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![Frame dal film "no other land"](https://www.dinamopress.it/wp-content/uploads/2025/02/Copertina-No-other-land-1114x557.jpg)
CULT
“No Other Land”, co-resistere come unico orizzonte possibile
Il film, acclamato a Berlino, che sta registrando sale piene nei cinema, racconta una storia di resistenza e amicizia in un angolo dimenticato della Cisgiordania, che ci offre uno sguardo diverso sul conflitto, necessario dopo il terrore del genocidio appena concluso
Proprio nei giorni in cui si è iniziato a tirare un sospiro di sollievo per il cessate il fuoco a Gaza, è stato distribuito nei cinema italiani No Other Land, film diretto da quattro registi, due israeliani e due palestinesi Basem Adra, Hamdan Ballal, Rachel Szor e Yuval Abraham, premiato con l’orso d’oro a Berlino e in gara agli Oscar come miglior documentario.
Questa coincidenza, ovviamente non prevista dalla casa di distribuzione, rende la visione del film più intensa e forse più dolorosa, almeno alle persone che hanno sofferto, marciato, agito perché la guerra e il genocidio finissero il prima possibile.
Il film non è ambientato a Gaza ma a Masafer Yatta nelle South Hebron Hills, le colline a sud di Hebron, in un periodo che va dal 2019 al 2023. In quella zona della Cisgiordania occupata anni fa è stata dichiarata arbitrariamente una Firing Zone, ossia una zona di addestramento militare. In virtù di questa dichiarazione la popolazione palestinese che vi vive, ha ricevuto l’intimazione ad andarsene se non vuole avere la propria casa demolita attraverso vere e proprie pratiche di pulizia etnica operate dall’esercito israeliano.
Si organizza così una lotta popolare per resistere: manifestare, ricostruire le case demolite, provare a rimanere in ogni modo, finire in grotte dopo le demolizioni e poi provare a ricostruire una casa.
Uno sforzo immane per una popolazione rurale, tendenzialmente povera, che non ha «nessun’altra terra” – come dice il titolo – dove migrare. Ovviamente la zona di addestramento militare non coinvolge gli insediamenti israeliani che puntellano i villaggi palestinesi, da dove agguerriti e violenti coloni partono frequentemente per attaccare la popolazione palestinese.
Yuval, giornalista israeliano che vive nella vicina città di Beer Sheva decide di raccontare la storia della resistenza in questi villaggi e conosce Basel che a Masafer Yatta ci vive, anche lui appassionato di racconti e video. Nel film si narra la loro vicenda politica e umana, in un contesto di sempre maggiore violenza contro chi vive in quelle terre.
All’apparenza potrebbe sembrare uno dei tanti film su amicizie, amori, conoscenze tra israeliani e palestinesi. Ne sono stati fatti molti, pure di scarsa qualità e spesso intrisi di buonismo paternalista e soprattutto di normalizzazione.
Con normalizzazione i palestinesi hanno definito tutte le iniziative – per lo più finanziate da donor stranieri – che mettono al centro la possibilità di una relazione “normale” tra israeliani e palestinesi senza porsi come obiettivo fondante lo smantellamento dell’occupazione e dell’apartheid.
Si contemplano iniziative come partite a calcio tra gli uni e gli altri, scambi giovanili, seminari condotti in un paese vicino a discutere assieme del “futuro di pace” e molto altro ancora. Il duetto sanremese tra Noa e Mira Awad è la versione pop di questo stesso dispositivo, tanto diffuso quanto estremamente dannoso a livello politico e di immaginario.
No other land racconta tutt’altro. L’amicizia c’è, ed è anche raccontata bene, ma è evidente che nasce nel contesto di una lotta per porre fine all’ingiustizia e all’apartheid. La lotta per co-resistere (anzichè un banale co-esistere) è al centro di tutto il film. L’unica pecca che ho trovato alla pellicola è che, per parlare in profondità della relazione tra Basel e Yuval, rimane un po’ sullo sfondo il fatto che Yuval è solo uno dei numerosi israeliani pacifisti radicali che da anni si recano a Masafer Yatta in supporto alla popolazione palestinese.
