EDITORIALE

Il golpe dell’Israele Globale

La sfida di Israele e delle destre autoritarie all’ordine giuridico internazionale rappresenta uno spartiacque che mette a nudo l’ipocrisia occidentale e sul quale i movimenti dovrebbero giocare una propria partita

Quello a cui stiamo assistendo negli ultimi giorni, nelle ultime ore – in una corsa contro il tempo – è senza precedenti. Mentre sul fronte interno l’attacco del neo-presidente Trump all’ordine costituzionale statunitense, picconato a suon di ordini esecutivi quotidiani contro lo stato sociale, le agenzie governative, i dipendenti pubblici, l’istruzione, il welfare state, i gruppi vulnerabilizzati come le persone LGBTQIA+ e migranti, sta facendo tremare le fondamenta dello stato di diritto, le sue dichiarazioni sui suoi piani di politica estera stanno scompaginando l’assetto mondiale del diritto internazionale, sfondando definitivamente ciò che finora è stato considerato il confine dell’accettabile e aprendo un baratro apparentemente senza appigli politici e giuridici alla deriva orwelliana dell’autoritarismo fascista, oligarchico, suprematista e tecnocratico transnazionale.

Ma a ben guardare, Trump più che una miccia impazzita è il detonatore di un processo ormai decennale di erosione e svuotamento delle democrazie, del diritto e dei diritti fondati sulle ceneri della seconda guerra mondiale, operato da parte di una alleanza eversiva transnazionale tra populismi sovranisti razzisti, misogini e sessisti e neoconservatori fondamentalisti e messianici.

Un’onda nera, come è stata definita, che ha già lambito mezza Europa, il continente latinoamericano e, appunto, gli Stati Uniti almeno dall’inizio del nuovo millennio. Le guerre ai migranti; la difesa della famiglia tradizionale; l’attacco ai diritti delle donne e delle persone LGBTQAI+; l’avanzata del nazionalismo razzista; la rapina dei territori e delle risorse da parte di oligarchie predatorie; l’erosione dell’ordine costituzionale attraverso l’abuso della decretazione; la moltiplicazione di emergenze securitarie su cui fare profitto politico; l’attacco al potere giudiziario; la dismissione dalle organizzazioni e trattati internazionali sono la cifra che ha caratterizzato finora la torsione degli stati occidentali raccolti sotto l’ombrello atlantico.

Niente di nuovo dunque? No, la novità c’è ed è più inquietante di quanto le analisi degli intellettuali liberal dell’ormai vecchio mondo riescano finora a vedere. E ha a che fare con l’abbattimento definitivo dei tabù su cui si è retta finora l’illusione (o meglio, la menzogna) dell’ordine mondiale, della democrazia e del liberalismo nelle sue diverse declinazioni, con un conflitto senza precedenti tra poteri sovranazionali e nazionali e con il fatto che non abbiamo ancora nuove parole, pratiche e obiettivi da utilizzare per reggere il colpo mentre ancora contestiamo un mondo in rovina. Operazione quindi ancora più difficile, perché l’alternativa più immediata sembra quella della difesa dell’esistente, ma il paradigma in dismissione non solo non è migliore del nuovo che avanza, ne è la diretta causa. Come se non bastasse, fino a qui l’unica forza di contenimento sembrano averla gli organi giudiziari, posti come contrappeso ai rischi di far scivolare la comunità nazionale e internazionale nel caos della legge del più forte.

In questo contesto, Israele ha svolto il ruolo di catalizzatore.

La conferenza stampa con il criminale di guerra sotto mandato di arresto internazionale per crimini contro l’umanità Netanyahu, avvenuta il 5 febbraio alla Casa Bianca, rappresenta una cartolina iconica di questo nuovo corso. Dopo decenni di pulizia etnica, crimini di guerra e contro l’umanità e almeno quindici mesi in cui possiamo apertamente parlare di genocidio, con decine di migliaia di morti palestinesi e la distruzione quasi totale di tutte le infrastrutture civili della Striscia, il progetto “pacifista” trumpiano ha tradotto la minaccia di “rendere Gaza inabitabile per le Palestines3” nell’annuncio della sua ricostruzione come mezzo per la neo-colonizzazione da parte di Stati Uniti e Israele. In attesa di vedere se la fragile tregua sopravviva l’annuncio del “rilancio” immobiliare di Gaza (magari gestito proprio di Steven Witkoff, investitore immobiliare scelto dalla Casa Bianca come inviato per il Medio Oriente), la Cisgiordania, vera contropartita della tregua ottenuta da Netanyahu, sta vivendo una escalation delle operazioni militari di Israele, che nel giro di due settimane ha causato decine di vittime, in particolare a Jenin, da sempre roccaforte della resistenza palestinese.

