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ITALIA
Suicidi, sovraffollamento. Intervista a Valentina Calderone: «Immaginare una società libera dal carcere? Doveroso!»
Nell’intervista a Valentina Calderone vengono passati in rassegna orrori e disfunzioni del sistema carcerario italiano, di cui sovraffollamento e suicidi sono solo gli aspetti più vistosi. Il tabù dei provvedimenti di clemenza e come immaginare una società libera dal carcere
La drammatica situazione di sovraffollamento delle carceri si sta ogni giorno aggravando e il numero dei suicidi dei detenuti è solo il suo indice più vistoso e intollerabile. Abbiamo intervistato al proposito Valentina Calderone, Garante dei Diritti delle Persone Private della Libertà del Comune di Roma, direttrice dell’associazione A Buon Diritto dal 2013 al 2023, autrice, insieme ad altri, dei libri Quando hanno aperto la cella (Il Saggiatore 2011), Abolire il carcere (Chiarelettere 2015) e Il carcere è un mondo di carta (Momo edizioni 2024).
Dinamopress: Il 2024 è stato un annus horribilis per Regina Coeli e le carceri italiane in generale. Il numero di suicidi è stato il più alto di sempre (88), così come il numero dei decessi (243). Anche il numero di rivolte è sempre più frequente. Cosa sta succedendo?
Valentina Calderone: Io le chiamerei proteste e non rivolte, innanzitutto. Stanno succedendo una serie di eventi all’interno degli istituti. Ovviamente, non si può parlare del momento attuale senza parlare delle condizioni di vita delle persone, senza parlare del sovraffollamento. E questo interessa tanto le persone che sono nelle carceri per adulti, quanto purtroppo anche i minorenni e le minorenni che si trovano recluse. Assistiamo a un aumento sproporzionato dei numeri che ci sta facendo tornare molto rapidamente ai tempi pre-Torreggiani, quindi a un momento in cui già siamo stati sanzionati [dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ndr] per lo stato dei nostri istituti penitenziari. Poi, ovviamente, ci sono strutture che soffrono di più questa condizione. Nella domanda citavate Regina Coeli: Il vecchio carcere romano ha un sovraffollamento di oltre il 180%, il che significa che su 570 posti disponibili ci sono attualmente 1.050 persone. Ma il sovraffollamento non è solo una questione di corpi, di spazi e di persone che devono contendersi le docce o un materasso o un posto letto. Il sovraffollamento ha ovviamente degli effetti a cascata, riguarda anche quello che è il senso della presa in carico delle persone e del trattamento individuale. Se raddoppiano i numeri, non raddoppiano i funzionari giuridico-pedagogici, non raddoppiano i medici, non raddoppia il personale di polizia che è preposto a fare la sorveglianza, ma anche, in realtà, a garantire lo svolgimento delle attività ordinarie e quotidiane. In queste condizioni ogni cosa è esasperata ed è esasperata ancora di più dal fatto che nei mesi scorsi era montata una sorta di speranza nella popolazione detenuta rispetto a dei provvedimenti di clemenza o almeno deflattivi; speranze che sono state completamente frustrate nell’indifferenza generale e nella pochezza dei provvedimenti governativi su questo tema.
Hai menzionato anche la questione degli istituti per minori. Sappiamo che c’è stato un aumento dei detenuti e un aumento delle proteste e delle tentate evasioni. Quale ruolo gioca il cosiddetto DL “Caivano”, che è stato approvato dal Governo Meloni?
