DIRITTI
Espulsioni di Stato
L’Italia finisce di nuovo davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, tra accordi criminali e leggi ingiuste , deportazioni illegali e accordi con dittature sanguinarie.
È il 22 dicembre del 2016, gli avvocati dell’Associazione per gli studi giuridici per l’immigrazione (Asgi) Dario Belluccio e Salvatore Fachile si trovano a Kartoum, capitale del Sudan, per una missione ufficiale al seguito di alcuni europarlamentari del gruppo Gue/Ngl. Qui incontrano – con l’ausilio di un mediatore culturale – cinque cittadini sudanesi provenienti dalla regione del Darfour, tra i quarantuno rimpatriati dall’Italia il 23 agosto scorso con un volo diretto per la capitale dello stato africano dove ancora oggi vige una delle dittature militari più sanguinose e spietate, quella del presidente Al Bashir, sul cui capo pendono già due mandati di arresto per crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di guerra spiccati dalla Corte penale internazionale dell’Aia. Accuse che non hanno impedito al Governo italiano, il 4 agosto scorso, di firmare il memorandum d’intesa tra il dipartimento della pubblica sicurezza del ministero dell’interno italiano e la polizia nazionale del ministero dell’interno sudanese per la lotta alla criminalità, la gestione delle frontiere e dei flussi migratori e in materia di rimpatrio. Ed è qui, a Roma, che comincia la storia, ora approdata davanti alla Corte europea per i diritti dell’uomo. Perché è lì, alla Cedu, che il 13 febbraio di quest’anno gli avvocati di Asgi hanno presentato i ricorsi contro le espulsioni collettive del 23 agosto, proprio sulla scorta di quanto hanno ascoltato e appreso a Kartoum. Ma andiamo con ordine.
Uno dei ricorrenti, L. B. (le iniziali sono di fantasia) ha raccontato di essere giunto in Italia il 29 luglio, soccorso da una nave della Marina militare e di essersi spostato verso Nord, prima a Roma, poi a Ventimiglia, dove è stato ospitato nella struttura di prima accoglienza gestita dalla Croce Rossa. Si sa che l’uomo, né al momento dello sbarco, né successivamente, è stato informato in maniera adeguata della possibilità di presentare domanda di protezione internazionale o dei rischi a cui sarebbe andato incontro in caso di mancata presentazione, dunque in caso di soggiorno irregolare nel nostro Paese. Di certo, L. B. non avrebbe mai immaginato ciò che gli sarebbe accaduto dopo qualche giorno. E cioè: il 18 agosto viene prelevato dal centro in cui è stato accolto, “e sottoposto ad identificazione forzata, oppone resistenza e così è stato prima preso a schiaffi e poi forzato, dito per dito, a lasciare le proprie impronte” si legge nel ricorso presentato alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (Cedu) dagli avvocati di Asgi, Belluccio e Fachile. Arrestato, inspiegabilmente, e detenuto per cinque giorni in una caserma della polizia, L. B. viene ascoltato da un giudice di pace con l’ausilio di un mediatore nordafricano di lingua araba con cui però non riesce a comunicare in maniera appropriata. Neanche questa volta viene informato dalle autorità italiane della possibilità di accedere alla procedura per la richiesta di protezione internazionale. Quello che è certo, è che l’uomo manifesta più volte la volontà di non voler ritornare in Sudan, Paese da cui era fuggito in ragione delle persecuzioni subite nella regione del Darfur, a causa della sua appartenenza etnica.
Infatti, il ricorrente appartiene alla maggioranza non araba da molti anni vittima dello sterminio perpetrato da diversi gruppi armati, tollerati e sostenuti dalla dittatura del presidente Al Bashir. Nonostante ciò, senza che nessuno gli abbia consegnato un documento scritto, un provvedimento di espulsione o un ordine di accompagnamento alla frontiera, senza poter visionare il suo fascicolo, L. B. (subito dopo l’incontro con il giudice di pace) viene condotto davanti al delegato dell’ambasciata sudanese che lo riconosce quale cittadino del Sudan. Dunque, nonostante la dichiarata (e più volte manifestata) volontà di non poter tornare nel suo Paese, l’uomo, il 24 agosto viene condotto a Torino dalle forze di polizia e da qui rimpatriato, insieme ad altri cittadini sudanesi, con un volo diretto per Kartoum. A nulla sono serviti i tentativi (da parte di alcuni di loro) di resistere al rimpatrio, tanto da essere immobilizzati e ammanettati in volo, come ha confermato lo stesso Giovanni Pinto – funzionario a capo della Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia di frontiera del Ministero dell’Interno.
Altri sudanesi, invece, hanno gridato e urlato così forte non appena saliti a bordo, tanto che i piloti li hanno fatti scendere dall’aereo. E ora sono al sicuro, in Italia, dove sono riusciti a presentare la domanda di protezione internazionale, addirittura ottenendo già lo status di rifugiato, come raccontano i verbali di audizione delle varie commissioni territoriali che DINAMOpress ha potuto consultare. I cittadini rimpatriati, invece, hanno raccontato agli avvocati di Asgi, Belluccio e Fachile, di essere stati destinatari di un divieto di espatrio valido per cinque anni, sanzione che comporta automaticamente, per lo stesso periodo di tempo, l’impossibilità di richiedere il passaporto. Non solo. Il colloquio tra gli avvocati e i ricorrenti è avvenuto sotto lo sguardo “vigile” dei servizi di sicurezza sudanesi, che alla fine dell’incontro hanno voluto interrogare i due avvocati italiani. Le intimidazioni del Governo di Kartoum non sono servite, però, dato che i cinque cittadini sudanesi provenienti dal Darfur, vittime del rimpatrio eseguito il 24 agosto 2016 dall’Italia, hanno presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani. È il Governo italiano, stavolta, ad essere finito davanti all’Alta Corte, accusato di aver violato l’articolo 3 della Convenzione, che vieta di rimpatriare i cittadini che nella loro patria subirebbero trattamenti disumani e degradanti. Di aver contravvenuto, inoltre, alla stessa normativa italiana: in particolare di aver violato l’articolo 19 del Dlgs n. 286 del 1998 il quale dispone che “in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza,di opinioni politiche e religiose”.
