PRECARIETÀ
“Nino, Nino, Nino”: medici precari in ambulanza
Quarta puntata di ST.O.P! Storie di ordinaria precarietà. Una vita di studi, diventare medico e…andare di servizio allo stadio Olimpico per essere pagati con dei buoni benzina. Dalle Camere del Lavoro Autonomo e Precario.
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Non sempre riesco a pensare al mio lavoro con sarcasmo e l’ironia, spesso prevale la rabbia, se non lo sbigottimento o l’amarezza. Gli stessi sentimenti che leggo quando nei loro volti quando ne parlo con amici e familiari. Non solo perché empatizzano evidentemente con la mia condizione di lavoro, ma perché quello che io faccio ha direttamente a che fare con la salute di tutti.
Sono un medico, precario, di 28 anni, attualmente impiegato part-time presso un call center sanitario. Non sono riuscito ad accedere al concorso di specializzazione o a quello per MMG del Lazio nonostante la mia volontà: “Spiacenti, posti esauriti”. “L’anno prossimo sarai più fortunato”. Lo sapete che quest’anno le borse di specializzazione nazionale sono 6.133, a fronte di una richiesta di quasi 10000 medici precari, disoccupati, o che hanno bisogno di un nuovo titolo? Una forbice che aumenta vertiginosamente anno dopo anno con il calo degli investimenti. Lo sapete che la regione Lazio – appena uscita dal commissariamento della Sanità – garantisce per quest’anno 70 posti di medicina generale? Tra l’altro, senza riuscire ad aumentare minimamente la cifra di anno in anno, andando controcorrente rispetto ad altre regioni (per esempio in Puglia sono previsti 30 nuovi posti per triennio 2017-2020, per un totale 100 posti). Vale la pena sottolineare come il Lazio è la seconda regione d’Italia per numero di abitanti, e in Italia è prima nella classifica europea “medici over 55”, con una rispettosissima percentuale del 49% (dati 2014). In pratica, un medico su due andrà in pensione in dieci anni o meno, ma non ce ne saranno abbastanza per rimpiazzarli. Un trend tutto italiano, ma almeno i conti sono “finalmente in ordine”. Questo per dire che mentre ci rimbambiscono di retorica sul merito e sul numero chiuso la nostra sanità avrebbe bisogno eccome di nuovi medici.
Ho deciso di fare questo mestiere, pur conoscendo le condizioni di lavoro negli ospedali da tirocinante: le angherie dei baroni, i pazienti abbandonati nelle corsie, le nevrosi degli operatori sanitari costretti a gestire 30 letti invece di 6. Siamo abituati all’idea che interi reparti vadano avanti grazie al lavoro gratuito di studenti e tirocinanti, utilizzati in corsia per anche 14 ore al giorno. Ma come fate a chiamarlo “lavoro”, se non c’è retribuzione? Questo è il quadro dei policlinici universitari nella capitale, che ho visto con i miei occhi: macchine lente, ingolfate dalla burocrazia senza il personale per smaltirla (assistenti sociali, OSS, amministratori e segretari, cuochi, bed manager, dirigenti), rallentate dai pochi fondi a disposizione per acquisto di materiali farmaceutici e deperibili (penso alle radiologie, per non parlare delle mense), tenute in piedi da un esercito di studenti, infermieri e medici specializzandi, disposti a fare enormi sacrifici per il benessere dei pazienti.
In questo scenario chi si avvantaggia sono evidentemente le aziende sanitarie private, chiamate in soccorso dal pubblico e da questo pagate profumatamente. Dai trasporti in ambulanza, alle gare sportive, a grandi eventi ludico-culturali passando per poliambulatori specializzati o cliniche “misericordiose” (solo nel nome, mai nel prezzo) fino ad arrivare al 118, questo mare magnum di aziende, associazioni, onlus e protezioni civili gestisce una fetta sempre maggiore del servizio sanitario e di quello di emergenza. Un mondo per il quale la maggior parte dei medici freschi di laurea passa almeno qualche mese, in attesa magari del concorso di specializzazione.
È capitato anche a me. Il mio primo incarico è stato su un’ambulanza durante una gara sportiva: risultavo volontario della protezione civile e i soldi mi venivano corrisposti in nero. Se il servizio di 118 viene ormai in gran parte esternalizzato, con conseguenze catastrofiche anche per i diritti di chi lavora (medici, infermieri e autisti), vi è poi un mondo sommerso di prestazioni mediche sul campo per eventi e simili, che viene prestato dalla Croce Rossa o da qualche Misericordia, in cui le condizioni (come ho visto sulla mia pelle) sono ancora peggiori.
Aziende private che sarebbero strettamente vincolate a seguire e rispettare gli standard europei di sicurezza e professionalità, oltre a quelli di efficienza. Il condizionale è d’obbligo. Ne risulta che per ogni chiamata al centralino del 118 da parte del cittadino, non si sa quale tipo di mezzo possa intervenire, con quale personale a bordo e con che attrezzature; per non parlare del livello di stanchezza e stress al quale moltissimi operatori sono sottoposti, con ferie negate e turni allungati.
