PRECARIETÀ
Guerra alla generazione invisibile
Il ministro Poletti ha sempre detto quello che non doveva dire. Ma è proprio attraverso certe dichiarazioni impietose e prontamente smentite che Poletti suggerisce importanti operazioni di verità sullo stato delle cose. Fin dalla prima trasmissione televisiva a cui partecipò fresco di nomina a Ministro del Lavoro, dichiarandosi “orgoglioso di rappresentare le Coop nel Governo”.
A seguito dell’ultimissimo scandalo provocato dal Ministro del Lavoro, che si scaglia con un impeto anomalo contro i “centomila giovani in fuga”, le richieste di dimissioni e le degne offese e minacce hanno giustamente invaso il web negli ultimi giorni, ripescando alcune delle migliori performance che Poletti ci ha regalato, tra foto celebri di cene mafiose e calorosi regali in soldi pubblici all’azienda del figlio. Tuttavia, più che sulle innumerevoli offese che il Ministro si è guadagnato sul campo, vorrei concentrarmi su una strana forma di disvelamento che anche le sue ultime dichiarazioni si portano dietro.
In primo luogo, il Ministro rileva in modo franco il disprezzo verso i giovani nascosto nel Jobs Act dei regali alle imprese, nel lavoro volontario, nei voucher. Dietro tale odio fattosi “politiche del mercato del lavoro”, si cela però un tentativo di perenne scongiura. Non potrebbe accadere, infatti, che un’intera generazione “condannata” alla sottoccupazione strutturale perda l’etica del lavoro? Non potrebbe, anziché abituarsi alla povertà e all’elemosina di un lavoro sottopagato, capire ed affermare che vivere non può essere solo ansia e fatica?
Per queste ragioni, serve abituare i futuri precari alla dura etica del lavoro fin dai primi anni della formazione, dalla Buona Scuola. Ma nemmeno l’abitudine di per sé è sufficiente, nell’Economia Politica della Promessa. Tale Promessa ha trovato una rappresentazione politica – efficace, dal suo punto di vista – in Matteo Renzi negli ultimi due anni e mezzo. “L’italia giovane, smart, che si mette a Fare” è una speculazione che ha funzionato ed ha permesso riforme devastanti in nome dei giovani, nonostante proprio le condizioni dei giovani nel frattempo andassero ulteriormente a picco. L’Economia della Promessa si è completata attaverso una Politica della Promessa.
Insomma, la Promessa è durata fin troppo, le cose sono state fatte, ed ora che la maschera di Renzi è caduta (almeno nella forma del giovanilismo che conoscevamo), nessuno sembra saper dare prospettive diverse dal litigio sterile, tipico passatempo nel campo del Politico. Tutto ciò non vuol dire che i giovani abbiano mai necessariamente “creduto” alla Promessa renziana. Ma significa che, funzionando specularmente alla Promessa del mercato del lavoro, Renzi si presentava da nuovo Premier come l’unica prospettiva in campo e, per quanto scadente poteva già apparire ai suoi esordi, “era qualcosa” in mancanza di alternative (esattamente come lo sono, tristemente, il lavoro gratuito e i voucher in moltissimi casi).
Oggi le prospettive vengono di nuovo a mancare completamente, e ci troviamo con un governo grigio e senza più neppure l’ombra di una Promessa. Che Poletti in questo quadro torni a dire cazzate e faccia parlare di sé goffamente, sembra il minimo. Che ci dichiari guerra, apre a delle possibilità.
C’è infatti anche una seconda, più sottile, rivelazione che mi pare ci consegni il Ministro del Lavoro nelle sue recentissime dichiarazioni. Al netto della imbarazzante formula “conosco gente che è bene sia andata via”, che farebbe pensare ad infantili rancori personali se non si trattasse di un membro del Governo, Poletti ci consegna un doppio livello del suo odio (di classe) generazionale. Questa gente che per il ministro se ne deve andare, rappresenta un fatto sociale per lo più trascurato. Infatti, non se ne vanno solamente “i cervelli”.
Nel senso che siamo in un paese dove sono più quelli che partono di quelli che arrivano (ben più dei centomila che cambiano residenza!), dove non si trova menzione nei media ufficiali per i tantissimi che vanno a farsi “solo” la stagione schiavizzati in un Pub di Londra, in una vendemmia francese o in uno stage chissà dove, per tornare più o meno disoccupati e più o meno in formazione permanente… precari né più né meno di quelli rimasti.
