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MONDO
American Fascism: lettera dal golpe statunitense
Gli Stati Uniti d’America sono intrappolati nel Truman Show di Trump, dove il potere si esercita come spettacolo e la violenza si insinua nella quotidianità. Dalle deportazioni in diretta all’epurazione degli oppositori, ogni gesto è performance, ogni politica uno strumento di dominio mediatico. Mentre la democrazia si sgretola, il paese scivola in un regime che mescola reality, brutalità e culto del leader
La litigata in diretta con Zelensky nello studio ovale è stata, finora, l’episodio più clamoroso del Truman show in cui Donald Trump ha sprofondato l’America e il mondo. Come l’antieroe della fantasy distopica di Peter Weir ognuno è prigioniero di “Trump World” nel quale un volubile taumaturgo sembra alzare quotidianamente la posta in gioco.
Nel giorno in cui ha diffuso la versione AI di una Striscia di Gaza convertita in Trump-Vegas, il presidentissimo ha anche sventolato davanti ai giornalisti un foglio comprovante (a suo dire) come avesse «attaccato e sconfitto» la California, mandando il genio militare aerotrasportato a «riaprire i rubinetti» e riportare l’acqua allo stato riarso e bruciato.
L’“operazione”, senza discernibile motivazione o attinenza con la realtà, è ammontata a una mastodontica e insensata puntata del reality prodotto dal presidente per la propria base, in cui egli interpreta l’eroe giustiziere in una serie di emergenze inventate o adattate per conformarsi al copione semplificato della sua narrazione.
Lo sono in gran parte, per ora, anche le operazioni di rimozione dei 12 milioni di immigrati non in regola, che Trump ai suoi seguaci assicura essere composti da terroristi, malfattori, galeotti e criminali. Anche questo “dramma” si svolge nel mondo dei fatti alternativi e delle paure artefatte. Le retate sono annunciate, citate e fortemente pubblicizzate. Le prime sono state condotte con troupe televisive “embedded” di emittenti amiche come Fox News, onde ottimizzare la risonanza – fra gli stessi immigrati, ma soprattutto fra i sostenitori.
Al termine dell’assalto a Zelensky, inscenato con il comprimario vice-presidente alla stregua delle sceneggiate di wrestling di cui è patito, dopo aver messo alla porta il “cattivo”, Trump ha esclamato: «Questa sì che è televisione!»
Oltre che come volubile monarca, il presidente sembra effettivamente affrontare il mandato come un produttore esecutivo. La Casa Bianca ha diffuso altri video della deportazione: persone in catene caricate su voli di espatrio. Lo scalpore suscitato ha misurato il successo, se non delle espulsioni, di un’iconografia della vittoria atta a soddisfare la massa portata al delirio.
Per rincarare l’effetto “trigger”, è stato poi diffuso un video-sequel di “stimolo sensoriale”, con amorevoli primi piani e audio amplificato delle catene tintinnanti – il “punishment porn” reclamato dagli abbonati alla telenovela Maga, un grand guignol il cui fine è la rappresentazione performativa della crudeltà come strumento di catarsi.
I figuranti in queste squallide rappresentazioni sono senza nome e vengono imbarcati verso destinazione ignota, forse Guantanamo, altro “meme” di grande effetto come simbolo di insindacabile severità penale. Nel campo punitivo è stata spedita la comprimaria Kristi Noem, la reginetta della tolleranza zero a capo di Homeland Security. Travestita da agente speciale, ha recitato la parte di gerarca carceraria per alcuni video virali, necessari a incutere timore, accompagnati da minacciosi post su X. «Il dossieraggio degli agenti della migra verrà severamente punito dalla legge». Cittadini e ONG che pensano di documentare i raid si ritengano avvertiti.
Ogni gesto ed esternazione è calibrato per incutere timore, con l’ausilio, se necessario, di un variegato armamentario scenico, dalle motoseghe ai meme con effigi da imperatore. Ogni iniziativa prende così la forma di bullismo. I licenziamenti di massa di dipendenti pubblici avvengono nella forma più umiliante possibile, magari imponendo una futile autogiustificazione della propria esistenza in cinque punti di un’e-mail. Quando gli (ormai ex) impiegati della USAID sono stati riammessi nei locali da cui erano stati espulsi, hanno avuto 15 minuti per raccogliere gli effetti personali e sparire. Molti, pubblicamente definiti profittatori da Musk e Trump, sono usciti in lacrime, e d’altronde Russel Vought, architetto del Project 2025 (e attuale capo del Dipartimento per la Gestione del Bilancio) l’aveva messo nero su bianco: «I burocrati devono essere traumatizzati».
