approfondimenti

OPINIONI
La bancarotta globale del malminorismo politico
Il malminorismo, con il suo presunto “realismo”, è la malattia senile del migliorismo e frena l’azione indipendente della masse quanto il blocco finanziario-statale della rendita parassitaria e della gestione capitalistica della cooperazione sociale
La dottrina del “male minore” è diventata la linea politica generale che domina l’insieme del cosiddetto campo “progressista” e “democratico”. Pensandoci bene, tutto ciò risulta estremamente paradossale. Definitivamente, dal febbraio 2022, viviamo in un Occidente in regime di guerra che assiste e all’insieme desiste dall’ascesa delle forze di una nuova “rivoluzione conservatrice”.
Ricordiamo che per regime di guerra intendiamo la trasformazione di Stati, governi, amministrazioni, media, corporazioni e sistemi partitici, per cui la distinzione amico/nemico diventa l’asse della vita politica, economica e sociale. A sua volta, nel regime di guerra il nemico esterno si proietta su quello interno e viceversa, neutralizzando in senso autoritario la dinamica del conflitto sociale e trattando come operazioni nemiche le iniziative dei gruppi subalterni della società. Non dimentichiamo neppure che, dopo la Prima Guerra Mondiale, le tendenze politiche e intellettuali della “rivoluzione conservatrice” furono la matrice dei fascismi storici. L’attuale situazione non solo fa rima, ma risuona come un diapason di silicio e plutonio con le vibrazioni mortifere della prima metà del XX secolo europeo.
Questa posizione – quella del male minore a tutti i costi, che arriva persino ad accettare la subordinazione al regime di guerra e alla nuova rivoluzione conservatrice – raramente viene formulata come tale, se non nella sincerità oscena di coloro che hanno la cattiva coscienza di essere subordinati all’ala sinistra dei regimi di guerra occidentali. E questi abbondano nel Regno di Spagna, persino tra coloro che si fregiano di sigle che parlano di comunismo, pace e classe operaia.
Ciò che dobbiamo chiederci è perché questa preponderanza della politica del male minore, in tutte le sue varianti, si manifesta con tale insistenza; di cosa è sintomo e cosa ci serve per uscire dal barattolo di miele in cui sprofondano il nostro desiderio e la nostra intelligenza politica quando, per buona volontà o per un folle “realismo” politico accettiamo questo quadro di pensiero e di iniziativa politica. Quel che è in gioco non è poca cosa, ma praticamente tutto.
Il malminorismo politico globale costituisce solo una delle forme di consolidamento e riproduzione di questi regimi di guerra, forme sempre inclini alla guerra interna ed esterna.
Le vittorie delle diverse varianti di quello che possiamo chiamare fascismo di mercato in El Salvador, Italia, Argentina, Paesi Bassi e, lo scorso novembre, negli Stati Uniti, così come i suoi avanzamenti decisivi in Finlandia, Svezia, Germania o Hispania, dimostrano che non esistono più antidoti contro il fascismo di mercato all’interno della prigione politica, economica e psichica rappresentata dal complesso reale e operativo capitalismo / caos ecosistemico / regimi di guerra. Non esistono più antidoti “progressisti” in grado di smussare, almeno per una parte della popolazione, gli aspetti più brutali di questo sistema senza, allo stesso tempo, ampliare le basi per una sconfitta strategica e storica di fronte ai fascismi di mercato. Detto in altri termini, nel complesso reale e operativo capitalismo / caos ecosistemico / regimi di guerra, i fascismi di mercato risultano vincitori perché rappresentano oggi, e continueranno a rappresentare, le migliori soluzioni per le classi dominanti globali e per le loro classi medie subordinate.
Poiché le “alternative progressiste” malminoriste non mettono in discussione questo sistema e, quindi, non formulano né perseguono una rottura efficace, limitandosi a facilitare l’ingresso subordinato delle classi medie patrimoniali, burocratiche e/o degli apparati statali nei blocchi di potere oligarchico, parlare di destra o sinistra del regime di guerra non ha alcun senso né analitico né politico.
