POTERI
Dopo il referendum: fare spazio al comune
Un’analisi del voto e dello spazio delle lotte dopo la vittoria del referendum che ha mandato in pezzi la retorica del governo.
Un’analisi sulla composizione del voto e le condizioni di possibilità delle lotte a venire
• Referendum: sconfitto il governo di Jobs Act e Buona Scuola
• Il Capo contro la casta, lo spread e Godzilla
• Referendum: sconfitto il governo di Jobs Act e Buona Scuola
Il 4 dicembre è avvenuto un fatto straordinario. A quasi dieci anni dalle insorgenze studentesche e in difesa dei beni comuni, l’insopportabile retorica del neoliberismo italico è andata nuovamente in pezzi; assieme alla presunta invincibilità di Matteo Renzi. D’altronde, quando ti siedi al tavolo da gioco, cominci a puntare e vincere, rischi sempre di fare la fine di Aleksej Ivànovic. Come il protagonista del Giocatore di Dostojevskij, Matteo Renzi aveva incassato alcune – poi non così tante – vittorie, prima fra tutte l’affermazione di uno stile, di un discorso arrogante, tra programmazione neuro-linguistica e sfottò. Il nuovo contro il vecchio, il «rottamatore», pur se dalla parte delle imprese e del mercato.
La contestazione del renzismo passata per il voto referendario è indubbiamente indice di un generalizzato sentimento anti-establishment. Eppure ci dice qualcosa in più. Renzi, infatti, non è stato solamente un primo ministro «schiavo delle banche e della tecnocrazia europea». È stato anche questo, of course, al pari dei suoi predecessori (Letta, Monti…). Ma elemento singolare del renzismo è che si è trattato di una forma di governo della crisi segnata, principalmente, da due direttrici per molti versi inedite: il tentativo di recupero (sul piano del discorso) della stessa retorica anti-casta – in questo senso si è proposto come una specie di populismo di centro –; il tentativo di rappresentare forze nuove e giovani della società italiana. Sul piano delle riforme, questo profilo si è tradotto in un programma tutto incentrato sull’implementazione di quella che Marco Bascetta ha felicemente definito «economia politica della promessa». Ovvero quel sistema di sfruttamento e governo della forza-lavoro (soprattutto, ma non esclusivamente giovanile) che scambia il salario – negandolo – per un premio futuro. L’economia della promessa si incardina in particolare nelle politiche di inserimento nel mercato del lavoro (Jobs Act) e in quelle del sistema educativo (Buona Scuola). Secondo l’ingiunzione: accettare, oggi, tutte le condizioni di vita e di lavoro per quanto pessime possano essere, in vista di un riconoscimento differito, occupazionale e reddituale; bisogna semplicemente impegnarsi il più possibile a essere competitivi. Il risultato: l’approfondimento del disastro della scuola pubblica e l’esplosione senza precedenti del lavoro gratuito o semi-gratuito (Expo, voucher, liberalizzazione dell’apprendistato).
È stata questa, dunque, la massima operazione politica di Renzi: aver tentato di far passare il lavoro senza salario e senza contratto, gratuito e servile, come una forma di auto-realizzazione e di investimento sul futuro. Questa operazione, inequivocabilmente, è stata respinta. A poco sono valse le promesse questa volta, Renzi ha perso la partita e fa le valige, almeno per ora. Tanto meno sono serviti gli accordi sindacali stretti all’ultimo minuto per recuperare consenso, la crisi c’è e si sente. La sentono i giovani, che hanno votato ‘No’ in larga maggioranza – il 68% degli under 35 secondo il Corriere della sera, addirittura l’81% secondo Sky TG 24–, si sente al meridione, dove il ‘No’ ha in larghissima misura prevalso incrociando i voti dei giovani con quelli dei disoccupati, la sentono le fasce di reddito più basse.
