ROMA
Tutto il mondo (si) fa selfie
Soggetti, rete, politiche. Social media tra attivismo e narcisismo. Architetture nemiche di potenziali luoghi e strumenti di intervento politico. Coessenza tra reale e digitale. Martedì 23 maggio a ESC Atelier perfomance artistiche, musica e una tavola rotonda su tutti questi temi: Una selfie vi seppellirà?
Gli occhi grigi di Alexey Navalny, nemico giurato di Putin e leader dell’opposizione “web 2.0” schierata contro l’imperatore russo, fanno capolino nell’inconfondibile formato stretto sul volto e sguardo in camera. È il selfie che ha spedito in rete il marzo scorso dopo essere stato arrestato e condannato a pagare la multa di 330 euro e detenzione amministrativa per 15 giorni con l’accusa di aver istigato moti di piazza non autorizzati. “Verrà il giorno in cui saremo noi a giudicarli, ma quel giorno lo faremo in maniera onesta”, ha scritto Navalny dall’aula del tribunale e, dopo essersi autoscattato, con un click ha gettato in pasto alla rete la sua condanna sprezzante al potere, impacchettata in formato selfie. Effetto immediatamente virale.
L’anno prima un altro selfie aveva fatto il giro della rete, suscitando cori di proteste e voyerismo morboso. Kinana Allouche, giornalista di un canale televisivo siriano vicino al regime di Bashar al-Asad, si era immortalata in un glorioso autoritratto con cadaveri: i capelli biondi, il sorriso sprezzante, il make up perfetto in netto e macabro contrasto con i corpi senza vita dello sfondo, “terroristi” – secondo la giornalista – che meritavano di morire e passare a miglior vita eterna a condizione che solo di vita online si trattasse.
La rete storce il naso ma, impassibile, condivide, presa dalla logica del like & share: come quando è scoppiato lo scandalo della giovane turista americana Breanna Mitchell in gita a Auschwitz, auto-immortalatasi in T-shirt rosa fiammante davanti a ciò che resta dei forni crematori e dei cadaveri della Storia. Selfie twittato con tanto di emoji(faccetta sorridente) e ritwittato centinaia di migliaia di volte con tanto di commenti morbosamente scandalizzati.
Nell’era del digitale la banalità del male sembra andare di pari passo con la banalità del quotidiano – le miriadi di teste autoscattantesi che fanno capolino da monumenti, toilette, piatti di cibi allettanti, persino gatti e cani anche loro costretti alla logica selfie. Si può fare un selfie agghindato e glamour da un’innocente toilette o dal vano ascensore di un hotel di lusso, e accompagnarlo con la dichiarazione di violenza nascosta dietro immagini apparentemente innocue. Ce lo ricorda l’antropologa Rebecca Stein nel suo bel libro, insieme ad Adi Kuntstman, Digital Militarism: Israel’s Occupation in the Social Media Age, dove racconta – fra i tanti aneddoti della banalità del male digitale – dell’agghiacciante campagna rimbalzata sui social israealiani “Uccidi gli Arabi”: selfie di donne bellissime e soldati muscolosi che chiedono con innocenti autoscatti la vendetta di sangue non digitale contro i palestinesi, presunti killer di tre autostoppisti israealiani trovati al tempo senza vita.
Rebecca Stein é una delle ospiti del convegno internazionale Fear and Loathing of the Online Self: A Savage Journey into the Heart of Digital Cultures (Paura e Delirio del sé online: un viaggio selvaggio nel profondo delle culture digitali), che si tiene a Roma il 22 e 23 maggio rispettivamente alla John Cabot University e all’Università Roma Tre, in collaborazione con l’Institute of Network Cultures di Amsterdam (per info sul programma qui). Alcuni dei maggiori studiosi e teorici della rete – come Geert Lovink, Wendy Chun, Gabriella Coleman, Olga Gourionova e moltissimi altri – si danno appuntamento per discutere delle ansie, delle paure, delle schizofrenie del sé digitale, del suo volto inquieto nascosto dietro il rassicurante selfie. Solo apparentemente innocuo: “una selfie vi seppellirà?” è infatti il titolo scelto per la serata conclusiva dell’evento, il 23 a partire dalle 19 a ESC Atelier Autogestito , in cui artisti, teorici e attivisti dibatteranno delle varie facce della problematica identità digitale, in particolare di quella politica – se esiste.
Perché in fondo tutto il mondo (si) fa selfie. Non importa come, perché: l’importante é essere presenti nella galleria virale dell’autoscatto. Trattasi di narcisismo, dicono molti studiosi. Di voglia di apparire, a tutti i costi, in tutte le circostanze della vita: dalla toilette al campo di guerra, appunto.
Ma forse c’è qualcosa di più sotto: un modo di essere di noi attraverso l’immagine, un modo in cui ci relazioniamo gli uni con gli altri, che diventa sempre più pervasivo – e visivo. Guy Debord nel suo illuminante saggio La società dello spettacolo già decenni fa diceva: “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini”. Chi di noi ha veramente più a che fare con l’Altro se non attraverso questa mediazione, pervasiva, invasiva, e soprattutto, visiva?
La studiosa americana Jodi Dean – anche lei ospite del convegno internazionale – la chiama, ispirandosi a Walter Ong, “visualità secondaria”: ovvero un modo di essere visivi che divora tutto ciò che esiste prima – discorso, scrittura, le stesse immagini – e lo trasforma in qualcosa di totalmente nuovo, che non è riducibile alla somma delle sue componenti. Una modalità che ricerca l’immediatezza, la vicinanza, attraverso l’uso di sempre più strati di mediazione. Il selfie è apparentemente semplice, innocuo. Ti dice: io sono qui, sono ora, sono. Ma a cosa si riduce questo “essere”, questo “esserci”, se poi non viene infilato nel vortice della rete, nell’economia del like & share?
Il selfie non esiste senza la sua circolazione. Non è un autoritratto. È ancora Jodi Dean a chiamarlo: “immagine che manca di spettatori”, immagine che è fatta più per essere circolata che per essere vista.
È nella circolazione che quest’immagine perde la sua innocenza, nel circolo del profitto che alimenta l’economia apparentemente free e cool delle piattaforme in cui tutti noi esauriamo le nostre giornate a furia di condividere, approvare, commentare, postare. “Essere comuni e riproducibili non è più una caratteristica della merce (…) è una caratteristica di ognuno di noi”, dice ancora la Dean nel suo ispirante blog post Immagini senza spettatori .
Siamo noi le merci selfie, e ce ne compiacciamo. Finalmente ci siamo liberati del peso dell’individualità, dell’originalità, e ci siamo buttati nel mare magnum della circolazione a tutti i costi, che disperde i contenuti e i messaggi in un unico, gigantesco “contributo”.
“Mai come ora un’epoca è stata così informata su se stessa, se essere informati significa avere un’immagine di oggetti che ci rassomigliano.. Mai come ora un’epoca ha conosciuto così poco di se stessa”, scriveva Kracauer nel secolo scorso. Potrebbe essere la didascalia dei milioni di nostri sé digitali che circolano ogni giorno sotto forma di selfie, hashtag, gif: potrebbe, se solo entrasse in quei benedetti 140 caratteri….
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* Tratto da AlfaBeta2