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MONDO

Siria, accordo tra governo e curdi: il Rojava tra speranze e insidie

Il collasso del regime di Assad e la formazione di un nuovo governo di origine jihadista e sotto protezione turca apre nuovi problemi per il Rojava. Il recente accordo tattico fra la nuova amministrazione centrale e le Sdf curde promette il riconoscimento dei diritti di quel popolo ma persistono molte difficoltà, vista anche l’intolleranza del nuovo regime verso gli alawiti

In un Medio Oriente in fiamme la situazione del Rojava, regione nel nord-est della Siria dove da più di un decennio governa la Daanes (Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord-Est) a guida curda, è davvero complicata. L’Amministrazione Autonoma è difesa dalle Sdf (Forze Democratiche Siriane), accusate dalla Turchia di essere una propaggine del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Così Ankara bombarda da sempre quelle terre e ciclicamente lancia delle campagne militari con le quali intensifica la sua azione. L’ultima è quella partita lo scorso novembre quando da Idlib, roccaforte dell’organizzazione Hts (Hay’at Tahrir al-Sham) finanziata dalla Turchia, si è scatenata l’offensiva delle forze di opposizione arabe sunnite contro l’allora presidente Bashar al-Assad.

Mentre l’Hts procedeva spedita verso Damasco, caduta a dicembre senza sostanziale resistenza, le Sna (Esercito Nazionale Siriano), milizie al soldo di Ankara, costituite prevalentemente da foreign fighters, ricevevano gli ordini di penetrare nel Rojava. Il tentativo dell’operazione militare era di conquistare del territorio per allargare la zona cuscinetto, già esistente, al confine tra Turchia e Rojava e infrangere il sogno delle popolazioni di quelle zone che da anni praticano il confederalismo democratico, secondo il paradigma politico di Abdullah Ocalan. 

I nuovi padroni della Siria, sbrigativamente rinominati ribelli dalle cancellerie occidentali, sebbene fino alla fuga di Assad fossero considerati spietati jihadisti formatisi nelle fila di al-Qaeda e dell’Isis, come il loro leader Ahmed al-Shaara, attuale presidente della Siria, si sono presentati al mondo con la faccia candida di chi vuole un paese pacificato, inclusivo, rispettoso di culture, lingue, tradizioni e religioni diverse. L’obiettivo chiaro di queste dichiarazioni è dare rassicurazioni e ottenere la cancellazione delle sanzioni internazionali che affliggono la Siria e la sua popolazione. Senza esitazioni, i leader europei sono volati a Damasco e tra strette di mano e raccomandazioni paterne e materne hanno riaperto le ambasciate.

La taglia statunitense sulla testa di al-Shaara è stata rimossa e la gara a intervistarlo è stata vinta dalla BBC con un colloquio di oltre mezz’ora nel quale il neo-presidente siriano con fare pacato ha rassicurato il mondo delle buone intenzioni del suo governo. Alle domande spinose, come ad esempio quale sarà la politica rispetto alle donne, ha risposto rimandando tutto al futuro parlamento e dichiarando che sarà la legge a determinare le regole. Davvero vago e poco rassicurante, visti i precedenti delle organizzazioni a cui è stato affiliato. Non può essere dimenticato infatti quanto accaduto alle donne ezide rapite dall’Isis in Iraq, vendute come schiave in appositi “mercati” allestiti a Mosul, a Raqqa e persino su piattaforme on-line.

Per quello che riguarda invece il Rojava, sin dalla vittoria contro Assad, che per la verità nessuno ha difeso, nemmeno l’alleato russo, al-Shaara è stato chiaro e ha mantenuto la linea: nessuna regione autonoma e ogni formazione militare dovrà entrare nel corpo militare siriano. Insomma, sembra che alla Daanes e alle Sdf non venga fatta nessuna concessione, nonostante i proclami di una Siria inclusiva.

Le Sdf, attraverso i propri comandi, hanno cercato da subito un dialogo con al-Shaara, consapevoli del crinale scosceso su cui il Rojava si trova. Infatti le Sna, con attacchi da terra e il supporto della Turchia dai cieli, hanno conquistato a novembre la città strategica di Mambij e hanno iniziato ad attaccare la diga di Tishreen, sperando di espugnare successivamente la città simbolo della resistenza del Rojava contro l’Isis, ossia Kobane. A disturbare ci sono poi persino le cellule dell’Isis che, approfittando della situazione ancora instabile in Siria, conducono azioni militari contro le Sdf.

Dall’avvio dell’offensiva contro Assad, è cambiata la guida dell’amministrazione statunitense e alla Casa Bianca siede adesso Donald Trump, considerato oggi più che mai un alleato inaffidabile da parte di tutti. Ma le Sdf conoscono molto bene questo tratto del suo “carattere” perché, pur essendo gli Usa loro alleati, nel 2019, una volta sconfitto l’Isis in Siria, Trump ha ordinato il ritiro delle truppe statunitensi ben sapendo che ciò avrebbe comportato un attacco turco contro il Rojava, cosa prontamente avvenuta.