Il malminorismo politico globale è semplicemente una delle forme di consolidamento e riproduzione di questi regimi di guerra, forme sempre orientate alla guerra interna ed esterna e alla loro traduzione in nuove e feroci gerarchie di reddito, diritti, libertà e sicurezza.
Progressismo di guerra nel capitalocene
La politica del male minore sostiene che il male sia uno stato anomalo, contingente, temporaneo, poiché si presume una tendenza all’evoluzione progressista della società (e del capitalismo). Per questo motivo, la crisi del progressismo è qualcosa di più di una semplice crisi congiunturale. La si comprende meglio se si considera la natura della crisi ecosistemica in cui stiamo sopravvivendo. Non è solo una crisi del neoliberismo, né del capitalismo occidentale, né dell’egemonia statunitense. Si tratta di una crisi senza precedenti del capitalismo storico e della sua dimensione come epoca geologica, che chiamiamo capitalocene. Tuttavia, non è una crisi terminale del capitalismo, bensì una crisi della sua specifica produzione di natura e del suo rapporto con le lotte degli oppressi, degli sfruttati e dei dominati nelle loro intersezioni di razza, classe, genere, animalità e naturalità.
Tutti i regimi capitalisti si trovano ad affrontare uno scontro con la propria limitatezza. I deliri suprematisti, transumanisti, neopatriarcali, transfobici e persino “marziani” dei padroni delle piattaforme digitali corrispondono a questa fobia capitalista della limitatezza, che si scontra con i corpi singolari e le loro forme di vita, con i popoli e le loro resistenze e migrazioni, con le moltitudini e le loro forme di contropotere e opposizione, con gli ecosistemi e le loro finalità non capitaliste.
Tutte le organizzazioni capitaliste – molto più e molto prima delle classi politiche progressiste e della loro “società civile” culturale e mediatica – hanno compreso che “non c’è accordo”, che non può esserci un Green New Deal. In quasi mezzo secolo di sviluppo e consolidamento di istituzioni, norme e regimi anticomuni – una definizione più precisa rispetto alla generica etichetta di “neoliberali” – le relazioni gerarchiche tra i diversi settori e classi capitalistiche hanno messo il potere nelle mani dei gestori dei fondi di investimento, responsabili nei confronti della loro clientela, a sua volta gerarchizzata tra grandi patrimoni, fondi pensione, fondi sovrani, banche, corporazioni, ecc.
Fatta eccezione per la Cina, dove la Commissione statale per la supervisione e l’amministrazione degli asset statali (SASAC), la National Financial Regulatory Administration (NFRA) e la Banca Popolare Cinese esercitano un controllo sui mercati finanziari, oggi i “Big Three” – i tre grandi fondi di investimento per capitalizzazione e diversificazione, BlackRock, Vanguard e State Street – esercitano su scala planetaria una sorta di Stato Maggiore del capitale collettivo globale.
Essi rappresentano la ciliegina sulla torta di una finanziarizzazione neoliberale durata oltre mezzo secolo, che oggi possiamo considerare come una lunga preparazione per vincere la guerra contro i limiti stessi del dominio capitalistico nella mutazione ecosistemica in corso. Questa nuova formula del capitalismo è del tutto inedita e va oltre le categorie di “imperialismo” o “colonialismo”.
Allo stesso tempo, presenta contraddizioni interne laceranti: tra i diversi interessi oligarchici e settoriali, tra regioni e continenti, tra gli interessi nazionali e gli interessi delle classi oligarchiche finanziarizzate.
La nuova vittoria di Trump incarna questa alleanza tra settori capitalistici: il settore finanziario (con alcune eccezioni come Warren Buffet o Soros), le piattaforme digitali, le compagnie del settore fossile e, soprattutto, il complesso militare-industriale, che oggi si espande in tutti i campi di una guerra ibrida: chip, droni, satelliti, software di sorveglianza, robot militari, ecc.