La devastazione dello stato sociale costruito cent’anni fa con il New Deal e rafforzato dalla Great Society negli anni ’60, e la decimazione dello stato di diritto, vanno oltre le semplici, seppur radicali, riforme e prendono immancabilmente la forma di una vendetta. Non è quindi un semplice stato “snellito” a emergere, ma un congegno autoritario che esprime in ogni decreto e prosaica circolare l’ideologia estremista che lo caratterizza nel profondo. La scorsa settimana il ministro dei trasporti Sean Duffy (uno dei tanti funzionari MAGA nati come vedette della televisione reality) ha annunciato che i finanziamenti federali all’infrastruttura stradale verranno assegnati prioritariamente a città e province che dimostrino i tassi più alti di matrimonio e natalità. La viabilità pubblica e la manutenzione stradale ridotte a espressioni di politiche eugenetiche, quelle che mettono d’accordo le componenti identitarie, integraliste e nataliste neoreazionarie di Silicon Valley.
Sia Peter Thiel che Steve Bannon condividono, dopotutto, l’idea intimamente nazista di una società cui giovano periodiche “tosature” atte a “sfrondare i rami secchi” e poco produttivi. È un’idea su cui torna spesso anche Elon Musk, che perora da tempo il concetto di nazione “meritocratica”, in cui l’immigrazione deve assomigliare a una campagna acquisti di una squadra sportiva di successo (più transazionale, come suo solito, Donald Trump, che ha lanciato la “gold card” da 5 milioni di dollari che vale la cittadinanza al maggiore offerente). L’efficientismo aziendalista sopravanza ormai abbondantemente la dialettica del miliardario super partes; l’idea di società-azienda è stata traghettata d’un sol pezzo dai podcast dei “CEO philosophers” di Silicon Valley e fusa al tradizionale assioma neoliberista dello stato minimo.
Ogni resistenza, per citare nuovamente Project 2025, va preventivamente piegata.
Molto del copione era scritto in quel documento programmatico, stampato già a metà del 2023 (e ripetutamente sconfessato da Trump in fase elettorale). La foga fanatica della sua applicazione, anche per quelli di noi che hanno suonato l’allarme con anticipo, è stata la peggiore delle conferme. Che l’appalto al picconatore Musk per la demolizione dello stato sociale costruito dal New Deal fosse così totale non era del tutto scontato, anche perché il sodalizio si è consolidato tardi, nelle fasi finali della campagna. Il piano operativo per entrare nei ministeri, assumere il controllo dei sistemi informatici e dare inizio immediato all’epurazione è stato messo a punto da Musk, Vivek Ramaswamy e un gruppo di collaboratori in una serie di incontri a Mar-a-Lago nelle settimane dopo le elezioni, come si fa per il piano trimestrale di una consociata.
L’attuale fase somiglia a quella di un “terrore” rivoluzionario, quella sindrome di Phnom Penh che paventavamo qui già lo scorso autunno. Ed il programma consiste proprio nel diffondere la psicosi, un senso di impotenza e angosciata oppressione che si insinua in tutti gli ambiti.
A cinque settimane dall’insediamento, il New York Times parla già di «un grande freddo moscovita», che si sta radicando nella Washington di Trump. Un paragone che sarebbe sembrato azzardato ancora poche settimane prima, ma che rende l’idea dello smarrimento di una popolazione che sente incombere un potere inconoscibile e insindacabile.
È la sensazione che prevale non solo nei ministeri, ma nel vasto indotto parastatale che dipende più o meno direttamente dai fondi governativi. Per le università, ad esempio, già nel mirino delle crociate anti-woke di molti stati rossi [cioè repubblicani], l’abbattimento dei finanziamenti pubblici rischia di essere un colpo di grazia. Non si tratta solo della probabile abolizione del Dipartimento dell’Istruzione pubblica, ma delle borse federali su cui è predicato l’intero impianto accademico e di ricerca scientifica. Il loro drastico ridimensionamento verrà utilizzato come arma di ricatto per assicurare l’adempienza all’agenda anti-woke e ribaltare «l’iniqua egemonia» di sinistra nella cultura.