Oltre ai cervelli ci sono centinaia di migliaia di corpi che si muovono per l’Europa e non solo a cercare, se non una Risposta – anche parziale – alla Promessa, almeno due spicci in più di quelli percepiti in Italia per condurre la stessa vita precaria.
Al netto delle importanti differenze riguardanti il welfare state, il fenomeno che più tradizionalmente porta i giovani precari a spostarsi verso alcune città e alcuni pezzi di metropoli, soprattutto da Sud a Nord, restando nel nostro paese, assume caratteristiche analoghe e complementari. E costruisce geografie impazzite, dove i giovani non esistono più in buona parte di “Italia dei piccoli comuni”.
Questo fenomeno di mobilità precaria giovanile è complesso e di per sé produce scambi di conoscenze ed esperienze, da cui si configurano certo dei “cervelli”, spesso iperformati e comunque capacissimi, ma poveri e senza canali di espressione pubblica, sociale e politica. Non si tratta perciò di “cervelli in fuga” nei termini raccontati per più di un decennio dai media italiani come “quelli che se ne vanno ad esprimere il genio italico altrove, puntando al Nobel”, mentre qui rimangono gli sfigati, i bamboccioni – l’ovvio non detto. Di fronte a tale complessità questa narrazione tossica non regge più, non ha alcun senso.
Dobbiamo dunque intenderci: se è vero che la condizione del ricercatore può essere oggi letta come paradigmatica della nuova Economia Politica della Promessa, e lo diventa in modo paradossale nelle macerie dell’accademia italiana quale eccellenza di clientelarismo e gerontocrazia. Ridurre ad una categoria lavorativa, per quanto significativa, l’intera questione generazionale che ha caratteri di crisi demografica, sociale e politica è frutto di una costruzione mediatica che è stata potente nel limitare il problema, ma i cui argini non reggono più.
Emblematico in questo senso che l’unica risposta al ministro, ottima e diffusissima in rete, a cui viene dato spazio dai grandi media è quella di una “ricercatrice a Parigi”. La risposta è davvero eccezionale ma, malgrado le giuste parole che inquadrano la questione generazionale come sociale a tutti gli effetti, essa rimane “situata” nel dimostrare il proprio cervello volar via, nell’ingaggiare e vincere un testa a testa con lo stupido Ministro. È la risposta di una preparatissima ricercatrice, non di una generazione, non può purtroppo essere percepita come tale nel panorama mediatico italiano di oggi.
È in questo quadro che le dichiarazioni di Poletti risultano interessanti, perché il disprezzo dall’alto della sua poltrona ci investe tutt*, partiti o rimasti. E segnala così, dalla parte del nemico, quella mistificazione dei cervelli in fuga che anche lo stesso Renzi aveva cavalcato “per farli tornare”, ma che diventa inutile, una volta caduta la maschera politica della Promessa di futuro.
La crisi dell’Economia Politica della Promessa segnata dal Referendum ha avuto carattere politico-elettorale, con più dell’80% dei giovani che hanno votato No, tra cui moltissimi astensionisti, che probabilmente torneranno tali. È una crisi politica. Non nel senso che permette di costruire, in nome dei giovani, un’ennesima “alternativa” da far votare ai nonni nostalgici. Ma è una crisi politica nel senso che interroga una reinvenzione delle forme di identificazione collettiva ed azione comune – e dunque di movimento –, che possano marcare la propria differenza rispetto al trincerarsi nel campo del politico da parte del renzismo senza Renzi e dei suoi mille avversari nominali.
Questa crisi e le forme di movimento che sono quindi necessarie non possono che guardare al percorso che ha marcato la differenza della marea femminista; ai linguaggi e ai metodi, che hanno immaginato, costruito e viralizzato la grande giornata del 26 Novembre e che proseguiranno con lo sciopero globale dell’8 Marzo, mettendo in gioco quegli aspetti di produzione e riproduzione “invisibile” che caratterizza il dominio maschile sulle donne.
Tanto si può e si deve imparare da quel percorso proprio perché come la soggettività femminile, anche la nostra generazione, nelle sue svariate forme di vita precaria, risulta invisibile e priva di voce autonoma. La maschera giovanile del nemico è caduta e la guerra ci è di nuovo dichiarata direttamente. Ora è il momento di uscire allo scoperto e, finalmente, farci sentire.