Come affermava Gramsci:
«Il male minore o il meno peggio (che potremmo affiancare all’altra formula insensata del “peggio è, meglio è”). […] Il concetto di “male minore” o “meno peggio” è uno dei più relativi. Un male è sempre minore rispetto a un altro possibile maggiore».
Non c’è alcuna esagerazione nell’affermare che la politica del male minore sia, nel contesto attuale e in tutte le latitudini del pianeta, il periodo di anestesia necessario per l’irruzione trionfale del peggio.
Allo stesso modo, non è un’esagerazione affermare che il malminorismo non sia altro che la fase terminale del progressismo, quando quest’ultimo, basandosi unicamente su una pigra morale del “migliorismo” graduale, ha perso ogni ancoraggio a una realtà politica definita da un regime di guerra globale, in cui non esiste alternativa che non passi attraverso lo smantellamento di tale regime di guerra. Se guardiamo alla piccola storia delle sinistre del Regno di Spagna, potremmo dire che il malminorismo è la malattia senile del migliorismo, la corrente “realista” del Partito Comunista Italiano (PCI), interprete delle compatibilità sociali e politiche della Prima Repubblica Atlantica d’Italia.
Il migliorismo nasce nel PCI negli anni Sessanta come una constatazione cinica del fatto che il mondo nato da Yalta impediva definitivamente ogni “via nazionale al socialismo”, l’uscita dalla NATO e, in definitiva, una democrazia socialista. Personaggi come Giorgio Amendola, quello che anni dopo sarebbe diventato il presidente Giorgio Napolitano, Mario Alicata o il segretario della CGIL Luciano Lama, anti-eroe della rivolta contro l’austerità del 1977 italiano, ritenevano che l’obiettivo fosse migliorare la vita della gente e che la cosa più ragionevole fosse una convergenza con il Partito Socialista Italiano.
Anche se in ritardo, raggiunsero il loro obiettivo quando un epigono del migliorismo, Achille Occhetto, riuscì a far approvare lo scioglimento del PCI nella infausta “svolta della Bolognina” del 12 novembre 1989.
L’anemia incurabile e l’insignificanza del Partito Democratico italiano sono l’eredità di quel “realismo politico”. Tuttavia, la storia del malminorismo politico è molto più antica, sebbene mai banale. Antonio Gramsci ci fornisce le chiavi per comprendere questo fenomeno nei Quaderni del carcere, ovvero in un’opera scritta durante il periodo di ascesa dei fascismi europei, un’epoca che risuona in modo inquietante con il nostro presente. Si tratta di un passaggio classico:
«Il male minore o il meno peggio (da appaiare con l’altra formula scriteriata del «tanto peggio tanto meglio»). […] Il concetto di «male minore» o di «meno peggio» è uno dei più relativi. Un male è sempre minore di un altro susseguente possibile maggiore. Ogni male diventa minore in confronto di un altro che si prospetta maggiore e così all’infinito. La formula del male minore, del meno peggio, non è altro dunque che la forma che assume il processo di adattamento a un movimento storicamente regressivo, movimento di cui una forza audacemente efficiente guida lo svolgimento, mentre le forze antagonistiche (o meglio i capi di esse) sono decise a capitolare progressivamente, a piccole tappe e non di un solo colpo (ciò che avrebbe ben altro significato, per l’effetto psicologico condensato, e potrebbe far nascere una forza concorrente attiva a quella che passivamente si adatta alla «fatalità», o rafforzarla se già esiste)» [il corsivo è nostro].
Non smette di impressionare l’accuratezza della diagnosi gramsciana. Perché oggi acquista tanta forza e non nell’Europa del 1997 o del 2008, per fare un esempio e per riferirci alla storia della regione europea? O nel contesto delle guerre jugoslave e dell’intervento decisivo degli Stati Uniti, dell’UE e della NATO tra il 1991 e il 2001?
