure ottenute tramite l’esperimento; comparare la teoria con la realtà prima d’essere praticamente impossibile è un proposito privo di senso.
Tra tutti i saperi elaborati in Occidente, le scienze così dette dure sono quelle che potrebbero svelarci la trama nascosta del reale – e la fisica è, per dir così, la più dura tra le scienze. Se v’è in Occidente una scienza che ha qualcosa da dire sulla trama del reale questa è di sicuro la fisica – intesa prima di tutto come lingua che si snoda storicamente e pone dei limiti ontologici alla percezione umana del mondo.
VII) Effetti della “lingua scientifica” sulle lingue “naturali” ovvero scienza e senso comune
La modernità, l’Occidente, ha alterato e spesso addirittura distrutto i costumi e le mentalità tradizionali fino al punto da accreditare una diversa paradossale tradizione, la tradizione della innovazione, della produzione sociale del nuovo.
Nelle civiltà non occidentali, a opera per lo più dei consiglieri occidentali, si ritiene che la questione della modernizzazione – occidentalizzazione dei modi di vita e delle mentalità collettive corrispondenti – possa essere risolta concedendo l’indipendenza nazionale ai popoli di tutti i continenti, per poi assicurare loro mezzi finanziari e tecnologie avanzate.
Si tratta di un convincimento etico-politico semplice,troppo semplice, di una semplicità occultante. Qui l’ideologia della modernità, il pregiudizio sul primato antropologico dell’occidente, tocca il suo vertice.
In verità, la tecnologia contemporanea deriva massimamente dalla applicazione della scienza alla produzione; e, salvo a farne un uso passivo, non si può trasferire la capacità di fabbricare nuove tecnologie senza una comprensione delle scienze che le sottendono.
Ora le verità scientifiche riposano su postulati concettuali non sempre apertamente dichiarati; detto altrimenti, la fisica è una filosofia della natura sicché è pressoché impossibile padroneggiarne la potenza pratica senza finire con l’assimilare i suoi presupposti filosofici. Questi presupposti, una volta interiorizzati, costituiscono una mentalità che è del tutto estranea alla mentalità tradizionale; innervata com’è, quest’ultima, da riferimenti di carattere familiare e patriarcale, ossia la famiglia, la casta o la tribù – universo valoriale proprio dei popoli indigeni dell’Asia e dell’Africa.
Accade così che gli studenti di quei paesi, sottoposti alle forme e ai modi dell’educazione occidentale, si ritrovino attraversati allo stesso tempo da ben due «principi di individuazione», due educazioni sentimentali tra loro incompatibili: da una parte la modernizzazione e i costumi che essa impone nella vita morale e civile; dall’altra la mentalità tradizionale e le abitudini che a essa si accompagnano nel vivere quotidiano.
Viene così interiorizzato un confitto emotivo, spesso inconsapevole, che ha come conseguenza una sofferenza da perdita d’identità, una demoralizzazione, una sorta di anomia schizoide che affiora con ogni evidenza proprio nell’azione pure tesa a una riappropriazione della tradizione; valga qui, come esempio estremo, la ribellione stravolta dell’Islam radicale, dove atti di culti arcaici ormai dispersi si mescolano all’uso abile di quelle stesse tecnologie messe a punto proprio da quella civiltà alla quale pur tuttavia si ha intenzione di sottrarsi se non di distruggere.
Non si insisterà mai abbastanza su questo unicum che ha luogo in Occidente con la nascita stessa del modo di produzione capitalistico: l’applicazione della scienza alla vita quotidiana. Come ha osservato Koyré, si possono costruire basiliche, edificare piramidi, scavare canali, gettare ponti,maneggiare la metallurgia senza possedere alcun sapere scientifico. La scienza non è un fattore indispensabile allo sviluppo di una città, di una cultura e perfino di un impero.
Alcune delle civiltà più longeve e che destano ancora oggi la nostra ammirazione – e.g. gli antichi Egizi, Babilonia, la Persia, la Cina, i Maya – hanno fatto a meno della scienza; e perfino nell’Occidente premoderno la scienza ebbe uno sviluppo, per così dire, mancato.
VIII) Una altra scienza è possibile?
Ecco allora che tornano d’attualità le parole profetiche del filosofo francofortese: se vi fosse un mutamento nella qualità del progresso tale da rompere il legame tra la razionalità della tecnica e quella della divisione sociale del lavoro, vi sarebbe un cambiamento nel progetto scientifico, in grado di far sì che l’attività di ricerca, senza perdere la sua qualità razionale, si svilupperebbe in una esperienza sociale del tutto differente. In un mondo non lacerato dalla divisione tra lavoro manuale e intellettuale, non dominato dai saperi disciplinari, la scienza potrebbe forse elaborare una concezione della natura del tutto diversa, fondata su fenomeni essenzialmente differenti – insomma, una società veramente razionale sovvertirebbe l’usuale idea di ragione.
Il filosofo francofortese riteneva che la razionalità scientifica occidentale fosse ormai divenuta un pensiero della tecnica, di una tecnica nata e cresciuta con la borghesia; e definitivamente legata alla divisione del lavoro propria al capitalismo industriale.
Forse, il filosofo francofortese non aveva del tutto torto.
Alla stesura di queste note in forma di tesi hanno collaborato, del tutto involontariamente, Auroux, Marcuse, Simondon e Weil.