Negli atenei, la convivenza con questo totalitarismo è già un problema quotidiano per accademici che sperino di salvaguardare i finanziamenti da cui dipende il loro lavoro, costretti già di fatto a navigare campi minati di testi proscritti, parole proibite, mentre una delazione anonima può facilmente stroncare la carriera.
Lo scalpo della ricerca come trofeo della “vittoria” nelle guerre culturali equivale allo strangolamento di tutto ciò che ha rappresentato l’ottimismo della New Frontier kennediana e significa, per gli USA, scardinare una parte intrinseca della propria identità come superpotenza scientifica e innovativa. Nella “grande purificazione”, gli scienziati sono denunciati e derisi come “expert class”. Vengono diramate direttive con termini proscritti, che è vietato utilizzare nei rapporti, e vengono sabotati gli archivi statistici come il BEA (economia), NOAA (clima emeteorologia), CDC (salute). Più che colpi mortali allo stato amministrativo, somigliano a fatali karakiri. Negli Stati Uniti del nuovo oscurantismo si sono costituite reti di scienziati per copiare e mettere in sicurezza dati di ricerca della comunità scientifica mondiale. Intervistato dalla NPR, uno di loro afferma che si teme per «una generazione di risultati scientifici». Mentre si organizzano i nuovi amanuensi, dal Texas giungono preoccupanti bollettini su focolai di morbillo fra una popolazione scarsamente vaccinata. Un altro titolo del “Times” riassume l’impensabile e mette fine all’idea del progresso scientifico lineare, l’idea stessa di modernità: «Dal Texas segnali di un futuro più incerto per i bambini».
L’America neo-oscurantista non è più fantapolitica: è già nella revisione ideologica dei libri di testo, nella proibizione di insegnare storia “divisiva” e nell’obbligo dei programmi “patriottici”. Un bel documentario, passato a gennaio al Sundance Film Festival, Mr. Nobody vs. Putin, attesta la progressiva stretta propagandistica su una scuola della profonda Russia putiniana con il progredire della guerra in Ucraina. Vista dall’Alabama o dalla Louisiana, la deriva è sinistramente speculare.
Ed è questa la trasformazione viscerale: l’avvento di un ultracorpo retrogrado, dei suprematisti rampanti, degli hacker iperliberisti della democrazia, dei predicatori apocalittici che nello Studio Ovale impongono le mani a quello che considerano un “nuovo Re Ciro”, messaggero imperfetto ma profetico, mandato dall’Onnipotente per portare la vittoria ai fedeli, agli Americani veri.
Un’allucinazione collettiva delle parti peggiori del Paese, in cui lo stesso Trump sembra voler saggiare gli argini del credibile, ricorrendo, ove le provocazioni ordinarie non bastino, a quelle generate con l’intelligenza artificiale. È ancora il cinema a proporre le metafore più adeguate: il Dottor Stranamore, con quel vizio del braccio che scatta in avanti; Biff, il bullo violento e amorale capace di generare un universo parallelo, squallido e kitsch, in Ritorno al futuro. L’America involuta in impero degli stolti e degli ignoranti in Idiocracy, un mondo di cinico di egoismo e ferocia darwinista che sembra ogni giorno più profetico.
Ciò che più distingue il Trump bis dal primo mandato, tuttavia, e ciò che davvero è più preoccupante è l’acquiescenza a cui si sono plasticamente allineati i boss delle piattaforme e a cui si stanno sommando pezzi insospettabili dell’establishment, non solo industriale. Ad esempio, l’obbedienza anticipata di molta stampa.
