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Zerocalcare racconta il nuovo libro: Kobane Calling

L’intervista di DINAMOpress

È uscito il nuovo libro di Michele Rech, che racconta un viaggio in Kurdistan attraverso le diverse realtà di lotta e resistenza. Verrà presentato in anteprima il 16 aprile, a Roma, al centro socio-culturale curdo “Ararat”, uno degli spazi che Tronca vorrebbe sgomberare.

Non ti sei mai tirato indietro dal sostenere campagne politiche o iniziative di movimento, con le vignette, con i poster dei cortei o anche solo con la tua partecipazione. Ma questo è il primo libro “impegnato” in senso vero e proprio. Che cosa ti è successo viaggiando per il Kurdistan?

In realtà, non è che in Kurdistan ho avuto un’illuminazione. Anche se me lo hanno chiesto tanti giornalisti, perché sembra che sono andato là e ho avuto una specie di folgorazione che mi ha fatto cambiare modo di raccontare o i temi trattati. Banalmente, la prima volta che siamo andati al confine turco-siriano con la Staffetta Romana per Kobane era il momento in cui stavo iniziando a capire che tutto sommato nella vita faccio fumetti, non è soltanto un hobby per arrotondare gli altri lavori. Ma è proprio la cosa che faccio. E siccome in quel periodo lavoravo con Internazionale gli ho proposto di fare una cronaca di quello che vedevamo e che stava accadendo lì. Quello che è successo è che questa roba ha avuto un feedback gigantesco. Gigantesco per me, rispetto a quello che i lettori mi scrivono, ad esempio. È molto significativo che un sacco di gente mi diceva che non aveva mai capito un cazzo di quello che succedeva in quella fase, in quel territorio. E che il mio fumetto aveva spiegato un sacco di cose. E in realtà questa cosa qua m’ha messo un po’ d’ansia. Perché mi sembrava che il fumetto mio, che erano 40 pagine, super-emotive ma pure super-paracule… non è che andavano a sviscerare bene quello che stava succedendo. Erano veramente una cronaca, anche molto emotiva, di quello che avevo visto. Ho pensato che se la gente credeva di capire quello che stava succedendo da quelle 40 pagine, forse invece era il caso di provare a fare qualcosa di un pochettino più approfondito, anche più complicato, magari meno… io uso la parola “paraculo”, perché è ovvio che su 40 pagine uno vede delle cose super-intense e super-commoventi e ha gioco facile. Ma se uno vuole provare a capire davvero costa sta accadendo, è necessario approfondire un pochettino in più gli aspetti che non stanno proprio sotto i riflettori. E quindi mi sembrava che fosse una cosa utile provare a farlo. Per me, ma un po’ per tutti. Anche per chi intorno a questo tema costruisce delle campagne. E questa è un po’ la ratio con cui sono arrivato a fare questo libro.

In Italia e in Europa, la narrazione della questione curda è filtrata pesantemente dagli interessi occidentali. Per esempio, un leitmotiv è l’opposizione tra YPG/YPJ e PKK, cioè tra curdi buoni e curdi cattivi. Quando hai pubblicato “Kobane Calling” su Internazionale hai dato una grossa sterzata a quella narrazione. Con questo libro cosa ti proponi di aggiungere?