Penso che della situazione degli istituti di pena minorili se ne parli sempre troppo poco, mentre invece dovrebbe essere il principale campanello d’allarme per capire dove stiamo andando. Il nostro sistema penale minorile era un sistema modello per l’Europa e stiamo riuscendo a smantellarlo. Fino a pochissimi anni fa, in Italia avevamo una media di 300 tra ragazzi e ragazze all’interno degli istituti penali per minori. I dati, al 15 febbraio 2025, ci dicono che sono 610, quindi un aumento di oltre il 100% in pochissimi anni. In base allo stesso ragionamento nei confronti degli istituti per adulti, qual è, in queste condizioni, l’attenzione riguardo ai percorsi individuali che questi ragazzi e ragazze si meriterebbero e a cui dovrebbero accedere per diritto? I problemi che elencavamo prima sono i medesimi, anche rispetto alla quantità di lavoro richiesto al personale, visto che a un aumento dei detenuti e delle detenute non corrisponde un aumento del personale stesso. Sicuramente il DL Caivano ha contribuito da più punti di vista a questa situazione. Purtroppo non abbiamo ancora le statistiche ufficiali rispetto agli specifici reati introdotti, penso all’arresto in flagranza per spaccio di lieve entità di sostanze stupefacenti, che sarebbe importante scorporare da tutti gli altri arresti effettuati. Sull’osservatorio che ho dell’istituto penale minorile di Casal del Marmo, su una settantina di ragazzi e ragazze che sono lì detenute, sette/otto mediamente sono dentro con un’imputazione di spaccio di lieve entità. C’è questa vicenda che racconto spesso ultimamente, di questo ragazzo sedicenne tunisino che è detenuto in un minorile perché è stato trovato con 0,6 grammi di hashish, 0,4 di marijuana e 20 € in tasca a prova, diciamo così, di chissà quale attività illecita. Allora, se noi incriminiamo e deteniamo ragazzi minorenni con queste accuse, stiamo totalmente fallendo l’approccio alla giustizia minorile, che dovrebbe prevedere la detenzione ancora più residuale rispetto a quella degli adulti. Il risultato è che stanno entrando più minorenni che giovani adulti e sta aumentando il numero, ovviamente, dei minori stranieri non accompagnati. E quindi tutto questo sistema, tanto per gli adulti quanto per i minori, in realtà racconta della nostra incapacità come società nell’offrire delle soluzioni alle persone. È evidente come per alcune categorie lo spauracchio dell’incarcerazione sia sempre presente, anche a causa della nostra inadeguatezza nella creazione di servizi sul territorio che possano prevenire ed evitare a queste persone di finire in carcere.
Questa sembra essere la tendenza di questo governo rispetto al rapporto fra prevenzione, trattamento e incarcerazione. Emerge abbastanza chiaramente dal cosiddetto “Disegno di legge Sicurezza” in discussione al Senato. Questo disegno di legge introduce anche il reato di rivolta penitenziaria. Puoi spiegarci cosa prevede, quali rischi comporta per la popolazione carceraria e quali sono le conseguenze sul rapporto fra agenti penitenziari e detenuti?
Non possiamo dire che sia una prerogativa di questo governo, da molti anni ormai assistiamo a una dinamica politica e governativa in cui si danno risposte a questioni complicate attraverso decretazione d’urgenza, introduzione di nuovi reati e inasprimento delle pene. Purtroppo un trend molto ben consolidato degli ultimi decenni, con un evidente picco negli ultimi due anni. A me colpisce la spietatezza che traspare dalla decisione di intitolare un decreto in cui si inaspriscono le pene per i cosiddetti scafisti a Cutro, il luogo di un naufragio, o intitolare a Caivano, luogo di un evento altrettanto tragico, il decreto con cui inasprire le pene e in parte smantellare il sistema penale per minorenni. La linea del Governo è affermare che la risoluzione di alcune questioni molto complesse passi attraverso l’aumento dei reati e degli anni di carcere, provvedimenti rapidi e a costo zero, ma con un impatto emotivo molto forte sulla cittadinanza e con indubbi ritorni in termini di consenso elettorale.
In questo contesto, si pensa quindi che il problema delle proteste in carcere sia una questione esclusivamente di ordine e sicurezza, non rendendosi conto che in realtà, nella maggior parte dei casi, le persone protestano perché si trovano a vivere in una situazione di fatto illegale. È evidente come il corpo delle persone detenute sia l’unico strumento che esse stesse hanno per riuscire a ottenere una risposta, per avere un incontro con la direzione, per riuscire a chiedere che venga ripristinata l’acqua calda dopo due settimane che si fanno la doccia con l’acqua fredda o per pretendere che vengano aggiustati i riscaldamenti. La cosa grave, a mio avviso, è che il nostro ordinamento prevede già la possibilità di sanzionare i comportamenti illeciti all’interno degli istituti. Non c’è bisogno di creare nuovi reati specifici, abbiamo tutti gli strumenti per intervenire.