Interpretare il risultato referendario come crisi dell’economia politica della promessa è perspicuo e utile anche sotto un altro aspetto: chi rifiuta le politiche neoliberali non assomiglia affatto a quel «popolo» oggi molto in voga nella sinistra radicale e antagonista. Le statistiche finora disponibili parlano di una spinta del ‘No’ proveniente da quei settori sociali “proporzionalmente” più giovani e più istruiti, e da una parte significativa del lavoro autonomo impoverito. Insomma gli stessi che qualcuno aveva già pensato come massimamente integrati, compatibili, in attesa solo di un aperitivo nella Silicon Valley. Pur condividendo con altri segmenti sociali la determinazione del risultato referendario, questa composizione è stata sufficiente a incrinare quello che sembra esser diventato un nuovo senso comune del dibattito pubblico. L’utilizzo a sinistra dello schema populista, infatti, descrive un popolo qualificato unicamente da mancanze (tanto economiche quanto di istruzione) e da una sorta di istintualità rabbiosa. Queste descrizioni ricordano non poco la nozione di underclass. Il termine “sotto-classe” è stato utilizzato dagli anni ’80 dai neoliberali per descrivere la popolazione povera nei paesi sviluppati. Al pari dell’underclass, gli impoveriti sono qui presi in considerazione in quanto arrabbiati, mediamente rozzi e incapaci di distinguere quello che invece noi – presunte avanguardie politiche ‒ comprendiamo, perché abbiamo studiato. Sono barbari, come i neo-populisti amano dire. Al pari dei neoliberali, la sinistra radicale misura l’efficacia dell’azione dei poveri unicamente in funzione della sua forza di destabilizzazione. La differenza con i neoliberali è che i poveri, così definiti, sono in questo caso il referente – o l’oggetto – di un progetto di trasformazione: quando si mobiliteranno confusamente, potranno entrare in gioco i militanti, prendendo la testa del corteo.
Dietro questo afflato popolare, si nasconde una delle tante versioni, di certo non la migliore, dell’«autonomia del politico». Nel disconoscimento delle capacità razionali, relazionali e inventive dei cosiddetti “nuovi poveri”, si presenta la mossa astuta di chi vorrebbe parlare a loro nome, al loro posto, sopra di loro. Alla faccia della soggettivazione e del protagonismo.
Salta, per il momento, Renzi, mandato a casa da un ‘No’ che ha avuto fortissimi connotati sociali. Ma al tempo stesso la partita è tutt’altro che chiusa, perché, a parte le considerazioni più generali che seguono sull’ingovernabilità strutturale di fase, lo smarrimento traumatico del Pd e l’avventurismo di Renzi, che neppure il suo burattinaio Napolitano riesce a tenere a freno, non lasciano intravedere nessuna soluzione di breve o medio periodo. Il contraccolpo finanziario che in molti minacciavano non c’è stato, anzi le borse italiane tengono, segno che a una fetta importante della finanza globale poco interessa della stabilità italiana. Meglio, il governo globale della crisi ha ormai rodato i suoi meccanismi e l’instabilità è diventata regola, non più l’eccezione. L’epoca nella quale siamo immersi si contraddistingue, infatti, per fenomeni di accumulazione originaria cronica e rifeudalizzazione; la crisi si è fatta dispositivo di comando sulla forza-lavoro. Alla volatilità dei titoli si accompagna la volatilità dei governi e nessuno riesce a costruire forme di consenso durature, in Europa stretti nell’applicazione del Fiscal Compact, poco conta se si vada al voto con il maggioritario, col Porcellum o con l’Italicum.
Ancora qualche parola sulla questione dell’ingovernabilità. La crisi di comando, infatti, è elemento cruciale per comprendere l’interregno – in senso gramsciano – in cui siamo sospesi. Non è solo conseguenza dell’inefficacia delle politiche di austerity imposte dall’alto, ma il risultato di una rinnovata ingovernabilità definita dal basso. Ingovernabilità che, in alcune congiunture, si presenta come lotta molecolare, indisponibilità generazionale, tensione talvolta micro-politica che non si lascia catturare dall’alto dei poteri, ma non si lascia neppure rinchiudere in schemi vecchi di mobilitazione (dal basso). Ingovernabilità che smette di essere latente solo quando incontra campi larghi, su questioni reali che riguardano il bios. Da notare, in questo senso, che la campagna referendaria, nonostante l’enorme pressione a cui è stata sottoposta, non ha mai trovato spazi larghi di soggettivazione. Nel caso del ‘Sì’, come in quello del ‘No’, il “popolo” non si è fatto troppo vivo.
Cosa succederà ora? Sul piano istituzionale c’è già chi coglie la palla al balzo per lanciare l’ennesima operazione a tavolino per «riunire la sinistra», mentre altrove c’è chi si candida, come il Movimento 5 Stelle, a essere forza di governo: abbandono dell’anti-politica, toni responsabili e Grillo che brilla per scarso protagonismo, lasciando il campo a Di Battista e al probabile candidato premier Luigi Di Maio. Allo stato attuale, però, l’istanza trasformativa è poco visibile all’orizzonte, come dimostra il “programma” di governo illustrato da Di Battista a la Repubblica. Il rischio, non piccolo, è che la spinta del voto referendario si esaurisca in un semplice riassetto politico-istituzionale. In cui, comunque vada, si affacceranno minacciose ipotesi sovraniste e nazionaliste. La tendenza sembra tracciata: dal successo di Trump alla complicata situazione francese in cui la sfida tra Fillon e Le Pen non lascia presagire nulla di buono. Il neoliberalismo getta la maschera e si salda a livello globale col razzismo, le pulsioni guerrafondaie e le spinte sovraniste.
