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Non Una di Meno in Italia: un movimento intersezionale?
Non una di meno nasce sin da subito come espressione di un femminismo intersezionale e anticapitalista . Sabato 22 e domenica 23 aprile ci sarà l’assemblea nazionale a Roma. Dopo lo sciopero dell’8 marzo torniamo ancora in cammino e più forti di prima per lavorare al Piano femminista contro la violenza sulle donne.
2017. Un’onda di movimenti femministi e queer fa irruzione sulla scena politica globale. Le mobilitazioni, cominciate l’anno precedente in occasione della giornata internazionale contro la violenza maschile contro le donne, attraversano l’Argentina, la Polonia, gli Stati Uniti. Le assemblee, le proteste, lo sciopero che l’8 marzo coinvolge 59 paesi, sono espressione di contesti eterogenei. Li unisce la capacità di mettere la violenza maschile sulle donne in relazione a costellazioni di potere più ampie. In Italia, Non Una Di Meno connette la lotta alla violenza di genere a quelle contro gli effetti dell’austerità neoliberista, del precariato, della proliferazione di confini, della xenofobia e del razzismo. Quello che emerge è un progetto di trasformazione dall’ambizione smisurata: contestare l’esistente e ridisegnare le forme della convivenza in chiave femminista, queer e anticapitalista.
In Italia la lotta contro la violenza maschile, un tema che riguarda donne diverse tra loro, si articola spesso attraverso l’idea di intersezionalità. Questa categoria ed esperienza politica, nata nelle battaglie delle donne africano-americane e chicanas a partire dagli anni Settanta, mette al centro differenze e diseguaglianze tra donne. L’obiettivo di un’analisi intersezionale della realtà è nominare il mutuo costituirsi di rapporti di potere strutturali come genere, razza, classe e sessualità e incidere su di essi per realizzare una maggiore uguaglianza sociale. Si tratta di un obiettivo politico. Ci sembra importante chiedere: perché il termine intersezionalità è così ricorrente in questo momento?
L’uso dell’intersezionalità nel contesto italiano segnala uno scarto in senso materialista rispetto al lungo periodo in cui la “differenza” era nominata prevalentemente nei termini di differenza sessuale. Ciò che cambia è l’attenzione all’articolazione, dinamica e mutevole, tra i meccanismi di produzione della differenza sessuale e altre forme di oppressione. Così Non Una Di Meno raccoglie alcuni tra gli elementi più radicali del femminismo italiano, primo tra tutti la necessità di pensare la politica a partire da corpi incarnati, ma li rielabora alla luce delle sfide poste da altri femminismi. Si tratta di uno scarto importante. Eppure, l’uso della categoria di intersezionalità pone interrogativi, apre riflessioni, solleva problemi con cui vale la pena confrontarsi. Proviamo a toccarne alcuni, senza pretese di esaustività, come contributo a un percorso femminista e queer le cui ambizioni smisurate condividiamo con passione.
Genealogie intersezionali
1977. Il Combahee River Collective (CRC), gruppo di donne africano-americane femministe, lesbiche e socialiste di Boston, diffonde il Combahee River Collective Statement, un manifesto che avrà un impatto profondo sull’attivismo e le teorie femministe dentro e oltre gli Stati Uniti. Tradotto in Italia nel 2005 da Veruska Bellistri, questo testo è un tassello chiave nella genealogia dell’intersezionalità. Le attiviste del CRC descrivono gli effetti dell’imbricazione oppressiva di razzismo e sessismo sulla vita delle donne nere. Contestano la doppia marginalizzazione subita nel movimento delle donne e nei movimenti dei neri. Tra le femministe, l’egemonia della bianchezza e un certo orientamento borghese impediscono la discussione delle differenze tra donne. Tra i militanti del nazionalismo nero, incluso il Black Panther Party, l’eterosessismo impedisce di mettere a tema violenza maschile e omofobia. Le soggettività delle donne nere, afferma il manifesto, emergono dall’esperienza e dalla lotta contro sistemi di oppressione articolati e complessi. Non possono, dunque, che esprimere una politica contemporaneamente anti-razzista e anti-sessista e, insieme, una critica del capitalismo e delle forme dominanti di eterosessualità.
