OPINIONI
Per David Graeber: chi ha compagn* non muore mai
«David Graeber si batteva per ciò che è giusto e riponeva nel concetto di verità (cioè di realtà delle relazioni umane e delle condizioni materiali delle persone attorno a lui) il valore costitutivo delle sue analisi». Un ricordo dell’antropologo da poco scomparso
Se fossi parola invocherei il bello, il giusto, il vero
e direi il mio amore in un sospiro
(Nazim Hikmet)
Ciascun* ha, con gli autori che per qualche motivo sono stati importanti, una relazione molto personale. Apprendere della morte di David Graeber, avvenuta a Venezia, luogo del cuore e città che per me ha segnato l’inizio dell’amore per l’antropologia, è stato un colpo molto duro. Mancheranno moltissimo le sue analisi, in grado di tenere insieme un livello etnografico ineccepibile e non ideologico, all’impegno militante. Un impegno reale, che non si è mai esaurito, come spesso accade, nel compiacimento accademico della propria presunta radicalità.
David Graeber era uno di noi, un compagno, un anarchico. Pur non avendo avuto il piacere di conoscerlo di persona, attraverso le amicizie in comune e le affinità politiche e di studio l’ho sentito per molto tempo come una persona vicina. Non un “mostro sacro” dell’antropologia, ma uno studioso saggio e affine, di cui leggere le analisi e ridere, divertendomi, pensando al suo acuto spirito di osservazione e allo humor che lo contraddistingueva e animava il suo pensiero.
Il mio “incontro” con David Graeber precede la lettura dei suoi testi. È avvenuto quando ho deciso di cambiare corso di laurea, dopo la triennale in lettere moderne, per approdare a una magistrale in antropologia. Di quell’estate di transizione ricordo soprattutto la lettura di grossi manuali e delle monografie più classiche: Bronislaw Malinowski, Franz Boas, Evans Pritchard, Margaret Mead, Ruth Benedict.
Io, che ero una militante, non mi aspettavo di trovare alleat* o compagn* durante questo percorso, ma una prospettiva, una visione sbilanciata, diciamo, dal testo alla persona che lo aveva partorito.
Non cercavo, insomma, nell’antropologia, una modalità del mio fare politico. Piuttosto, la corrispondenza con lo slittamento dei miei interessi di approfondimento accademico.
Invece ricordo l’impressione potentissima e pervasiva che l’antropologia fosse una disciplina “pericolosa” e radicale, perché dava forza di carne, corpi e azioni alle parole e al pensiero che agitavamo. Non è tanto, o soltanto una messa in discussione dello status quo, dei sistemi di organizzazione del tempo, dello spazio e delle relazioni dominanti, ma un modo di fare tutto ciò: uno sguardo che si interroga, che costruisce relazioni tra paradigmi differenti, che tesse legami e, al contempo, fa tremare gli assunti dati per scontato.
Quando ho cominciato a intuire la connessione profonda tra il pensiero libertario e l’antropologia, ho incontrato subito Pierre Clastre e David Graeber. Del primo ricordo una ricerca disperata dei testi, un tempo editi dalla casa editrice Feltrinelli e poi trovati nella biblioteca di Ca’ Foscari. Ricordo la triste e lapidaria considerazione di una commessa della libreria Feltrinelli di Trieste: «Purtroppo, come ti sarai accorta, Giangiacomo è morto».
Frammenti di un’antropologia anarchica di Graber, invece, era fruibile. Ma aveva un titolo sin troppo didascalico rispetto a ciò che cercavo. Ricordo di aver aspettato a leggerlo.
Non volevo tornare al mondo che conoscevo, ma piuttosto che fossero i capisaldi dell’etnografia a permettermi di costruire autonomamente quei legami tra teoria e pratica che stavo cercando. Ho letto il libro solo nell’estate successiva al primo anno di magistrale. L’ho letto al mare, sottolineandolo con un lapis blu.