Nel 1997 viene firmato il Trattato di Amsterdam, che sancisce la costituzione delle comunità europee come uno spazio amministrativo, normativo, poliziesco e militare neoliberale, al riparo da qualsiasi contestazione da parte di contropoteri politici e sociali. Nel 2008 inizia la grande crisi finanziaria dell’Occidente neoliberale, che, col senno di poi, possiamo dire oggi aver preparato la nostra condizione attuale. Dal 1993, il PSOE ha sempre praticato e rappresentato, senza ambiguità, la politica del male minore. Il ciclo di “modernizzazione progressista”, avviato nel 1982, termina, come sappiamo, nel pantano di austerità, corruzione e autoritarismo del periodo 1993-1996, che spiana la strada alla vittoria del PP di Aznar. Di fronte alla decomposizione del felipismo, Aznar non ebbe grandi difficoltà a presentarsi come un centrista onesto e sobrio, capace di negoziare la propria investitura con Jordi Pujol all’hotel Majestic e di rivendicare Manuel Azaña come una delle sue figure ispiratrici. Alla fine, si trattava semplicemente di gestire senza troppi scossoni il programma di privatizzazione del capitale e del controllo delle imprese pubbliche strategiche, nonché di spianare la strada alla finanziarizzazione e internazionalizzazione del mercato immobiliare, della produzione dello spazio urbano, del turismo e dell’agrobusiness.
Non sottovalutare il PSOE significa riconoscere che il PSOE non si dissolve, così come non si dissolve nessun partito-stato senza un cambiamento radicale nei rapporti di potere di classe, razza e genere al suo interno.
Dobbiamo imparare dai cicli precedenti. L’ultimo, quello che inizia con il 15M e termina con l’invasione russa e la guerra in Ucraina nel febbraio 2022, ci ha lasciato almeno due lezioni invarianti.
La prima è che non si deve mai sottovalutare il PSOE.
La seconda è che non si possono perdere le piazze, né le reti, ma neanche le televisioni.
Non si deve sottovalutare il PSOE perché, nella costituzione materiale del regime del ‘78, il suo ruolo è necessariamente ambivalente, sia per la sua composizione politica e sociale, sia per le funzioni storiche di quella che prima di Maastricht si chiamava socialdemocrazia e che da allora è diventata social-liberalismo o, in modo più vago, “centro-sinistra”. Detto in altri termini: dopo il franchismo, era necessario un González, giovane, moderno, vagamente marxista, favorevole all’autodeterminazione, più femminista e più avanzato sulle questioni LGTB rispetto al PCE e a gran parte dell’estrema sinistra degli anni ‘70, con l’onorevole e fondamentale eccezione del Movimiento Comunista, della Liga Comunista Revolucionaria e di una parte importante del movimento libertario e autonomo ricostituito. Non appena il PCE, l’estrema sinistra e i movimenti libertari e autonomi furono messi fuori gioco, entrò in scena colui che sarebbe rimasto nella memoria critica come il Sig. X connivente con l’“Operación Armada”-. Allo stesso modo, anni dopo, era necessario un Zapatero che osasse cavalcare la tigre del movimento contro l’invasione dell’Iraq, del movimento femminista, del movimento LGTBI e della fine di ETA, ma che si rivelò completamente incapace di opporsi all’austerità della BCE, alla Commissione Europea di Durão Barroso, alle banche, ai fondi di investimento e ai governi austeritari e rentisti dell’UE, con Germania e Paesi Bassi in prima linea.
Allo stesso modo, la figura di Pedro Sánchez è inconcepibile senza il ciclo politico di contestazione nato con il 15M, che poi si traduce nel ciclo elettorale 2014-2019. È proprio in questo momento che l’ambivalenza del PSOE smette di funzionare, precisamente quando si impegna fino in fondo nel ruolo che gli è stato assegnato.