La partita aperta in Siria, dove anche la Russia e Israele sono parte del gioco, trasforma il paese in un terreno davvero periglioso, metaforicamente (e non solo!) minato.

Per questo le Sdf hanno ritenuto necessario il dialogo con i nuovi capi di Damasco. A renderlo ancor più necessario è stato l’appello del leader curdo Ocalan che lo scorso 27 febbraio, accogliendo l’invito al dialogo per porre fine al conflitto tra Stato turco e movimento di liberazione curdo lanciato a ottobre dal presidente del Mhp (Partito del Movimento Nazionalista), partito di ultra-destra islamista, Devlet Bahceli, alleato di Erdogan, ha chiesto a tutti di deporre le armi e al Pkk di avviare anche un congresso per decidere dello scioglimento del partito, dichiarando la sua ragion d’essere esaurita. 

Il Comandante Generale delle Sdf, Mazlum Abdi, aveva immediatamente replicato che il negoziato in corso in Turchia riguardava solo quel paese e non la Siria ma che si aspettava risvolti positivi anche per il Rojava.

Lunedì 10 marzo è arrivata la notizia che al-Shaara e Abdi hanno siglato un accordo in più punti che deve trovare attuazione entro la fine dell’anno. Il portavoce del Pyd (Partito dell’Unione Democratica) Salih Muslim, in un’intervista rilasciata a ANF News ha commentato gli otto punti del documento in modo positivo, sostenendo che la rivoluzione del Rojava si è consolidata e oggi la regione può dire di aver acquisito uno status che gli permette di essere un partner all’interno dello stato siriano.

Nel complesso l’accordo prevede: il riconoscimento di tutti i popoli a partecipare al nuovo processo politico e a lavorare dentro le istituzioni; il popolo curdo è considerato parte integrante della Siria e dunque gli sono garantiti il diritto di cittadinanza, negato sotto Assad padre e figlio, e i diritti costituzionali; l’impegno a lavorare per un cessate il fuoco su tutto il territorio siriano, ciò significa secondo Salih Muslim che le Sna e gli attacchi turchi in Rojava verranno combattuti insieme dall’esercito siriano e dalle Sdf; il ritorno dei rifugiati siriani nelle loro terre e nelle loro case, quindi sempre secondo Muslim il territorio siriano verrà liberato della presenza turca che ha occupato dei territori; la lotta congiunta contro dichiarazioni e comportamenti volti a alimentare l’odio e a dividere il paese in fazioni; l’assorbimento da parte delle forze armate siriane delle organizzazioni civili e militari del nord-est della Siria, ossia del Rojava, oltre all’integrazione nello Stato dei valichi di frontiera, degli aeroporti e dei giacimenti di petrolio e gas; la lotta congiunta contro i gruppi legati al regime di Assad.

Questi ultimi due punti sono di particolare rilevanza. Con le immagini terrificanti che corrono sui social delle violenze senza freni delle milizie Hts nei confronti degli alawiti, sostenitori di Assad, è importante che le Sdf facciano prevalere l’approccio non vendicativo, sostenendo la necessità di un esercito teso alla sola difesa, come il confederalismo democratico insegna. A maggior ragione adesso che inizierà il loro processo di integrazione all’interno del corpo militare nazionale. 

Problemi e ambiguità che restano

Nell’accordo manca però ogni riferimento a cosa accadrà della Daanes, che con i suoi giacimenti di petrolio e gas, la cui amministrazione e redistribuzione delle risorse fiscali sarà oggetto di successive intese, fa gola al governo centrale. 

Secondo il paradigma del confederalismo democratico l’Autonomia per sostenersi deve avere delle forze di autodifesa, che nel Rojava sono rappresentate proprio dalle Sdf. Cosa succederà una volta che le Sdf diventeranno parte del corpo militare nazionale? Ma soprattutto, cosa si sono detti al-Shaara e Abdi rispetto al destino della Daanes, avendo due posizioni così radicalmente diverse sull’idea di Stato? 

Non bisogna dimenticarsi che nella conferenza convocata dal presidente siriano per confrontarsi con politici e società civile sul futuro della Siria, tenutasi il 25 febbraio scorso, né la Daanes né le Sdf sono state invitate e in due dei punti scritti sul documento finale è stato detto chiaramente che nella nuova Siria non c’è lo spazio per organizzazioni militari fuori dall’alveo statale e neppure per regioni autonome. 

Come riuscirà o potrà convivere il confederalismo democratico, che è già una pratica reale nel Rojava, con la Siria degli jihadisti dell’Hts è difficile da vedere con nitidezza oggi.

È una partita molto tattica quella che si gioca, certamente costretta dagli eventi politici e militari in rapido mutamento che il Medio Oriente sta vivendo. La regione siriana è ancora una volta dentro fino al collo in questo turbine di violenza, speranze e timori per il futuro.

In copertina Mazlum Ebdî, comandante in capo delle Forze siriane democratiche. Immagine di Zana Omer – VOA

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