Non posso dire di essere rimasta particolarmente colpita dal testo. Pensai anzi che non dicesse nulla di realmente nuovo. Eppure forse è proprio questo che mi ha fatto sentire David Graeber vicino e ha fatto sì che mi fidassi negli anni a venire del suo punto di vista, del suo taglio analitico: la sensazione di una fortissima consuetudine con il suo orizzonte di senso, come se noi libertar* e antropolog* non potessimo non pensarla così. Non potessimo non esserci posti il problema di trovare la nostra teoria della pratica.
Per me Frammenti è stato il testo che raccontava la mia necessità politica di fare antropologia, di scrivere etnografie. Lo è stato in molti modi: da un punto di vista militante, perché mi ha spiegato il tipo di persona che volevo essere, e da quello dell’antropologia, perché mi ha insegnato che essere anarchic* è una pratica e non un’identità. Una pratica sia intellettuale che materiale. Una pratica che passa attraverso i campi che scegliamo, certamente, ma anche attraverso il modo in cui lo facciamo, le relazioni che instauriamo e le modalità con cui ci facciamo toccare dalle cose che viviamo.
Negli anni successivi, mentre mi occupavo della crisi greca, David Graeber è stato un invisibile compagno e una spalla solida di tutte le accese discussioni sul debito.
Con il suo testo Debito. I primi 5000 anni riusciva a dimostrare, con una perizia etnografica ineccepibile e un piglio velatamente polemico e ironico, che il debito non si definisce solo in relazione all’economia, ma al potere e a un certo regime morale stabilito da chi lo detiene. Soprattutto che è un ordine di senso che precede la sua forma economica.
Ancora, in strenua opposizione all’ideologia keynesiana, i suoi interessi etnografici e politici più recenti, in linea con quello slogan inventato proprio da lui ai tempi del movimento Occupy del quale è stato militante («We are the 99%!»), l’hanno portato a guardare alle piaghe della precarietà giovanile americana (ma ahinoi non solo!). Si è occupato così della nocività di quelli che a ragione ha definito “Bullshit jobs” (lavori di merda), colpevoli di costruire un “feudalismo manageriale” in cui lo status di potere e di competitività è di gran lunga più importante del lavoro stesso.
David Graeber era una bella persona, oltre che un ottimo antropologo, si batteva per ciò che è giusto e riponeva nel concetto di verità (cioè di realtà delle relazioni umane e delle condizioni materiali delle persone attorno a lui) il valore costitutivo delle sue analisi. È stata questa sua capacità di tenere insieme acume antropologico e sentimento politico che lo ha reso un importante riferimento per tutt* noi antropolog* libertar*.
Ciò traspare meglio che in qualunque altra occasione nel suo ruolo in una diatriba accademica che sembra ormai lontana e pacificata, ma che dovrebbe essere tutt’altro che dimenticata: quella sulla cosiddetta svolta ontologica (ontological turn).
Nel suo ricco ed interessante carteggio/diatriba con Eduardo Viveiros De Castro, infatti, ha dimostrato nella pratica cosa voglia dire situarsi dentro e contro l’accademia, privilegiando un punto di vista pragmatico e materialista sulle relazioni che si instaurano sul campo, intessendo scambi reali e concreti, contro ogni genere di essenzializzazione dell’altro e dei suoi regimi di senso.
L’ha fatto col garbo e il rispetto di chi è in grado di posizionarsi e costruire legami piuttosto che romperne, ma dimostrando la risolutezza e la precisione di una pratica etnografica radicale, che è politica senza sforzarsi di esserlo.
Un sapere che non teme di essere militante, si dichiara libertario e cerca riscontro nel mondo intorno a sé, indirizzato alla costruzione di una società più equa, che non si neghi il piacere dell’incontro, della conoscenza e della complicità nell’ineluttabilità del conflitto che è in atto tutto attorno a noi. Dentro e fuori l’accademia.
A David Graeber devo l’insegnamento fondamentale e concreto che università e saperi sono un campo di battaglia dove nulla è ancora scritto. Ci mancherà perché è con persone come lui – amico, compagno, antropologo – che la sovversione dell’esistente è possibile. Come recitava il muro del politecnico di Atene durante le rivolte del dicembre 2008: «Ce ne peut être que la fin du monde, en avançant».
Foto di Guido van Nispen da wikimedia.commons