La Cisgiordania è dunque la nuova Gaza e l’annessione, richiesta ad alta voce dalla destra messianica e suprematista di Ben-Gvir e Smotrich, l’ultimo fine.

Trump ha dichiarato che entro un mese la Casa Bianca si pronuncerà sull’opportunità di un’annessione unilaterale dei territori occupati illegalmente da Israele nel 1967 dopo la Guerra dei Sei Giorni.

Sorprende lo stupore e, a parole, lo sdegno, degli attori internazionali a fronte del progetto immobiliare “Riviera del Medio-Oriente” immaginato da Trump per il futuro di Gaza a uso esclusivo di coloni ebrei. Uno stupore di coccodrillo potremmo definirlo, anche vergognosamente timido in molti casi, di fronte all’annuncio in mondo visione di un crimine contro l’umanità quale la pulizia etnica, dopo 15 mesi in cui a essere definitivamente demoliti sotto le bombe occidentali sganciate da Israele, insieme alle infrastrutture vitali della Palestina e alle vite dell3 Palestinesi, sono stati la funzione e il ruolo del diritto internazionale e delle istituzioni sovranazionali nate dalle ceneri del secondo conflitto mondiale. Una demolizione che in realtà è iniziata ed è rappresentata plasticamente dalla storia dell’impunità sistematica di cui ha beneficiato lo stato di Israele fin dalla sua fondazione, con la negazione del diritto al ritorno dell3 profughe palestinesi stabilito dalla risoluzione 194 del 1948 dell’Assemblea generale dell’ONU e continuata con le ripetute violazioni delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza (risoluzione n. 242 del 1967 e n. 338 del 1973) che ordinavano a Israele il ritiro dai territori occupati nel corso della Guerra dei Sei Giorni.

Durante quest’ultimo assalto micidiale sulla Striscia (l’ultimo di una lunga serie dal ritiro di Israele da Gaza nel 2005), il conflitto tra poteri nell’ordine giuridico e politico globale ha tuttavia tratti epocali: la Corte Internazionale di Giustizia, prima ha stabilito il 26 gennaio 2024 che Israele sta «plausibilmente» compiendo un genocidio contro il popolo palestinese e successivamente, con parere altrettanto storico emesso lo scorso 19 luglio, ha dichiarato illegale l’occupazione israeliana della Cisgiordania, della Striscia di Gaza e di Gerusalemme Est, riconoscendo che in tali territori il popolo palestinese è sottoposto a un regime di apartheid. Sulla base di questo parere, l’Assemblea Generale dell’ONU il 18 settembre scorso ha imposto entro 12 mesi il ritiro di Israele dai territori occupati, lo smantellamento degli insediamenti illegali dove ormai vivono oltre 700.000 coloni, la riparazione dei danni inflitti alla popolazione palestinese e l’apposizione di sanzioni a persone fisiche e giuridiche coinvolte nell’occupazione. La Corte Penale Internazionale, dal canto suo, ha emesso un mandato di arresto internazionale nei confronti di Netanyahu e Gallant, resistendo a ripetute minacce e pressioni in modalità gangsteristica da parte degli Stati Uniti nei confronti della procura generale della Corte.

Nonostante questi storici pronunciamenti delle più alti corti giuridiche al livello mondiale, la tabula rasa di Gaza sta lì a mostrarci che la sfida all’ordine giuridico internazionale da parte di Israele non ha trovato alcun contenimento e sta ora giungendo alla sua soluzione finale.