Se il decreto sicurezza dovesse passare così com’è, mi preoccupa molto l’introduzione di questa nuova fattispecie di reato: la rivolta passiva. Azioni di protesta quali ad esempio il non rientro in cella (una modalità di dissenso molto utilizzata che consiste nel non rientrare in stanza alla fine della cosiddetta ora d’aria) oppure lo sciopero del carrello (non prendere il cibo dell’amministrazione) configurerebbero una non ottemperanza all’ordine dell’autorità. Questi comportamenti potrebbero essere sanzionati, se messi in atto da tre o più persone, con una pena fino a otto anni di carcere. Mi pare evidente la gravità di questa previsione. Bisogna poi chiedersi: chi è titolato a denunciare questi comportamenti? Sono ovviamente le stesse persone che hanno in custodia le persone detenute. Questa nuova fattispecie di reato potrebbe diventare uno strumento molto pericoloso, che si presta ad abusi e arbitri nei confronti di una popolazione detenuta che spesso non ha altro modo per farsi sentire o per rivendicare dei diritti che continuano a mancare.
Rispetto al sovraffollamento alcuni degli strumenti utilizzati negli ultimi decenni sono l’amnistia e l’indulto. Tuttavia, l’ultima amnistia è del 1992 e l’ultimo indulto del 2006. Poi, come ben sappiamo, più nulla. Secondo te sono provvedimenti che potrebbero essere ripresi oppure sono destinati a sparire definitivamente? Qual è il dibattito su questo?
Vari esponenti dell’attuale Governo si sono più volte espressi in maniera contraria, arrivando a dire che i provvedimenti di clemenza rappresentano una “resa dello Stato”. Io vorrei ricordare che sono strumenti previsti dalla Costituzione, non ce li stiamo inventando adesso. E dato che esistono, significa che possono essere utilizzati quando ce n’è bisogno. Mi pare superfluo aggiungere che ce n’è bisogno ora. Nel disastro del sistema attuale, pensare di intervenire in maniera strutturale investendo sulla formazione, sul lavoro, su percorsi individualizzati, sul potenziamento delle strutture di accoglienza per consentire percorsi alternativi, è semplicemente irrealizzabile. Se il sistema è sovraffollato, congestionato, esausto, questi interventi non si possono fare. Amnistia e indulto sono stati previsti e utilizzati come strumenti straordinari ma possibili, proprio perché in alcune fasi non è pensabile affrontare nel complesso e in maniera sistematica la condizione delle persone all’interno degli istituti senza prima operare un provvedimento di deflazione. Sono strumenti esistenti e attivabili, che dovremmo utilizzare e che hanno un senso. Solo un provvedimento deflattivo, nell’attuale condizione, può riportare il sistema delle carceri all’interno di un ambito di legalità.
Però, appunto, la tendenza è quella di non di non mettere in campo questa forma di deflazione. Perché?
Affermare che uno strumento previsto dalla Costituzione sia una resa dello Stato credo dica molto circa la visione del Governo su questi temi. D’altra parte per me la vera sconfitta dello Stato è l’attuale condizione in cui versano i nostri penitenziari. Con il numero di suicidi che citavate all’inizio, con i dati sul sovraffollamento, con le 2078 persone che sono state salvate da un tentativo di suicidio, con gli atti di autolesionismo costanti. La vera resa dello Stato è consentire che le persone in carcere vivano in queste condizioni, non riuscendo a garantire accesso alle cure, ai percorsi individualizzati, permettendo che saltino tutte le tutele e le garanzie previste dalla Costituzione e dalla legge. Le persone private della libertà hanno come pena, appunto, solo la privazione della libertà. Non ne hanno di altre aggiuntive, non perdono con il loro ingresso in carcere il diritto alla salute, all’istruzione, alla dignità. La limitazione della libertà è la loro unica sanzione. E allora diciamo così, la vera sconfitta dello Stato è consentire che ci siano più di 60.000 persone che ogni giorno hanno difficoltà o non riescono ad accedere ai loro diritti più basilari.
