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Un’indagine sull’università neoliberale per i movimenti del futuro

“L’università indigesta. Professori e studenti nell’accademia neoliberale” di Francesco Maria Pezzulli ricostruisce le riforme che hanno trasformato l’università italiana secondo un modello neoliberale, gli effetti, le resistenze opposte dai docenti e soprattutto dai movimenti studenteschi, tracciando infine un bilancio degli effetti distruttivi che ne sono risultati per l’istituzione e per i suoi utenti

L’università indigesta di Francesco Maria Pezzulli è uno strumento indispensabile per capire la nascita e il afunzionamento dell’università neoliberale in questo paese. L’autore divide sostanzialmente in due parti il libro. La prima è una ricostruzione storica delle varie riforme che si sono abbattute sull’università italiana dagli anni ‘60 a oggi in costante dialogo con i movimenti studenteschi.

Le successive riforme

Per quanto riguarda l’oggetto principale del libro conviene però partire dalla Riforma Ruberti della fine degli anni ‘80. Il suo obiettivo era iniziare a valutare gli atenei sulla base di criteri economici come i costi standard di produzione per studente. L’università doveva diventare un’istituzione del sapere da gestire secondo i principi dell’economia di mercato e valutare in base alle performance, incluse quelle finanziarie, mentre venivano imposti tutti gli indicatori propri dell’università neoliberale.

Per fare tutto ciò Ruberti importò in Italia il New Public Management declinato attraverso il concetto di autonomia. Il termine non significa solo, impropriamente, svecchiamento ma anche autonomia finanziaria dei singoli atenei. Questa trasformazione è indagabile a partire da tre passaggi legislativi. Il primo risale al 1989 con la separazione tra Ministero dell’Università e dell’Istruzione. In questo momento si stabilisce che le università hanno autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile inoltre le loro entrate possono provenire anche da contratti e convenzioni. Nel 1990 viene definita meglio l’autonomia per quanto riguarda la revisione degli ordinamenti didattici. Essa deve tenere conto delle previsioni occupazionali, introduce il tirocinio e un sistema di crediti didattici finalizzati al riconoscimento dei corsi seguiti con successo. Il terzo momento risale al 1993 con lo stabilimento delle modalità di riproduzione delle strutture universitarie attraverso una quota base valida, in misura proporzionale, per tutte le università e una quota di riequilibrio che va ripartita a partire da indicatori standard. Questa quota ha come scopo ridurre i differenziali tra aree disciplinari ma divenne effettiva a partire dal 1995 e progressivamente venne rafforzata a discapito della quota base.

Un altro aspetto chiave della riforma è la creazione di nuclei di valutazione interna con il compito di verificare, attraverso analisi comparative dei costi e dei rendimenti, un’adeguata gestione delle risorse pubbliche, la produttività della ricerca e della didattica e infine l’imparzialità e il buon andamento dell’azione amministrativa.

La riforma vide l’opposizione del movimento della Pantera che ebbe breve durata, circa sei mesi scanditi da occupazioni e assemblee, ma aveva bene in mente le conseguenze della riforma sulle modalità di trasmissione del sapere e sull’orientamento della ricerca a causa della maggiore presenza dei privati sia in quella pura che in quella sperimentale.

Per gli studenti il rischio era avere un sapere sempre più schiacciato sugli interessi del mercato e sempre meno indipendente e autonomo dagli interessi capitalistici con la possibilità di far venire meno il legame tra il suo carattere scientifico e il “vero”.

La Pantera si spaccò grazie alla capacità del ministro Ruberti di fare leva sugli studenti controccupanti offrendo una rappresentanza negli organi centrali e rendendo obbligatori i pareri del Consiglio degli Studenti che vide d’accordo anche l’ala moderata del movimento rappresentata della Fgci , che accettò le proposte provocando la spaccatura con l’ala antagonista. Nonostante ciò la Pantera ebbe il merito di riattualizzare le pratiche del movimento studentesco degli anni ‘70 a cui seppe aggiungere un nuovo modo di comunicare fatto di slogan virali e videoclip prodotti con la tecnologia di allora. Da sottolineare è anche l’uso fatto dei fax da parte del movimento per mettere in comunicazione in tempo reale tutte le facoltà occupate della penisola.

Lo sviluppo dell’università neoliberale proseguì con l’introduzione, tramite il Decreto numero 509 del 1999, della Riforma Berlinguer che impone lo schema del 3+2 sulla scia del Processo di Bologna e nel nome dell’obiettivo della maggiore competitività degli studenti italiani in Europa. Le lauree italiane in questo modo sono raddoppiate con due cicli distinti e propedeutici. Il primo è di durata triennale ed è di base mentre il secondo è biennale con carattere specialistico. Entrambi i cicli terminano con il conseguimento di un titolo. La riforma, inoltre, rende obbligatori i crediti in tutti i corsi di studio tranne quelli di dottorato di ricerca.