La mia successiva esperienza (dopo quella in cui figuravo da volontario), è avvenuta con una società di emergenza e ambulanze, abbastanza importante su Roma, e con un certo grado di anzianità. Lo scorso autunno riceva una telefonata nella quale mi viene proposta una postazione, in centro a Roma. Una voce cordiale dall’altro capo del telefono dice “tre ore di lavoro, paga in linea con il tariffario nazionale, fatti trovare in sede un’ora prima” (N.B. il tempo di attesa per partire dalla sede e andare in postazione non è MAI considerato tempo retribuibile, anche se spesso chiedono di arrivare un’ora o un’ora e mezzo prima). Accetto, penso che tutto sommato è un buon affare, una società grande, sembra farsi più vicina una certa stabilità economica. Di lì a poco, arriva un nuovo incarico: medicheria presso lo stadio Olimpico durante una partita di calcio, anche qui con un notevole orario di anticipo.
Mi reco in sede all’orario stabilito, dove insieme ad altri colleghi abbiamo atteso che tornassero le ambulanze da trasporti accordati all’ultimo minuto. Una pratica, diffusa questa, che vale la pena raccontare: pur di non perdere quei soldi del trasporto privato, si caricano di lavoro e responsabilità autisti e infermieri che sono costretti a fare avanti e indietro per Roma, nella metà del tempo che sarebbe ragionevole, per poi tornare in sede e svolgere il lavoro per il quale erano stati contattati. “Non ti sta bene? a mai più rivederci” è la risposta alle richieste di alcuni operatori sanitari di fronte al carico di lavoro sproporzionato. Del resto, il costo medio su Roma di affitto ambulanze private è compreso fra 1€ e 1,5€ a chilometro (i dati sono un po’ vecchiotti e si riferiscono 2013 ma non credo per esperienza sia cambiato molto), a cui vanno addizionate eventuali spese di pedaggio – se previsto un tragitto in autostrada – e in più un’altra percentuale di “buonuscita” per il servizio concesso (spesso per autisti e infermieri si trasformano in una bottiglia di vino…).
Ma torniamo allo stadio. In ritardo – e quindi costretti a correre in sirena – in sovrannumero per il mezzo (si scoprirà una volta allo stadio che manca un medico, e rimarrà scoperta una medicheria: chi ci mandiamo in due medicherie contemporaneamente? Indovinate voi) e con il serbatoio quasi vuoto, giungiamo all’Olimpico. Tra una chiacchiera e l’altra con gli altri operatori, scopro casualmente che il pagamento, menzionato telefonicamente di 70€ – ben al di sotto del tariffario nazionale rispetto alle ore di lavoro, sia per medici che per infermieri – è corrisposto non in valuta corrente ma in buoni benzina. Il commento amaro dell’autista vale più di mille considerazioni: “Dottò, ma secondo lei me magno er kerosene a colazione?”.
L’ulteriore sorpresa arriva quando quando mi consegnano un borsone di farmaci di cui un quarto è scaduto. Finalmente ho tempo di fare un giro in ambulanza per capire cosa abbiamo a disposizione ed arriva la sconvolgente rivelazione: c‘è solo una bombola di ossigeno quasi vuota, e un defibrillatore manuale, una cosa che non ho mai visto neanche nei libri di storia perché andrebbero utilizzati solo i semiautomatici. Di fronte al mio nervosismo, l’autista mi fa notare forse la cosa più grave di tutte: “Dottò, non ci sta manco una mascherina per l’ossigeno da attaccare alla bombola. Come glielo diamo, se serve, quel poco di ossigeno che abbiamo? Nel …?”. In quel momento penso come prima cosa “sia benedetta l’ironia romana, almeno non commetto una strage”, per poi trasformarmi in un barile di dinamite pronto ad esplodere. Chiamo in centrale per denunciare queste gravissime carenze, minacciando una mia dimissione immediata se non fossero arrivati dei materiali sanitari idonei. Ricevo molte umili scuse e promesse di ricevere quanto prima nuovi supporti: siamo a maggio 2017, sto ancora aspettando quei supporti.
Anche qui, vale la pensa spendere due parole sull’accaduto, con il senno del poi. Da parte mia è stato un grave atto di inesperienza uscire dalla centrale senza controllare il mezzo, fidandomi delle asserzioni dell’amministratore il quale mi rassicurava: “Tranquillo doc, allo stadio ci daranno il borsone con tutti i materiali”. Scoprirò solo successivamente, sul luogo, che neanche l’infermiere aveva avuto tempo di controllare la check-list, a causa dei tempi. Credo sia bene sottolineare quanto poteva costare cara questa inottemperanza dei codici di sicurezza e forniture sui mezzi di soccorso da parte delle aziende incaricate: nel malaugurato caso fosse successo qualcosa, ci saremmo trovati senza mascherina per fornire ossigeno, senza un rianimatore semiautomatico e con il mezzo fermo a causa del poco carburante (se penso che poi pagano in buoni benzina…). Vi posso assicurare che controllo in modo maniacale ogni ambulanza sulla quale metto piede e, cosa ben più importante, non ne autorizzo l’uscita dalla centrale se sprovvista degli idonei materiali e supporti di soccorso.
La settimana successiva, durante una telefonata con l’amministrazione per capire quando e come avrei dovuto presentare le ricevute di pagamento, viene casualmente fuori che l’azienda non fattura e non paga i dipendenti senza la partita Iva. Mi cascano le braccia, ripensando alle telefonate per gli incarichi accettati senza mai un accenno a questa pratica. Così, dal 2017, entro ufficialmente a far parte dell’esercito giovanile a partita Iva sotto i 35 anni a regime forfettario.
Dopo poco tempo, costretto a lavorare in condizioni inaccettabili, ho chiuso definitivamente la mia collaborazione con l’azienda. Per inciso, il piano tariffario nazionale non è stato consultato neanche con il binocolo.
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