Il manifesto identifica un nodo chiave su cui investire energie: il razzismo nei movimenti delle donne prevalentemente bianchi. Nel manifesto le CRC affermano: “Come femministe nere siamo costantemente e dolorosamente consapevoli di quanto piccolo sia stato lo sforzo fatto dalle donne bianche per capire e combattere il loro razzismo, che richiede, tra le altre cose, che loro abbiano una comprensione meno superficiale della razza, del colore, della storia e della cultura nera. L’eliminazione del razzismo nel movimento delle donne bianche è per definizione un lavoro che le donne bianche devono fare, ma noi continueremo a parlarne ed esigere una presa di responsabilità su questo tema”.
L’intersezionalità dunque è uno strumento per nominare la bianchezza e il suo peso nei rapporti sociali, anche tra donne. Il razzismo, dicono le CRC, non investe solo i corpi “altri,” ma anche quelli bianchi, di solito marcati come neutri, non razzializzati. Il femminismo bianco non è immune dagli effetti della razza perché animato da corpi che riproducono forme di esclusione e oppressione. Fare i conti con la bianchezza dunque significa interrogare posizioni di privilegio che hanno radici profonde e sono percepite come invisibili ai soggetti dominanti.
Un altro punto centrale del manifesto del CRC è l’invito riconoscere le differenze senza tuttavia porsi come obiettivo una politica basata sulla valorizzazione delle identità. Come nota Jules Falquet, “la politica del CRC parte dalle diverse ‘identità’ dei suoi membri, ma si proietta verso dei fini politici ampi, globali, non identitari”. Non si tratta infatti di valorizzare in senso individualista le identità, come se fosse una scelta libera e non condizionata dai rapporti di potere.
Le CRC insieme ad altre femministe nere, chicane e indigene lanciano una sfida ripresa e portata avanti negli anni a seguire. L’imbricazione di razzismo ed eterosessismo nominata dalle CRC è parte delle lotte su cui poggia la metafora dell’intersezionalità giuridica introdotta da Kimberlé Crenshaw in una serie di articoli a partire dal 1989.
Sbiancamento dell’intersezionalità?
Oggi, a 40 anni dal manifesto, il riferimento a CRC rimane centrale perché mette in primo piano l’intersezionalità come concetto che emerge dalle lotte delle donne africano-americane. Nell’accademia femminista e queer, l’intersezionalità, assunta come teoria e metodo, è diventata onnipresente. Non si contano i convegni, riviste monografiche, libri e tesi di dottorato dove compare questo termine. L’intersezionalità è evocata di continuo, le dimensioni dell’oppressione da nominare si sono moltiplicate. L’intersezione tra razza, genere e classe è in continua ridefinizione, per includere le forme di marginalizzazione prodotte da confini nazionali, disabilità, età, specismo etc. Diverse femministe razzializzate, tuttavia, notano la tendenza a “sbiancare” l’intersezionalità, ovvero a elidere il peso della razza nelle relazioni sociali dentro e fuori l’accademia. Il rischio, secondo Sirma Bilge e Patricia Hill Collins, sarebbe quello di dissociare il pensiero femminista nero dalle esperienze materiali di vita delle donne nere. Altre sottolineano che l’intersezionalità ha aperto la strada all’analisi sofisticata di potere e soggettività ma potrebbe aver perso parte della sua valenza politica. Per Jennifer Nash, ad esempio, l’intersezionalità è spesso assunta come paradigma senza però essere interrogata e messa in questione.