Vogliamo giocare su questo tavolo? Noi riteniamo che, in primo luogo, occorra ripartire dalla materialità delle lotte: quelle che ci sono, quelle che mancano, quelle da fare. È solo da questa materialità che è possibile immaginare una proposta politica e costituente capace di rilanciare il movimento. Abbiamo dalla nostra prototipi utili, dalla sfida neomunicipalista a quella del sindacalismo sociale (transnazionale), le lotte territoriali e per la difesa dei beni comuni. C’è stata la straordinaria marea delle donne contro la violenza di genere del 26 novembre, di parte e radicale, che ci indica uno stile nuovo di composizione, posture altre da assumere. Ci segnala, soprattutto, che, quando non si confondono perimetri con processi, lì si aprono spazi nuovi, segnati dalla concretezza quanto dalla radicalità delle rivendicazioni. Riteniamo, poi, fondamentale insistere sugli elementi programmatici che più hanno attraversato le rotture moltitudinarie degli ultimi anni, in Italia come su scala transnazionale: l’estensione universale del welfare contro le privatizzazioni; il reddito di base e il salario minimo contro la sotto-occupazione; la libertà di movimento di tutti i migranti contro i muri e il razzismo; l’autodeterminazione e la libertà di scelta contro la violenza di genere.
Si tratta di verificare se saremo in grado di favorire questi processi, di contribuire a creare quegli spazi pubblici non appropriabili che ne costituiscono una delle condizioni fondamentali per decollare. Se saremo disposti a ridisegnare le forme della democrazia invece di quelle dei nostri steccati e delle nostre competizioni, rispondendo all’impressionante quanto incontrollabile mobilitazione che si è espressa in una partecipazione plurale referendaria oltre ogni previsione. A partire da tutto ciò ha senso oggi avviare una sfida costituente, in grado di parlare a quei milioni di persone che hanno votato ‘No’. Altrimenti, l’epilogo della storia rischia di essere già scritto.
Postilla. Non amiamo soffermarci sul “rumore” dei Social. Perché non ci appartiene lo stile della calunnia, dell’illazione, della minaccia velata. E non pensiamo che il problema siano i gruppi che dicono o fanno – bene o male – cose diverse dalle nostre. Il problema è il Jobs Act, la Buona Scuola, sono i voucher, il renzismo oltre Renzi, l’autodeterminazione delle persone al di là del genere e della provenienza, e molto altro. Però siamo convinti che a tutto c’è un limite. Alla campagna del ‘No’, a partire da Napoli (3-4 settembre), abbiamo dedicato molte energie: attraversando lo sciopero 24h indetto da USB, ADL COBAS e SI-COBAS; costruendo agorà pubbliche (in cui sono intervenuti anche attivisti romani della campagna “C’è chi dice no”); distribuendo, con “Decide Roma”, 20.000 copie della free press “ZTL”, per l’occasione al ‘No’ dedicata; animando con azioni e dibattiti università e territori. Non abbiamo partecipato, al pari di altre componenti romane e nazionali, al corteo del 27 novembre, perché, di quel corteo, non ci ha convinto il processo: lo diciamo da tempo, senza alcuna arroganza, riteniamo oggi più che mai necessari spazi pubblici non appropriabili, capaci di eccedere le soggettività organizzate. Questioni di punti di vista, di postura, di ricerca politica. Nonostante queste differenti valutazioni, il corteo del 27 è stato seguito e raccontato da DINAMO. Ora, in alcuni commenti ed editoriali la nostra mancata partecipazione, la nostra differenza di metodo, si tramuta magicamente in “boicottaggio attivo”; senza specificare, in alcun modo, cosa si intenda con questa espressione. Se si tratta di discussione politica, e anche di polemica costruttiva, nessun problema: chi ha filo da tessere tessa, c’è spazio per tutti e siamo assai lontani dal comunismo. Se invece si tratta di calunnie e di minacce ripetute, evitiamo una volta per tutte di perder tempo. Facciamo politica alla luce del sole. Ricordiamo solamente che trasformare un’assenza legittima in accusa di boicottaggio, e sostituire una necessaria riflessione sui limiti che le soggettività di movimento tutte oggi hanno nel costruire mobilitazione con una malcelata teoria del complotto e della cospirazione, appartiene a una cultura politica fetida: se si vuol parlare della storia russa, più che il gennaio 1905, vengono in mente gli anni ’30.