L’esplosione del 15M, l’irruzione di Podemos e la contestazione del “candado del 78”[il “lucchetto” contenuto nella Costituzione del 1978, che ostacolerebbe il pieno sviluppo della democrazia, ndt ] da parte del movimento sovranista catalano sono stati più di quanto la funzione di “resilienza” del regime da parte del PSOE potesse sopportare. La nostra esperienza storica recente lo ha confermato. Il PSOE di Sánchez e i suoi alleati mediatici, sociali e sindacali sono riusciti a neutralizzare, dividere e ridurre a minoranza la rottura repubblicana e antioligarchica a cui conducevano le contestazioni nate dal 15M. Ma non sono stati capaci di fermare e correggere la devastazione provocata dal blocco reazionario politico, giudiziario, mediatico e finanziario durante i governi di Aznar, nell’opposizione a Zapatero e nei governi dell’austerità repressiva, nel mandato della Troika e nella complicità monarchica nell’applicazione dell’articolo 155 contro il sovranismo catalano.
[1]Il Movimento 15-M, conosciuto anche come movimento degli Indignados, è nato nel 2011 come un’ampia protesta pacifica dal basso, attraverso la quale i cittadini hanno manifestato il loro dissenso nei confronti del secondo governo Zapatero in Spagna.
Il problema irrisolto della situazione rivoluzionaria. Guerra e rivoluzione mondiale
Non sottovalutare il PSOE significa riconoscere che il PSOE non si dissolve, così come non si dissolve nessun partito-stato senza un cambiamento radicale nei rapporti di potere di classe, razza e genere al suo interno. Non si dissolve nemmeno quando è a capo di una coalizione con le burocrazie dell’apparato sindacale di Stato e la nomenclatura del PCE, in pieno regime di guerra. Troppo per il PSOE? È difficile pensarlo, nella misura in cui scarica la sua erosione sul suo socio minoritario. Tuttavia, è solo questione di tempo prima che quest’ultimo venga annientato e gettato via come una siringa usata. Riuscirà il PSOE a contenere le fughe tra le proprie clientele di classe media e tra i gruppi subalterni? È altamente improbabile, ma dipenderà dal peso e dall’intelligenza dell’«azione indipendente delle masse”». Con questa espressione, Lenin indica la condizione essenziale di ogni situazione rivoluzionaria. Lo fa in un testo classico che oggi assume un’attualità sorprendente, al di là di ogni lettura dogmatica o religiosa. In un celebre passaggio de La bancarotta della Seconda Internazionale, Lenin scrive:
«Un marxista non ha dubbi sul fatto che la rivoluzione sia impossibile senza una situazione rivoluzionaria; inoltre, non ogni situazione rivoluzionaria porta a una rivoluzione. Quali sono, in termini generali, i sintomi di una situazione rivoluzionaria? Sicuramente non commettiamo errore se indichiamo questi tre sintomi principali: 1) L’impossibilità per le classi dominanti di mantenere inalterato il proprio dominio; tal o talaltra crisi nelle “alte sfere”, una crisi nella politica della classe dominante, apre una breccia attraverso la quale irrompono il malcontento e l’indignazione delle classi oppresse. Perché scoppi una rivoluzione, di solito, non basta che “quelli in basso non vogliano”, ma è necessario anche che “quelli in alto non possano” continuare a vivere come prima. 2) Un aggravamento straordinario della miseria e delle sofferenze delle classi oppresse. 3) Una significativa intensificazione, dovuta a queste cause, dell’attività delle masse, che nei periodi di “pace” si lasciano sfruttare passivamente, ma che nelle epoche turbolente vengono spinte, sia dall’intera situazione di crisi sia dai “vertici”, a un’azione storica indipendente. Senza questi cambiamenti oggettivi, indipendenti non solo dalla volontà dei diversi gruppi e partiti, ma anche dalla volontà delle diverse classi, la rivoluzione è, di norma, impossibile».