Voi come garanti delle persone private della libertà, cosa potete fare? Cosa state facendo per cercare, appunto, di affrontare la situazione che si sta presentando negli istituti penitenziari?
Purtroppo, la sensazione è di essere costantemente chiamati a tamponare delle emergenze e di avere poco margine di progettualità e costruzione. Parlando della mia esperienza da garante qui a Roma, nel momento in cui in carcere, su venti colloqui che faccio, in dieci mi dicono: «Dovevano portarmi a fare una visita ospedaliera e non c’era la scorta». E questo succede in continuazione. A Regina Coeli almeno tra il 50 e il 60% delle visite programmate ogni anni saltano per assenza di personale. Ci sono persone che non vengono portate a fare la chemioterapia. Ci sono persone che non vengono portate a fare i controlli post-intervento oncologico. Perché, appunto c’è la mancanza del nucleo traduzione piantonamenti, il servizio che si occupa di portare le persone a fare le udienze e anche a fare le visite. Nel momento in cui il sistema è così carente di tutto, noi siamo chiamati a svolgere un ruolo che diventa sempre più faticoso ed è sempre più difficile dare risposte alle persone. È frustrante sapere di poter rappresentare un punto di riferimento e di contatto con l’esterno, ma avere così poche possibilità di intervenire. Come coordinamento dei garanti territoriali abbiamo incontrato il ministro della Giustizia Carlo Nordio e, più volte, i vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Abbiamo condiviso le nostre preoccupazioni e ovviamente continuiamo a pensare che le interlocuzioni con le istituzioni siano fondamentali, ma la carenza di risposte e di interventi che abbiano una visione a lungo termine, una visione sistemica, fa sì che ci troviamo quotidianamente ad affrontare grandi e piccole emergenze, con un margine di azione ristrettissimo e totalmente insufficiente.
Per quanto riguarda gli agenti penitenziari e i sindacati: chiaramente si trovano anche loro a vivere una situazione di disagio enorme e sono pochi, troppo pochi per gestire il sovraffollamento e tutte le situazioni di cui parlavi, anche molto gravi, rispetto alla salute dei detenuti. Voi avete interlocuzioni anche con loro? Cosa dicono e quali azioni propongono per questa crisi?
Il panorama dei sindacati di polizia penitenziaria è molto variegato, quindi non si può generalizzare rispetto alle loro istanze. Sicuramente tutti gli operatori, civili e di polizia penitenziaria, soffrono le condizioni di lavoro. Ho incontrato spesso in questi mesi agenti di polizia che facevano turni in sezione sulle 24 ore, che si trovavano da soli a gestire tre piani, o quattro o cinque poliziotti cui era affidato l’intero istituto per la notte. La scorsa estate mi sono accorta che un agente da solo aveva la responsabilità dell’intera sezione e contemporaneamente doveva svolgere una sorveglianza a vista. La sorveglianza a vista è quel provvedimento disposto dai medici quando c’è un elevato rischio suicidario e quindi la persona deve essere letteralmente guardata a vista per tutte le ventiquattr’ore fino a quando il provvedimento non viene revocato. Sono convinta che il clima all’interno degli istituti dipenda anche dal benessere delle persone che ci lavorano. Non possiamo prescindere dal fatto che un ambiente così complicato sia influenzato dalle dinamiche, anche personali, che si instaurano tra chi custodisce e chi è custodito. Se una persona fa un turno di 24 ore, quale potrà essere la sua capacità di mediazione, la sua capacità di evitare il conflitto, di provare a interloquire per abbassare la tensione? Parlo sempre con il personale di polizia e non di rado dalle loro parole emerge stanchezza per le condizioni in cui si trovano a lavorare.