Lotte congiunte di co-resistenza ce ne sono sempre state nella lunga storia del conflitto, ma dalla fine del periodo peggiore della seconda intifada (2003) fino a oggi sono state ciclicamente forti e rilevanti in diversi villaggi lungo la costruzione del muro dell’apartheid e, appunto, nelle South Hebron Hills.
No other land non è il primo film che racconta questa joint resistance, come la stessa popolazione palestinese l’ha chiamata. Bil’in My Love (2006), Budrus (2009), e Five Broken Cameras (2011) sono notevoli antecedenti, anche se nessuno di questi è mai stato distribuito nei cinema italiani.
No other land, così come quei tre film precedenti, alterna manifestazioni popolari, violenza brutale dell’esercito e relazioni che si costruiscono nel contesto della lotta. Ovviamente sono rapporti potenti e forti ma non facili, e i registi lo sanno e lo raccontano. Yuval è accolto con interesse, gratitudine per le capacità giornalistiche ma anche con un certa diffidenza da alcune persone del villaggio, ad esempio gli fanno domande sui suoi possibili legami con persone dell’esercito e sul suo essere lui stesso stato per un periodo nell’esercito.
Tuttavia la storia in sé, evitando qualunque approccio didascalico, riesce a raccontare la rilevanza politica di una lotta congiunta. Quest’ultima è preziosa ovviamente non perché la popolazione palestinese non sappia raccontarsi da sola, né perché non sappia liberarsi da sola. Semplicemente si intuisce che l’unica possibilità per vivere in futuro nello stesso fazzoletto di terra è lottare assieme contro l’infinita ingiustizia che la popolazione palestinese subisce dal 1948. Solo quello sforzo può creare un piano di confronto umano e una cornice di senso, che non cancellano una lunga storia di violenza, ma offrono la possibilità di voltare pagina con giustizia.
La storia evidenza l’enorme disparità di potere tra i due protagonisti: Yuval può muoversi liberamente tra Masafer Yatta e Beer Sheva, Basel rimane bloccato in Cisgiordania. Yuval se venisse arrestato sarebbe sottoposto a un tribunale civile e in poche ore sarebbe libero, Basel verrebbe sottoposto a un tribunale militare e rischierebbe una lunga detenzione. Nonostante questi piani radicalmente diversi, riescono a costruire una narrazione di sé e una lotta politica potente, liquidando nell’immanenza dei fatti ogni lettura ipernazionalistica (o peggio ancora religiosa) del conflitto.
No other land finisce giusto pochi giorni dopo il 7 ottobre. La recrudescenza di morti e di violenza scatenatasi dopo quella data ha messo inevitabilmente in crisi ogni battaglia di questo tipo, che dovrà ora riconfigurarsi e trovare altri tracciati, se ne troverà.
![](https://www.dinamopress.it/wp-content/uploads/2025/02/no-otherlandbis-1024x512.jpg)
In modo un po’ semplicistico, nel corso del genocidio, si sono diffuse opinioni a sostegno di una “soluzione algerina” del conflitto in Palestina, ossia con un rimpatrio dei 7 milioni di cittadini israeliani ebrei. Non è stato chiaro, nelle proposte avanzate, dove sarebbe l’equivalente della Francia per gli israeliani da rimpatriare, ma al di là di un problema di fattibilità e dell’astoricità di un paragone simile, un film come No other land mostra che una strada diversa è faticosa ma politicamente sensata e giusta – e di giustizia c’è tanto bisogno in Palestina.
Alla premiazione a Berlino, Abraham e Adra fecero un discorso forte, che costò caro ad Abraham. Al suo rientro dovette nascondersi assieme alla sua famiglia per essere stato oggetto di minacce di morte e violenze da parte di estremisti di destra.
Lo stesso Abraham poi durante la guerra ha interrottamente lavorato a inchieste giornalistiche straordinarie, producendo articoli eccezionali che a partire dal portale 972mag.com che hanno fatto poi il giro del mondo, come l’inchiesta su Lavander, il sistema di intelligenza artificiale che ha pianificato la morte di migliaia di sospetti membri di Hamas.
Speriamo che la notorietà che si è creata attorno al giornalista sia di sostegno a una diffusione capillare del film, perché una narrazione diversa è necessaria, perché una fine differente per questa lunga storia tragica forse è ancora possibile.
Foto di copertina, frame del film “No Other Land”
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