È interessante confrontare questa definizione leninista di “situazione rivoluzionaria” con le considerazioni attuali di Peter Turchin sul punto critico di un ciclo di instabilità e cambiamento radicale in cui viviamo, e che descrive nel suo libro Final de partida: Élites, contraélites y el camino a la desintegración política. In un certo senso, Turchin applica un approccio simile a quello utilizzato da Emmanuel Todd in La caduta finale, che ha poi aggiornato in La sconfitta dell’Occidente, ma con un modello di analisi dei sistemi complessi molto più ricco e denso, basato su ciò che lui chiama cliodinamica – dal nome di Clio, la musa greca della Storia e della poesia epica – e sull’uso di un database dinamico con migliaia di variabili storiche, chiamato CrisisDB:
«La nostra analisi individua quattro motori strutturali di instabilità: l’impoverimento popolare che porta a un potenziale di mobilitazione di massa; la sovrapproduzione delle élite che sfocia in un conflitto tra élite; il deterioramento della salute fiscale e l’indebolimento della legittimità dello Stato; e i fattori geopolitici. Il motore più importante è la competizione e il conflitto tra élite, che rappresenta un indicatore affidabile della crisi imminente. Altri fattori sono spesso presenti, ma non sono universali. Per esempio, per i grandi e potenti imperi, i fattori geopolitici […] Prendendo in prestito le parole di Arnold Toynbee, i grandi imperi non muoiono per assassinio, ma per suicidio».
Ogni giorno che passa, l’inerzia ci trascina sempre più nelle sabbie mobili del regime di guerra. Il mese di febbraio del 2025 è un altro grande punto di svolta, atteso ma sempre sorprendente nei suoi contorni. Tornando al testo leninista, il punto 3 è la chiave della situazione attuale e l’aspetto più negativo della congiuntura presente. Dove si trova, dove giace o come potrebbe emergere l’«azione indipendente delle masse»?
Inventare la rivoluzione contro la società di guerra globale
La sconfitta del bidenismo e la vittoria dell’organizzazione Trump pongono la lapide sulla tomba del malminorismo globale o, come direbbe Lenin, sulla sua bancarotta. All’interno dei margini di manovra estremamente ridotti della formazione politica statunitense, non è stato fatto nulla per interrompere i fattori di crescita dell’estrema destra statunitense che hanno portato alla seconda vittoria di Trump.
Affermare che oggi abbiamo bisogno di combinazioni efficaci di auto-organizzazione delle classi sfruttate e oppresse, piattaforme elettorali, macchine e reti comunicative e rivolte inattese non è un esercizio estremista, ma un esercizio di realismo emancipatore. Ci costa molto rivedere oltre quarant’anni di presupposti politici (il presunto senso progressivo del capitalismo più lo stato di diritto, nonostante tutto; la solidità dei “mai più” antifascisti, anticoloniali, antimilitaristi, antipatriarcali, antinucleari; il peso crescente, pur con difetti fondativi, del sistema di governance e polizia mondiale delle Nazioni Unite; la progressiva, anche se accidentata, “occidentalizzazione” del mondo attraverso i mercati della cultura e della soggettività; la stabilità ed espansione delle “classi medie” e l’estrema improbabilità di rivolte e rivoluzioni nelle regioni occidentali; la fine della credenza comunista, ecc.).
Ogni giorno che passa, l’inerzia ci trascina sempre più nelle sabbie mobili del regime di guerra. Il mese di febbraio 2025 è un altro grande punto di svolta, atteso ma sempre sorprendente nei suoi contorni. Le incognite sul significato globale della seconda presidenza Trump si vanno chiarendo a ritmo accelerato. Al centro della dinamica della coalizione di governo di Washington si esprimono pulsioni, tanto politiche quanto libidinali, di appropriazione, accumulazione, godimento e morte suprematiste, patriarcali e coloniali, nel quadro di una repubblica coloniale oligarchica con funzioni di egemonia mondiale. Il XXI secolo è iniziato con l’11 settembre e il “colpo nell’Impero” di G. W. Bush e dei neoconservatori. Niente, e men che meno il malminorismo, dalla “Terza via” blairiana alla “socialdemocrazia di guerra” di Sánchez e Scholz, ha riparato e corretto questa dinamica di violenza sistemica capitalista, che ha conosciuto diversi punti di svolta fino a giungere all’inferno presente.