Nel 2004, con il Decreto numero 270 passato alla storia con il nome di Riforma Moratti, avviene l’introduzione del limite di 180 crediti per la Laurea triennale e di 120 crediti per quella magistrale. Questa decisione è funzionale alla fissazione di parametri quantitativi per i Corsi e allo sviluppo di un sistema di misurazione e valutazione che stabilisce una gerarchia degli insegnamenti in base ai crediti corrispondenti.

Si giunge così a un terzo momento di sviluppo dell’università neoliberale. Tra il 2008 e il 2010 ci sono tre provvedimenti legislativi della ministra berlusconiana Gelmini che hanno dato all’università italiana la sua attuale fisionomia. La Legge 133/2008 consente alle università di trasformarsi in Fondazioni. Il Decreto Legge numero 180 del 2008 ha invece ridefinito le gerarchie delle strutture universitarie con la ripartizione delle quote del Fondo di Finanziamento Ordinario in base alla qualità dell’offerta formativa e dei risultati dei processi formativi, alla qualità della ricerca scientifica e alla qualità, efficacia ed efficienza delle sedi didattiche. Il terzo provvedimento è la Legge numero 240 del 2010 che ha ufficializzato le procedure di valutazione del personale sulla base dei principi del merito e della performance, introdusse meccanismi premiali a partire da criteri di efficienza della didattica e della ricerca e infine stabilì degli incentivi legati a risultati e il costo standard unitario di formazione per studente in corso come indicatore alla base dell’attribuzione delle percentuali del Fondo di Finanziamento Ordinario.

Anche in questo caso l’intervento governativo trovò l’opposizione di un movimento studentesco: l’Onda. Pezzulli sostiene che, se la Pantera si è concentrata sulle conseguenze scientifiche e politiche imposte dalla gestione neoliberale dell’università, il movimento dell’Onda si è sviluppato in un’università già vittima di questa trasformazione e capì che questa istituzione, assieme alla scuola, stava per essere totalmente piegata alle esigenze del mercato rendendo la condizione degli studenti più simile a quella di lavoratori cognitivi precari. Stava saltando, infatti, ogni distinzione tra momento formativo e lavorativo e tutto questo era celato agli occhi dell’opinione pubblica dall’ideologia del merito.

L’Onda ebbe il suo battesimo del fuoco nell’ottobre del 2008 quando ci furono occupazioni di facoltà in tutta Italia e una partecipazione del movimento al congresso della Fiom Cgil in cui si invocò una nuova alleanza tra operai e studenti. Il 28 ottobre i primi provvedimenti del ministro Gelmini diventano legge e il 30 dello stesso mese viene indetto uno sciopero generale del mondo della scuola con oltre 300.000 studenti in piazza a Roma e un milione in tutta Italia.

Il mese successivo la lotta proseguì con l’assedio di 200.000 studenti di Piazza Montecitorio il 14 novembre e l’Assemblea generale del movimento alla Sapienza il giorno successivo. In questa sede, come accadde con la Pantera, il movimento si spacca. Una parte di esso ritenne necessaria la creazione di una struttura di rappresentanza nazionale per sostenere la lotta, mentre dal lato opposto c’erano coloro che sostenevano la ricerca di nuove forme di lotta politica studentesca adeguate al passaggio capitalistico in corso. In pochi mesi questo movimento si disperse perché non riuscì a trovare strategie e forme organizzative utili al proseguimento effettivo della lotta nonostante avesse inquadrato molto bene sia le tendenze in atto nelle università che i problemi organizzativi e strategici che i movimenti avrebbero affrontato in futuro. Da allora sono rari i momenti in cui le soggettività accademiche hanno avuto la capacità di prendere la parola pubblicamente per condividere e discutere tesi su sé stesse.

La normalizzazione

Nella seconda parte del libro si analizzano le conseguenze dell’università neoliberale su docenti e studenti. Pezzulli ritiene l’università neoliberale un dispositivo perché è stato capace di creare nuove parole, di imporre nuovi rapporti di forza e nuovi processi di soggettivazione. A essere modificate sono le relazioni sociali e le soggettività degli studenti e dei docenti che sono state ridefinite in modo da tale da produrre una reciproca indifferenza. Il loro rapporto è sempre più mediato da procedure formali e digitali cosa che li rende molto distanti mentre sono tenuti ad impiegare in maniera produttiva il loro tempo sulla base di standard quantitativi legati al punteggio di carriera per quanto riguarda i professori e i crediti formativi per quanto riguarda gli studenti.