È molto chiaro adesso come il consolidamento dei media in conglomerati verticalmente integrati, sempre più facenti capo a colossi digitali, sia stato propedeutico alla sudditanza. Disney e Meta patteggiano con mega pagamenti (40 milioni di dollari) le querele di Trump, che contestava scelte editoriali e perfino di montaggio che l’avrebbero sfavorito. Le cause avrebbero avuto scarse possibilità di prevalere in tribunale, e i risarcimenti preventivi equivalgono dunque a tangenti per ingraziarsi il presidente. Alla MSNBC, emittente “liberal” del gruppo Comcast, va in scena un’epurazione di giornalisti e conduttori («troppo abrasivi«). La CNN manda a casa Jim Acosta, spina nel fianco dei portavoce della Casa Bianca. Il “Washington Post” adegua la linea editoriale con un laconico annuncio dell’editore Jeff Bezos: da ora in poi gli editoriali del giornale rifletteranno unicamente posizioni favorevoli «alla libera espressione e al libero mercato». Altri punti di vista «non sono più necessari», ha precisato Bezos, «perché ormai per quello c’è l’internet». Ove non basti l’obbedienza volontaria, vige l’espulsione dalla sala stampa della Casa Bianca, come accaduto alla Associated Press per non aver ribattezzato il Golfo del Messico col nuovo nome imposto dal governo. La scelta dei giornalisti del pool presidenziale, inoltre, è stata tolta alla gestione storica dell’Associazione dei corrispondenti della Casa Bianca. «Sono fiera di comunicare», ha detto la portavoce Karoline Leavitt, «che ridaremo questo potere al popolo». E del popolo, si sa, la stampa è nemica. Al posto di grandi organi di informazione sono stati invitati podcaster e influencer di estrema destra, che si sono subito messi in luce, come il blogger che ha redarguito Zelensky per non essersi messo la cravatta.
Negli Stati Uniti non vi è mai stata propriamente una stampa “di regime”, ma è ormai inequivocabile una deviazione in questa direzione. E, come ha affermato Martin Baron, direttore del “Washington Post“ fino al 2021, si è verificata una definitiva frattura epistemica. «Siamo a un punto in cui non si tratta nemmeno più di divergenze di opinione, ma di una fondamentale differenza su cosa siano i fatti». In questo senso, lo stravolgimento della funzione essenziale della stampa – più della “decostruzione” dello stato e più ancora dello sconvolgimento geopolitico – segnala il mutamento degli USA di Trump in qualcosa di profondamente divorziato dai miti fondativi che l’hanno governata. La capitolazione del “Washington Post“ è particolarmente emblematica per il ruolo avuto dalla testata di Woodward e Bernstein nello scandalo Watergate, momento fulgido della stampa come garante contro lo strapotere e la corruzione, che dall’osservatorio odierno sembra uno sbiadito anacronismo.
L’America è agitata oggi dai suoi antichi fascismi, dai fantasmi di McCarthy e di J. Edgar Hoover. L’FBI, l’agenzia plasmata da quest’ultimo come forza ricattatoria e repressiva per schiacciare il dissenso negli anni ’60, promette, nella versione trumpista, di superare anche l’esempio di Hoover e tramutarsi apertamente in polizia politica. Il nuovo direttore Kash Patel, avvocato e militante MAGA, ha affermato di voler reclutare “patrioti” per «correggere gli avvocati e i giudici che ci hanno incriminato, strumentalizzando politicamente la legge». «Andremo a stanare i cospiratori non solo nel sistema giudiziario, ma nei media. Sì, andremo a trovare giornalisti che hanno mentito al popolo americano aiutando Biden a imbrogliare le elezioni». Il suo vice, Dan Bongino, è un ex-agente del Secret Service, titolare di un podcast di estrema destra, che ha scritto: «L’ironia per tutti i pezzi di merda comunisti lib che premono per la guerra fredda civile è che per loro finirà molto male», parole della dirigenza del più potente corpo di polizia del Paese, cui ha regolarmente fatto seguito l’epurazione prescritta dal manuale per l’occupazione del potere.
Il sistema riguarda anche le forze armate, che negli Stati Uniti sono per tradizione rigorosamente apolitiche. Già nel 2019 Trump ventilò l’ipotesi che le truppe intervenissero contro i manifestanti BLM. Allora trovò netta resistenza nei quadri militari (per quel “tradimento” del Capo di Stato Maggiore, generale Mark Milley, che allora oppose il rifiuto, Trump avrebbe poi suggerito la pena capitale). A febbraio è arrivata puntuale una notte dei lunghi coltelli anche al Pentagono, con il licenziamento dell’attuale Capo di Stato Maggiore, il generale CQ Brown, e dell’ammiraglia Lisa Franchetti. La loro sostituzione con ufficiali dalla comprovata fedeltà a Trump depone molto male per future prospettive, ad esempio l’impiego dell’esercito in caso di disordini civili (un’eventualità che pare sempre meno remota). Il sostituto di Brown, generale Caine, è di dichiarata fede MAGA e ha detto significativamente a Trump: «Signore, io la amo e per lei sono pronto a uccidere».