Il genocidio dell3 Palestinesi in mondovisione, senza opposizione concreta da parte della comunità internazionale, non rappresenta un fallimento meramente giuridico, ma soprattutto politico della linea di confine soprattutto etica su cui è stato costruito l’ipocrita e fallace ordine mondiale dopo la Seconda guerra mondiale. Un ordine che non ha mai smesso di essere violento e coloniale, ma che per affermare la sua superiorità morale ha avuto finora la necessità storica e morale di giustificare la sua brutalità utilizzando la difesa dei diritti umani, della democrazia e della libertà. Concetti trasmutati in armi di distruzione e distrazione di massa, che hanno dato il nome a guerre e stermini in tutti i continenti (Enduring freedom, l’esportazione della democrazia…), e che tuttavia sono stati necessari a distinguere il lato giusto della storia nel suo conflitto permanente contro i vari assi del Male creati e foraggiati (d)al proprio interno. Lo stesso Netanyahu negli scorsi mesi ha dovuto camuffare le operazioni genocidarie a Gaza come atti legittimi per il diritto umanitario: come ha evidenziato la Special Rapporteur Francesca Albanese nel suo rapporto Anatomia di un genocidio, «per giustificare il suo sistematico uso di una violenza letale contro l3 civili palestinesi in quanto gruppo» Israele si è servito delle parole del diritto umanitario distorcendone il significato e l’applicazione per garantirsi una sorta di salvacondotto per ciò che appariva anche alla maggior parte dei governi rappresentati alle Nazioni Unite come un deliberato sfregio alle norme condivise dalla comunità internazionale.

Quello a cui stiamo assistendo ora, dopo l’elezione di Trump, è invece un vero e proprio cambio di paradigma. Oggi i discorsi e le parole di disumanizzazione esplicita di un’intera popolazione, il riferimento continuo allo “spazio vitale” che lo stesso Hitler rivendicava per il superiore popolo germanico, e l’uso disinvolto (per quanto orribilmente onesto) del termine deportazione (dopo che i populismi fascisti, nell’accarezzare il sogno segreto della pulizia etnica, negli ultimi anni avevano utilizzato termini più timidi, dai respingimenti ai rimpatri, volontari o meno, fino al recente orrendo “remigrazione”) sono velocemente entrati a far parte di un ordine discorsivo accettabile, legittimo e possibile. Oggi, la deportazione da Gaza di 2 milioni di persone – 1,8 secondo il presidente statunitense, che evidentemente ha numeri più certi dell3 sopravvissut3 sotto mano – diventa una possibilità concreta che fa sfregare le mani ai becchini che hanno speculato sin dall’inizio dell’attacco a Gaza per costruire magnifici resort sulle sue macerie, secondo il più classico dei business as usual. Così come sono iniziate negli Stati Uniti, a reti unificate, le deportazioni dei migranti nella tristemente nota Guantanamo. Da Israele agli Stati Uniti un monito riecheggia quindi sempre più forte: il fascismo non è una parentesi della storia ma una deriva attuale e sempre possibile della modernità occidentale.

In questa transizione di fase, insieme al lessico universalista e umanitario del diritto internazionale fondato dopo la sconfitta del nazismo, a essere abbattuta e letteralmente perseguitata è quindi la giurisdizione internazionale stessa e le sue istituzioni, come le Nazioni Unite, le agenzie dei diritti umani, le Corti di giustizia internazionali.

Nel Bel Paese di Meloni che la premier dipinge come il terminal europeo del Trumpismo 2.0, questa nuova fase si concretizza direttamente nel progetto di (per ora tentata) deportazione dei migranti in Albania, nel rifiuto dell’Italia di consegnare Almasri alla Corte Penale Internazionale e nei conseguenti attacchi a quest’ultima. Impensabile un tale operato del Governo se prima la legittimità della Corte non fosse stata messa in discussione dall’immunità assicurata a Netanyahu in diverse capitali europee. Ed è proprio il ruolo dell’Europa la grande incognita in questo nuovo ordine mondiale che inizia a delinearsi con forza. L’esistenza e l’essenza stessa dell’Europa dipenderanno dalle prese di posizione in tema di rispetto dei diritti umani e degli organismi sovranazionali multilaterali e nell’eventuale capacità di porre fine alle ipocrisie e ai doppi standard che ne hanno caratterizzato la politica estera. La lettera di sostegno alla Corte Penale Internazionale a seguito delle sanzioni alla Corte stessa decise da Trump è emblematica della situazione europea: a fronte della firma di Germania, Francia, Spagna, Grecia e di tutti gli altri pasei UE, l’Italia, l’Austria e l’Ungheria si sono rifiutate di esprimere il proprio sostegno. Ciò rende evidente la profonda spaccatura in seno all’Europa sul diritto internazionale, ma allo stesso tempo evidenzia come alcuni paesi abbiano voluto sottolineare che, almeno formalmente, vi sono ancora linee rosse invalicabili. Il diritto internazionale e i meccanismi della sua implementazione diventeranno quindi sempre di più un terreno di conflitto centrale, nel quale i movimenti dovranno provare a giocare la propria partita.

Immagine di copertina: wikimedia commons

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