L’università neoliberale ha modificato il ruolo e la figura sociale del professore universitario. Non a caso alcuni di loro parlano di cambiamento antropologico dovuto a un esteso processo di burocratizzazione causato dalle Riforme e messo in pratica da circolari e protocolli Anvur che obbligano i docenti a svolgere molte attività amministrative, di valutazione e autovalutazione togliendo spazio allo studio, all’insegnamento e alla ricerca. Il lavoro del docente universitario è sempre più simile a quello di un impiegato pubblico guidato da una morale privatistica e al soddisfacimento di obiettivi personali.

La categoria è ormai dominata da figure scientificamente preparate che vivono il proprio impiego come un ritaglio specialistico, per citare uno sfogo di Piero Bevilacqua sul “Manifesto”, che ha come scopo produrre risultati da certificare presso agenzie di controllo. Tutto ciò ostacola una loro partecipazione alla vita politica e culturale della nostra società.

Alcuni docenti descrivono queste attività burocratiche come bullshit per i quali bastano le competenze di un barracaselle e non indicano in alcun modo la qualità dell’insegnamento. Rifiutare di svolgere queste mansioni significa ridurre il finanziamento alla propria università e di conseguenza le disposizioni Anvur premiano il conformismo perché non protestare e svolgere queste attività in maniera ligia fa aumentare la quota di finanziamento statale.

Per quanto riguarda lo studente dell’università neoliberale, a differenziarlo dallo studente dell’università precedenti alle riforme è la sua necessità di diventare imprenditore di se stesso già durante la formazione e non dopo.

Questa trasformazione diventa evidente quando si analizza lo slogan per le immatricolazioni del 2002 dell’università Sapienza di Roma: «Sapiens fabbrica di sapere» e «non tutti gli studenti sono Sapiens». Essi segnano l’avvenuta creazione di un’università-fabbrica che incide sullo studente in tre modi. In primo luogo moltiplicando le discipline grazie al cosiddetto aggiornamento dell’offerta formativa che ha comportato lo spezzettamento dei Corsi annuali con la nascita di nuovi Corsi nelle 42 classi di laurea nate con le Riforme. Molti di questi corsi sono creati ad hoc per attirare studenti costruendo dei profili professionali a partire da esami una volta considerati facoltativi. Pezzulli riporta dei dati a sostegno di questa tesi. Nei primi 5 anni di applicazione della Riforma che ha istituito il 3+2 i corsi di laurea sono incrementati di 770 unità passando da 2444 a 3241 mentre gli insegnamenti sono arrivati a quota 181.000.

Una seconda conseguenza di questi mutamenti è l’intensificazione dei ritmi di studio e apprendimento. Prima del 3+2 uno studente, per non andare fuori corso, doveva superare mediamente 5 esami in un anno solare. Il dato è raddoppiato con questa trasformazione dei corsi di laurea.

Inoltre le Riforme hanno previsto per lo studente imprenditore di se stesso altre attività che si aggiungono alle lezioni, come, per esempio, centinaia di ore di tirocinio in università o in imprese. Il percorso universitario diventa una corsa a ostacoli lungo attività predefinite contraddistinte da fretta, sovraccarico, ansia, noia e ripetitività.

Questa realtà spiega il titolo del libro. Pezzulli parla di università indigesta perché gli studenti affrontano percorsi ad alta velocità dove “mangiano” tantissime conoscenze e nozioni senza avere il tempo per digerirle, farle proprie e interiorizzarle.

Il tempo di apprendimento nell’università neoliberale assomiglia al tempo di lavoro dentro la fabbrica come se fossero entrambi misurabili e standardizzabili. Questa modalità di organizzare lo studio, inoltre, limita le scelte autonome, come la lettura di libri e documenti non richiesti per l’esame, e le attività riflessive legate all’interiorizzazione e alla socializzazione di quanto studiato.

La terza e ultima conseguenza è l’estensione dei tempi di verifica e valutazione. Le conseguenze di tutto ciò sugli studenti sono l’aumento di ansia, attacchi di panico, senso di inadeguatezza e purtroppo anche suicidi. Un nuovo movimento studentesco dovrà essere in grado di mettere in discussione quella che Pezzulli chiama corruzione degli studenti, ovvero una forma specifica di produzione di soggettività in grado di realizzarsi in un dispositivo auto-educativo e di auto-controllo che premia le scelte produttivistiche degli studenti, incluso lo spirito competitivo, svalutando le condotte solidali proprie della comunità universitaria e contemporaneamente dovrà gettare ponti con quel pezzo di corpo docente critico rispetto all’ideologia del capitale umano ma troppo debole e isolato per proporre un modello alternativo di università.

Immagine di copertina: Renato Ferrantini

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