Per questo mi colpiscono molto certe dichiarazioni, come quelle del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove quando dice che nelle sue visite all’interno degli istituti incontra solo la polizia penitenziaria (lo scorso agosto disse che lui non si inchinava «alla mecca dei detenuti»). Dopodiché, però, tutti i provvedimenti messi in atto sembrano di totale disinteresse anche nei confronti del personale di polizia. Perché fare lavorare uomini e donne in queste condizioni significa portarli allo stremo, significa non permettere loro di svolgere i propri compiti correttamente. Significa contribuire a innalzare la tensione e a produrre una serie di dinamiche a cascata che non capisco a chi giovino. Non giovano ai/alle detenuti/e né al personale di polizia che in qualche modo chiede di risolvere il problema del sovraffollamento. Il lavoro di tutte e tutti sarebbe più facile, e molto più umano, se ci fossero meno persone dentro gli istituti. Sarebbe giusto lavorare a capienza regolamentare, con degli spazi adeguati e in strutture che facilitino l’organizzazione di attività che facciano sì che le persone detenute non passino nel nulla più totale le loro giornate. Perché il prodotto di questa situazione disastrosa è un continuo innalzamento del livello di tensione.
Un recente articolo del “Guardian” illustra come nei Paesi Bassi negli ultimi dieci anni sono state chiuse venti carceri e il numero di persone private della libertà è diminuito del 40% negli ultimi 20 anni. L’articolo insisteva tuttavia su come la società olandese non per questo sia diventata una società meno sicura. Qual è quindi la via di uscita da questo populismo penale nostrano? È ancora possibile, ha ancora senso immaginare una società libera dal carcere?
Non è solo possibile, ma doveroso. È necessario fare tutti gli sforzi possibili per continuare a dire, immaginare, e far sì che il nostro orizzonte sia quello del superamento di uno strumento ormai decisamente obsoleto. Il carcere è un’invenzione umana, e come tale non è detto debba esistere per sempre. Non c’è sempre stato, non è detto che non inventeremo qualcosa di migliore. Ogni sforzo possibile per immaginare altri modi di affrontare i reati e lavorare per la residualità del carcere nella nostra società, è per me assolutamente necessario. I discorsi sul populismo penale, sulla sicurezza reale e percepita, i dati sulla criminalità e la distanza tra l’evidenza di questi e la narrazione mediatica, ci dovrebbero constringere ad affrontare questi temi in maniera totalmente diversa.
È estremamente facile colpire il lato emotivo delle persone in occasione di eventi tragici, creando consenso intorno a provvedimenti carcerocentrici. Questa via è senza dubbio molto più comoda e più immediata. Quanto fatto in Norvegia con l’abolizione dell’ergastolo, e quanto citato da voi riguardo ai Paesi Bassi, dimostra che è possibile cambiare il nostro punto di vista, e renderci conto di quanto le persone che imprigioniamo non sono solo le persone che hanno commesso il “male”: sono anche quelle di cui non ci vogliamo occupare al di fuori del carcere, di cui non siamo in grado di prenderci cura e la cui detenzione consente forse anche a noi di sentirci un po’ dispensati dalla responsabilità che abbiamo come collettività. Dispensati dal pretendere politiche abitative eque, stipendi adeguati, accesso a un’istruzione di qualità, abbattimento delle differenze nei territori in cui la prossimità ai servizi è totalmente un miraggio.
E allora, se noi riuscissimo a guardare da un altro punto di vista la popolazione attuale degli istituti penitenziari, rimettendo in discussione quello che è il nostro modello di welfare, quella che è l’organizzazione delle nostre città, dei nostri luoghi di vita e anche delle nostre interazioni sociali, potremmo renderci conto di quanto è facile, e a volte consolatorio, puntare esclusivamente il dito contro chi ha commesso un reato. In questo cambio di sguardo e di prospettiva, potremmo provare a riprenderci un po’ la responsabilità collettiva del sistema dentro al quale viviamo, che produce queste diseguaglianze e questo carcere. Perché il carcere non diventi per noi solo un alibi per non vedere e per non occuparci di queste questioni.
Immagini di copertina e nel testo da WikiCommons
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