Con questo libro mi andava di completare quello che non avevo potuto fare con l’inserto di Internazionale. Quello trattava di tutto l’aspetto siriano della questione. Quindi dei combattenti YPG/YPJ, quelli che l’Occidente considera sostanzialmente buoni. Era anche uscito in un momento in cui di PKK si parlava poco. Invece, con la ripresa dell’offensiva turca contro il popolo curdo e contro i guerriglieri, e anche con i bombardamenti di Qandil, c’è stata una ripresa della criminalizzazione del PKK. Anche in Europa. Del PKK e in generale dei combattenti curdi in Turchia. A me andava di ribadire che non si può fare una distinzione tra i curdi buoni e i curdi cattivi. Perché una narrazione di questo tipo ha due possibili impostazioni. O quella turca, che dice: sono la stessa cosa, le stesse persone, la stessa organizzazione e quindi sono terroristi anche i siriani. Oppure la narrazione occidentale, che dice: quelli siriani sono buoni, quelli in Turchia sono cattivi. Il libro parla del secondo viaggio che abbiamo fatto con Rojava Calling, poi Retekurdistan. In questa seconda esperienza, abbiamo cercato di conoscere le diverse realtà della resistenza curda. Sia quella del PKK sui monti di Qandil, sia la parte del Rojava. Questo perché volevamo indagare il legame tra queste due realtà per uscire dalla dicotomia che ci viene proposta dalla narrazione mainstream. Ed è una relazione evidentemente complessa, che io nel libro ho provato a raccontare ma che sicuramente andrebbe approfondita di più. Si tratta di un legame culturale e teorico inscindibile. E questo mi sembrava importante raccontarlo, anche rispetto al modo in cui viene trattato dai giornali in questo periodo. Poi c’è un’altra cosa che è un mio pallino: raccontare i contesti in cui avvengono le cose. I giornali mainstream spesso non raccontato l’insieme delle cose, ma illuminano soltanto dei segmenti nello spazio e nel tempo. Ad esempio, delle donne combattenti viene raccontata la giornata tipo a Kobane, ma nessuno spiega cosa le ha portate a quella scelta, cosa ha prodotto il fatto che tante donne abbiano imbracciato il fucile. A me andava di raccontare il percorso, l’evoluzione, il processo che ha portato a questa situazione.

Hai scritto che il viaggio in Rojava serviva, tra le altre cose, per andare a vedere da vicino un modello che viene celebrato da tantissimi in giro per il mondo. Per controllare in prima persona che non fosse tutto “un grande bluff”. Che cosa hai trovato? Hai capito perché quel modello affascina un sacco di gente che in Rojava non è mai stata?

Ho trovato una scommessa. Una scommessa gigante che un sacco di curdi stanno facendo. Io ci sono andato per capire se valeva la pena anche per noi scommetterci. E devo dire che sì, che ne vale la pena. Di sicuro non è un grande bluff, dato che tutti i principi enunciati sulla carta dell’autogoverno, che era un po’ la cosa che ci affascinava dall’Italia e da tutta Europa, sono principi che effettivamente vengono messi in pratica. Poi è chiaro che questo sta avvenendo con tutte le contraddizioni della realtà concreta. Se uno va là pensando di trovare il paradiso compiuto sta evidentemente cercando qualcosa che non esiste. E se ci va con quel tipo di bagaglio ideologico probabilmente si troverà spiazzato. Quello che si vede, invece, è lo sforzo e l’impegno a mettere in pratica quella roba. Anche procedendo per tentativi, per capire se una certa misura va nella direzione giusta o no. E questa cosa qua, secondo me, è una roba che a vederla ti trasmette proprio il senso di una grande scommessa. E tutto sommato penso che ci sia anche una parte sana in questa fascinazione… perché credo anche che siamo sempre molto affascinati da quello che si muove molto lontano da noi e tendiamo sempre a leggerlo con le lenti dell’ideologia o della fascinazione per l’esotico… mentre la parte sana di questo tipo di fascinazione è il fatto di riconoscere questa scommessa e decidere di investirci. Quello che si vede lì è una forza che non solo dice delle cose bellissime, ma ha dato prova di essere una realtà credibile e affidabile anche nella pratica concreta. E non solo dal punto di vista militare, perché sta battendo l’ISIS. Ma anche nella maniera in cui governa le città e i territori che si trova a liberare. Penso che quello che affascina un po’ tutti è che abbiamo l’opportunità non solo di ascoltare qualcuno che dice delle belle cose, ma anche di vedere quello che si sta costruendo e si sta mettendo in pratica. E penso che investirci è qualcosa che può fare bene sia a noi che a loro.