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Di porco, porci e crociate “sante”

Recensione de “La Santa Crociata del Porco”. Ne discutiamo con l’autore giovedì 6 luglio (CSA La Torre) . A seguire cena benefit per DINAMO.

Scrolliamo la timeline di facebook o twitter e spuntano piatti dai nomi chilometrici, che indicano provenienza, qualità e tipo dei prodotti immortalati. Così un piatto di pasta asciutta al sugo diventano spaghettini di grano arso antico di vattelappesca fatti a mano, con pomodorino bio di monteciuccio e scaglie di formaggetto del contadino vicino casa mia. Geolocalizziamo ristoranti e cucine, anche quelle casalinghe. E non parliamo di instagram, dove tra chiappe e tuffi in acque cristalline anche il #foodporn va per la maggiore e primi, secondi, contorni e dolci vengono passati a filtri dai nomi come Lark, Moon, Low Fi, Nashville, Mayfair, etc., subendo un’ulteriore sofisticazione che crea una merce nuova raccontando quello che mangiamo.

È il naturale risultato della centralità del cibo come consumo culturale, che forma valori, cementa identità, ci differenzia e segmenta in categorie di consumatori e in fasce sociali. Nelle pantagrueliche gallerie di cibarie, un posto particolare occupano le grigliate di carne: momento di socialità per eccellenza e simbolo di abbondanza e di mangiate esagerate. Mangiare per godere per ore e non per nutrirsi: salsicce, bistecche, costine. Ci laviamo la faccia nel grasso e ridiamo soddisfatti, innaffiando il tutto con birre e vino, lanciamo lodi al maiale che quanto è bono, che non si butta via niente, salutiamo vegani e vegetariani (se di sinistra in nome del materialismo storico derubrichiamo scelte e abitudini alimentari a vezzi borghesi, senza comprendere la centralità della produzione alimentare nello sviluppo capitalistico globale).

Inneggiamo al maiale perché fa parte del nostro paesaggio culturale e alimentare, dove conquista una centralità altrove sconosciuta. Il maiale diventa così non solo il totem di un rito di abbondanza e comunione, ma arma a disposizione dei nuovi crociati e delle bramosie di un mercato in cerca costante di nuove mode e della creazione di nuovi bisogni. È questa la storia raccontata dal Wolf Bukowski ne La Santa Crociata del Porco, appena dato alle stampe per le Edizioni Alegre nella collana di ibridi narrativi Quinto Tipo. Dopo aver mostrato gli ingranaggi di Eataly di Oscar Farinetti, tentando di incepparli con La Danza delle Mozzarelle, Bukowski torna a farci riflettere su quello che mettiamo o che non mettiamo in tavola.

Il maiale diventa così simbolo di guerra e scontro di civiltà: se non la mangi non sei dei nostri, bazooka nelle mani dell’islamofobia e del repertorio del ‘non sono razzista ma’. Basta pensare alla violenza del gesto di costringere un musulmano a mangiare carne di maiale (cosa accaduta nei Cie per punire i migranti che si ribellavano al loro stato di detenzione amministrativa). Se non si può spezzare il pane e mangiare un’ostia con un maomettano figuriamoci farci un bel barbecue, ma soprattutto che razza di gente è chi non apprezza mortadella, prosciutto e pancetta? Dai meme viralizzati su internet fino alle politiche pubbliche, dove è il laicismo sbandierato da destra a utilizzare il porco come strumento di oppressione.

Eppure. Eppure questa carne al centro del nostro discorso quando è halal e kosher dicono sia anche più salutare, più buona. Quasi sinonimo del tanto agognato bio. Bukowski ricostruisce così l’origine dei tabù e delle prescrizioni alimentari tornando indietro di millenni, per verificare come il suo significato sia oggi quanto mai duttile e rientri a pieno titolo nei tanti discorsi creati attorno al cibo per creare nuovi consumatori, brandizzare prodotti, assegnando nuovi significati al comprare e al mangiare. E, infine, questo porco è soprattutto un prodotto, al centro di una colossale macchina di produzione capitalistica, dove sfruttamento del pianeta e dell’uomo vanno di pari passo e in ogni fase l’obiettivo principe è quello di ottenere più profitto possibile, dalla coltivazione del mangime agli scaffali della distribuzione.