DIRITTI
Violenza di genere: la partita giocata sui corpi delle donne
“È la morte che ci convoca, ma è per la vita che lottiamo” – Una riflessione verso il corteo nazionale contro la violenza maschile sulle donne del 26 novembre
Siamo nel 2016 e milioni di persone sono ancora costrette a scendere nelle piazze per manifestare contro la violenza sulle donne. Suona antico, eppure è così. L’Italia, infatti, a braccetto con tanti altri Stati europei e non solo, lotta con ogni forza per guadagnarsi il podio tra i Paesi con più alto tasso di violenza sulle donne. Ben lungi dal superamento degli scenari medievali pieni di arretratezza (povero Medioevo!) che invece, con un filo di presuntuosità intellettuale e culturale, siamo soliti attribuire ai Paesi musulmani o a quelli cosiddetti, ahinoi, del “terzo mondo”.
Negli ultimi mesi si fanno sempre più frequenti le mobilitazioni che denunciano lo scempio della violenza sulle donne; che non parlano, però, solo di quanto esse siano vittime, ma affermano piuttosto la loro volontà di autodeterminazione e azione politica. Prese di parola potenti che attraversano Argentina, Messico, Bolivia, Cile, Spagna, Italia, Islanda, Rojava, Polonia, India, Corea… perché ogni giorno, in tutto il mondo, tantissime donne vengono assassinate: arse vive, accoltellate, ammazzate con un colpo di pistola, con l’acido, strangolate. Recentissimo è il caso che ha portato agli imponenti scioperi delle donne in tutta l’Argentina: la storia di Lucía, sedicenne stuprata e poi impalata (già, impalata: con un bastone) finché non ha perso la vita a causa della lacerazione dei tessuti interni. O quello di Sara, la ragazza bruciata viva dall’ex fidanzato qualche mese fa a Roma. Sì, purtroppo anche in Italia i dati sono decisamente allucinanti: nel nostro Paese infatti, ogni tre giorni, una donna viene uccisa. E in modo aberrante.
Tutto questo è agghiacciante, esatto, ma è purtroppo solo il punto più alto di una violenza dalle varie sfaccettature che si manifesta nei modi più diversi all’interno della nostra società, investendo relazioni sociali, economiche, politiche. Una violenza che si muove infatti su più livelli. Dalle mura domestiche, investendo l’ambito dell’affettività. Passando per i luoghi del lavoro, nei quali la precarietà e l’enorme disparità salariale si fanno sempre più acute e dove il corpo e il suo uso potenziale assumono sempre più centralità all’interno della relazione professionale. Insinuandosi in quelli della sanità, dove il diritto alla salute sembra sempre più qualcosa da meritare, mentre intanto il Sistema Sanitario Nazionale subisce tagli da tutti i lati, i Consultori vengono definanziati, la contraccezione ostacolata, l’interruzione di gravidanza negata da parte degli ormai troppi medici obiettori. E ancora, la violenza si muove nella narrazione mediatica. Raggiunge il campo dell’istruzione, laddove una formazione accettabile su tematiche di genere è praticamente inesistente. Approda infine negli spazi istituzionali, in cui, invece di costruire politiche adeguate come soluzione a questi problemi, si offrono risposte continuamente inefficaci.