Mentre la discussione sull’efficacia e i limiti della categoria di intersezionalità prosegue, negli Stati Uniti la pratica politica intersezionale è riaffermata con prepotenza da Black Lives Matter. Non a caso il movimento che denuncia la supremazia bianca, la brutalità della polizia, il razzismo istituzionalizzato, l’incarcerazione di massa di uomini e donne africano-americani, vede in prima linea corpi di attiviste nere, molte delle quali queer e trans. Anziché nominare l’intersezionalità, BLM la agisce.
Intersezionalità in Italia oggi
Ci sembra che nei dialoghi e nelle pratiche di Non Una Di Meno la categoria di intersezionalità sia usata in due modi. Il primo riguarda l’analisi delle interazioni tra molteplici dispositivi di potere che fanno presa su corpi e vite. Il secondo, legato alle forme dell’organizzazione, si riferisce al progetto di costruzione di alleanze attraverso le differenze. In questo senso, l’intersezionalità nomina la possibilità di un agire in comune. Questi elementi di novità e complessità caratterizzano il movimento, ma allo stesso tempo aprono questioni, nodi e conflitti. Che cosa significa usare la categoria di intersezionalità, nata per dar conto dell’intreccio tra sessismo e razzismo, in un contesto, come quello italiano in cui essa è impiegata più da soggettività bianche che da donne dei gruppi razzializzati? Come sviluppare una politica intersezionale nelle mobilitazioni di NUDM che ne valorizzi la genealogia black e il fondamentale elemento antirazzista? Definire un movimento ‘intersezionale’ significa fare i conti con il sistematico occultamento del razzismo nella società italiana e, in modo specifico, con il rischio di elidere il peso della bianchezza e il razzismo nelle esperienze femministe. Significa anche riconoscere l’intersezionalità, anche in assenza di questa parola, nelle forme di resistenza di soggettività migranti oppresse da razzismo, sessismo e politiche di respingimento.
Alcune delle pratiche di NUDM vanno in questa direzione. Innanzitutto, c’è lo sforzo di riconoscere il proprio posizionamento. Nei tavoli e nelle assemblee spesso ci si interroga e si esplicitano i punti di vista da cui si parla e si vive la realtà. Si cercano alleanze, punti in comune e legami di solidarietà tra soggettività migranti e non, riconoscendo che i dispositivi normativi di esclusione dalla cittadinanza ci condizionano in maniera differenziale. Ancora, si riconosce la pluralità di esperienze che si fanno del sessismo e di altre forme di oppressione, la pluralità della forme di lotta, le diverse strategie di resistenza individuali e collettive. Si analizza il nesso tra lavoro produttivo e riproduttivo, come esso si articola nella vita delle donne. La richiesta di un reddito di autodeterminazione diventa una pratica per rompere lo sfruttamento, il razzismo, la precarietà, per uscire dalla famiglia patriarcale e alimentare nuove esperienze di cura e intimità. Questi elementi aprono possibilità reali per costruire nuove alleanze. Come nota Cathy Cohen, è fondamentale realizzare coalizioni tra soggettività che, pur non condividendo le stesse storie di oppressione, condividono il desiderio di trasformare sistemi di dominio che producono condizioni comuni di marginalità e sfruttamento.
Eppure una questione rimane aperta: come fare della sfida al peso della bianchezza e del razzismo un elemento propulsivo per un movimento che si vuole intersezionale? Ci sembra importante porre questa questione per non riprodurre meccanismi di invisibilizzazione di privilegi. Interrogare la bianchezza nell’ambito di questo specifico processo di lotte significa fare dell’intersezionalità una pratica e non un paradigma. Così facendo, si potranno anche sperimentare i limiti possibili della metafora dell’intersezionalità nel dar conto del progetto di NUDM, e anche aprire nuovi spazi per altre categorie e strumenti che potrebbero emergere dalla marea.
Ringraziamo Deborah Ardilli, Barbara Bonomi Romagnoli e Marcella Farioli per i preziosi commenti a questo testo, e tutte le amiche e compagn* che vorranno discuterne nel prossimo futuro.
Immagine nel corpo del testo: Whiteness Goggles dell’artista/attivista americano Roger Peet (2015).