Difficile discernere con esattezza, in questo contesto, dove finisca la strategia e dove inizi la patologia, soprattutto per quanto riguarda il presidente-sovrano, che dopo 250 anni sta ponendo fine all’esperimento americano (nato sotto il segno di un altro re bipolare, Giorgio III d’Inghilterra, che dovette essere confinato in una stanza di palazzo per le sue escandescenze). Per Trump sembra empiricamente assodata quantomeno la fisiologica mancanza di empatia e ormai comprovato, a questo punto, anche il disturbo narcisistico di personalità. Trump-bis è in certa misura un vasto esperimento che ha messo a disposizione di un individuo sociopatico e infinitamente avido il potere già immenso della presidenza americana, potenziato ora dall’invulnerabilità giuridica regalata dalla Corte Suprema alleata.
C’è chi evoca il neo-cesarismo, ma ogni giorno aumentano gli indizi che suggeriscono un impero già prossimo allo stadio Caligola – in cui un sistema sotto shock assiste alle intemperanze sempre più stupefacenti del monarca folle. Come in quel parallelo, il grottesco si accavalla al crudele, senza che un sistema calibrato per conferire potere trovi gli anticorpi necessari a opporre resistenza.
Soprattutto, senza che sia emersa un’opposizione politica minimamente efficace. A fronte dello sbigottimento indignato di molti cittadini (compresa una parte non pari a zero di persone che hanno votato Trump), la leadership democratica esibisce poco più che sbando, paralisi e smarrimento dinanzi al golpe che procede quotidianamente. La gente, e questo è un dato particolarmente infelice rivelato dall’assalto frontale di Trump-Musk, è stata lasciata sola da una leadership impreparata ad affrontare il momento storico. In questo vuoto, lo scontro sembra destinato a consumarsi in modo più aspro e pericoloso, una volta che la violenza sociale (o il plausibile sconquasso economico) iniettata dai golpisti sarà penetrata a fondo nel corpo sociale.
Finora i Democratici si sono accontentati di affidarsi all’iter giuridico di ricorsi, i cui tempi inadeguatamente lenti sono però messi pienamente in conto dai pasdaran di Musk, che hanno avuto accesso al codice sorgente della Costituzione e, indisturbati, stanno facendo scempio dello Stato e di vite umane dalle console dei loro computer – soldati-bambino del complesso tecno-industriale dei padroni del software.
“Il concomitante sconvolgimento geopolitico è strettamente legato alla mutazione genetica del Paese provocata dal trumpismo. L’America ha proiettato la propria egemonia sul mondo e ha seguito una vocazione imperialista a partire dai primi vagiti della Dottrina Monroe (1823), passando dall’interventismo di Teddy Roosevelt e dall’ordine politico-economico del dopoguerra nato a Bretton Woods (1944) e solidificato nella Guerra Fredda e nelle sue propaggini. Con Israele, è una delle due nazioni che non riconosce confini ai propri interessi nazionali e dichiara il diritto di “difenderli” con forza militare ovunque nel mondo. In questo senso vi è una continuità di fondo fra Trump e i suoi predecessori, benché ora quegli interessi si allineino con quelli di un’oligarchia ultracapitalistica e mercenaria e con le pulsioni reazionarie e integraliste di una “superpotenza canaglia” – un soggetto inedito e imprevedibile sulla scena mondiale.
Ora che è chiaro quanto drammatico, irrevocabile e fatale sia stata l’elezione del 5 novembre, è evidente anche che il dilemma per il mondo è lo stesso che si pone per la democrazia americana. In entrambi i casi, la via d’uscita da questo volatile momento, se ce ne potrà essere una, dovrà forzatamente provenire dal suo interno.
1 marzo, 2025
La foto di copertina è opera dell’autore Luca Celada
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