Non siamo ingenui però, sappiamo che l’inefficacia delle politiche dei nostri Governi non rivela semplicemente incompetenza di fronte a un problema, bensì scelte politiche ben precise (si veda, ad esempio, il recente Piano Nazionale Fertilità proposto dal Ministero della Salute). Non è un caso che la violenza sui corpi delle donne sia un fenomeno globale. Se infatti, essa non è né una questione privata né di cultura individuale, bensì un fenomeno strutturale che investe la società nella sua complessità, è perché su questo ben più di qualcuno ci guadagna. Sia chiaro, questo non giustifica o deresponsabilizza in nessun modo gli artefici della violenza. Sappiamo, però, che la perpetuazione di qualsiasi sistema si regge sulla sua riproduzione. E al giorno d’oggi, sul corpo delle donne si gioca una grossa partita a livello globale: la riproduzione di un sistema che assegna il potere ad alcuni e non ad altri. All’interno di questo panorama il ruolo della donna (così come quello di ognuno di noi), è fondamentale in termini di produzione di ricchezza e riproduzione di quelle condizioni che rendono possibile quella ricchezza – si veda, solo per portare un esempio semplice, il lavoro domestico svolto (maggiormente) dalle donne, il quale, anche se non retribuito e non produttore diretto di profitto, garantisce quella qualità di vita che permette ai componenti della famiglia di alzarsi ogni mattina, andare a lavoro e produrre.
Infatti, l’intento di assoggettamento e reclusione delle donne all’interno di categorie apolitiche caratterizzate dalla condizione di subalternità, di fragilità, di vittime, di madri, di oggetti, sta all’interno dei dispositivi attraverso i quali si riesce a costruire un modello di genere che normalizza e va a perpetuare un sistema atto a depotenziare certe forme di vita per affermarne altre compatibili con il modello vigente dominante, in questo caso quello che comunemente viene definito neoliberale e patriarcale, caratterizzato da rapporti di potere, subordinazione e produzione ben precisi. Così il genere diventa strumento di controllo e ingabbia la donna all’interno di un ruolo di vulnerabilità e mai autonomo dal quale non deve uscire. Il genere, dunque, così come l’etnia, la classe sociale,l’età e così via, fa parte degli strumenti utilizzati per articolare e controllare l’organizzazione della vita. Strumenti che individualizzano e dividono, che incatenano ruoli e funzioni in modo che nessuno si muova.
È chiaro dunque che la questione della violenza sulle donne non è solo un problema delle donne: qui non c’è in ballo solo la nostra esistenza, c’è in ballo la felicità di chiunque costruisca forme di vita incompatibili con quelle proposte dal modello dominante. La lotta “femminista”, per intenderci, non consiste nella mera valorizzazione della donna, ma piuttosto nello smontare un certo tipo di organizzazione sociale, nel riconsiderare l’idea, per nulla corrispondente alla realtà, che possa esserci un’unica e sola forma di vita accettabile, nel ripensare la staticità delle categorie che articolano la nostra società. L’assunzione di questa lotta, infatti, non passa solamente per il nostro identificarci come donne, ma si afferma nel riconoscersi reciprocamente nell’individuazione di ingiustizie che si articolano, si strutturano e trovano terreno fertile nella disuguaglianza di genere.
Non possiamo permettere che le nostre vite vengano messe a profitto senza poter decidere noi cosa farne. Non possiamo lasciare che si continuino a gestire, impacchettare e capitalizzare continuamente le nostre esistenze. Non possiamo permetterlo, a noi stesse, perché come gridava una donna latinoamericana durante la grandissima manifestazione del mercoledì nero dello scorso 19 ottobre:“È la morte che ci convoca, ma è per la vita che lottiamo”.
Per questo il 26 novembre a Roma ci sarà una grande manifestazione: perché nulla è scontato e perché quel mondo in cui ognuno può scegliere il proprio percorso e autodeterminare la propria esistenza è tutto da costruire, conquistare e sperimentare. Il giorno dopo, 27 novembre, ci attende poi una giornata di workshop sui vari temi definiti nell’assemblea nazionale dell’8 ottobre per sviluppare dei ragionamenti utili a indagare cos’è la violenza di genere e quali sono i percorsi e le pratiche che ci porteranno a muovere dei primi passi concreti verso il ribaltamento di un paradigma di vita che non è più accettabile; tra questi, scrivere dal basso un Nuovo Piano Nazionale contro la Violenza di Genere che sostituisca quello attuale. Né vittime, né deboli, né fragili. Solo ciò che si desidera essere.