Parlando del Regno di Spagna: la vittoria contro la gestione malminorista dell’instaurazione della società di guerra è la migliore garanzia per una vittoria futura contro il governo PP-Vox.
Ricordando che la condizione necessaria ma non sufficiente per lo smantellamento dei regimi di guerra e l’annientamento delle forze del fascismo di mercato è l’«azione indipendente delle masse», nel caso del Regno di Spagna il principale dilemma è proprio come rompere l’egemonia del malminorismo nella coscienza dei gruppi subalterni e di parte delle classi medie in crisi di aspettative. Questo problema si sovrappone a quello della scissione auspicabile nel PSOE, inconcepibile senza «azione indipendente delle masse», ma che ha una profondità che va ben oltre le imprese elettorali.
La politica della paura malminorista è tanto importante quanto la sua realtà economica di blocco finanziario-statale basata sulla rendita parassitaria della cooperazione sociale e (ri)produttiva delle classi subalterne. Ci dicono: «non osate indebolire il PSOE perché sarete responsabili della vittoria del fascismo».
Vincere questa paralisi è, per le avanguardie di massa esistenti nel femminismo e nel movimento per la casa (senza dubbio le più tangibili nella congiuntura attuale), il primo passo decisivo. Quando l’«azione indipendente delle masse» entra in scena, la paura è stata sconfitta.
Nel frattempo, si tratta di esporre il vero ordine delle cause e degli effetti. I fascismi, di mercato o meno, vincono e mirano a ulteriori vittorie proprio a causa della consolidazione dei regimi di guerra in Occidente, nella Federazione Russa, in India e in Giappone principalmente. La consolidazione apre la strada alla trasformazione delle società di mercato in società di guerra, attraverso la militarizzazione della produzione e della vita mediatica e culturale. Di conseguenza, l’obiettivo tattico incondizionato passa per destabilizzare, smantellare e mettere in crisi la dinamica interna della società di guerra e i suoi principi di nuova gerarchizzazione di classe, razza e genere. Non possiamo dimenticare nemmeno che la contraddizione tra i fascismi di mercato e l’estremo centro occidentale è la determinazione attuale di ciò che Turchin chiama sovrapproduzione delle élite e il loro conflitto interno, e che per Lenin è «una crisi nella politica della classe dominante».
Questa è la questione decisiva: se l’obiettivo è lo smantellamento e la messa in crisi della formazione delle società di guerra, tale obiettivo non cambia se questa formazione è guidata dai governi e dalle imprese mediatiche e sociali malminoriste. Detto in altri termini: se il principale obiettivo è il combattimento contro la società di guerra, la vittoria contro la gestione malminorista della sua instaurazione è la condizione per la vittoria successiva o, nel migliore dei casi, per una resistenza efficace contro la gestione della stessa da parte delle forze della destra e dell’estrema destra. Parlando del Regno di Spagna: la vittoria contro la gestione malminorista dell’instaurazione della società di guerra è la migliore garanzia per una vittoria futura contro il governo PP-Vox. La costruzione, nella convergenza e nella ricomposizione delle lotte, di una controsocietà di contropoteri e forze elettorali di fronte alla società di guerra è l’unica cosa che garantisce la vittoria contro il fascismo di mercato, indipendentemente da chi governi.
Tradotto da Diario Red per DinamoPress da Alessia Arecco
L’immagine di copertina è Nemo, da Wikipedia
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