Così, il governo Gentiloni, esattamente cinque anni dopo la storica sentenza della Corte dei diritti umani di Strasburgo che condannò il dicastero Berlusconi nel caso Hirsi per la violazione degli articoli della Convenzione sui trattamenti inumani e degradanti, potrebbe seguire la stessa sorte. Allora l’Italia fu condannata dalla Cedu per i respingimenti e le espulsioni collettive verso la Libia e per aver violato il diritto effettivo delle vittime di fare ricorso presso i tribunali italiani. Quello stesso scenario ora si ripete. Con un copione in parte simile. Ancora una volta è un accordo con uno stato dittatoriale, un’ intesa che potremmo definire – senza giri di parole – criminale, ad essere contestata. In particolare, la vicenda da cui il nuovo ricorso si origina è il memorandum d’intesa siglato il tre agosto scorso tra il dipartimento della pubblica sicurezza del ministero dell’interno italiano e la polizia nazionale del ministero dell’interno sudanese per la lotta alla criminalità, la gestione delle frontiere e dei flussi migratori ed in materia di rimpatrio.
Il nucleo centrale del memorandum è il secondo capitolo, quello che definisce la collaborazione tra i due Paesi nella gestione delle frontiere e in materia di rimpatrio, appunto. Nel documento di 15 pagine, che fino a qualche giorno fa era stato tenuto segreto, si legge che “le parti si possono fornire reciprocamente consulenza, formazione e supporto per migliorare le rispettive capacità di gestione dei flussi migratori e di contrasto alla migrazione irregolare e ai reati connessi”. Non solo. È la parte italiana a prendere in considerazione la possibilità di offrire alla parte sudanese, su base annuale, supporto e assistenza tecnica in termini di formazione e di fornitura di mezzi e di equipaggiamento, compatibilmente ed entro i limiti della sua effettiva disponibilità finanziaria. Ma è la cooperazione in materia di rimpatrio – definita all’articolo 9 del memorandum – che rileva ai fini del giudizio davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Perché le nuove procedure in esso previste si configurano come violazioni evidenti del diritto d’asilo. Così: le competenti autorità sudanesi forniscono assistenza e supporto nell’accertamento della nazionalità dei migranti irregolari, procedendo alla loro identificazione, per consentire alle competenti autorità italiane di eseguire le misure di rimpatrio. Tutto ciò avverrà nel pieno rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali, garantisce il linguaggio diplomatico, eppure, secondo il testo dell’accordo: le competenti autorità diplomatiche/consolari del Sudan, su richiesta delle competenti autorità italiane, procedono senza indugio alle interviste delle persone da rimpatriare, al fine di stabilire la loro nazionalità e, sulla base dei risultati del colloquio, senza svolgere ulteriori indagini sulla loro identità, emettono, il prima possibile, documenti di viaggio sudanesi d’emergenza, consentendo in tal modo alle competenti autorità italiane di organizzare ed eseguire operazioni di rimpatrio mediante voli di linea o charter. Tant’è. Invece, proprio il ricorso alla Cedu – come spiegano gli avvocati di Asgi: “confida di essere un tassello che spinga gli stati membri dell’ UE a non accordare risorse economiche a regimi dittatoriali, come quello del Sudan, appunto, per la stipula di accordi di riammissione condotti a scapito della vita e della libertà della persona”.
Intanto, proprio il Decreto Legge Minniti che qualche giorno fa è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale sembra andare nella direzione opposta di quella auspicata da diverse organizzazioni per i diritti umani. In sostanza, i punti cardine del dettato normativo sono: lo snellimento del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale, attraverso l’abolizione di un grado di giudizio e l’appellabilità solo davanti la Cassazione; l’introduzione dei “lavori forzati” per i richiedenti asilo, misura che prevede per questi ultimi lo svolgimento di lavori di pubblica utilità all’interno dei comuni in cui sono ospitati; l’istituzione di nuovi centri di permanenza e rimpatrio in ogni Regione; la creazione di sezioni specializzate all’interno dei tribunali per l’esame delle domande di protezione. Sono istituiti, infatti, così si legge nel decreto: “presso i tribunali di Bari, Bologna, Brescia, Cagliari, Catania, Catanzaro, Firenze, Lecce, Milano, Palermo, Roma, Napoli, Torino e Venezia, 14 sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea.
Una contrazione evidenti del diritto all’asilo, dunque, che fa perfettamente il paio con il Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere siglato il 2 febbraio a Roma tra il presidente del Consiglio italiano, Paolo Gentiloni e il suo omologo del governo di riconciliazione nazionale della Libia, Fayez Al-Sarraj. Un accordo in cui si afferma la “determinazione a cooperare per individuare soluzioni urgenti alla questione dei migranti clandestini che attraversano la Libia per recarsi in Europa via mare” si legge ancora nell’atto d’intesa diplomatico: “attraverso la predisposizione dei campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei paesi di origine”. E così, l’Italia è già finita e potrebbe finire nuovamente davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, tra accordi criminali e leggi ingiuste che violano diritti costituzionalmente ed internazionalmente riconosciuti.