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MONDO

USA al bivio #5: Biden e i democratici nel vortice

Il Presidente non molla. Dopo la performance molto negativa al primo dibattito con Trump, che ha alimentato i sospetti sulla sua reale capacità di reggere una campagna elettorale e soprattutto un secondo term, il candidato democratico si difende in una lunga intervista per ABC. Del resto, questi quattro anni non sono certo stati un insuccesso: la criminalità è livelli molto bassi, l’inflazione è scesa e i mercati continuano a registrare record. Ma l’elettorato statunitense è volubile e demotivato

Qualcuno si è preso la briga di contare. Dal disastroso dibattito ad oggi, il “New York Times” ha pubblicato 70 articoli, 20 opinioni, un editoriale e 4 podcast sulla discutibile competenza di Biden. Sono molti i democratici che criticano la campagna per convincere Biden a cedere il passo, che in questi giorni di afa non accenna a diminuire e anzi cresce con l’aria di inesorabilità di una slavina alimentata dalla cronaca dei giornali e il rimbombo social. Dalla prospettiva “bidenista” il battage del “NYT” infuria, specie perché ha rimpiazzato la copertura dell’avversario. Da una settimana a questa parte, Trump, con i suoi disegni sulla democrazia americana, questi ben lucidi, sembra diventato invisibile, del tutto oscurato dalla speculazione sulla competenza del Presidente.

Molti all’interno del partito denunciano il “tradimento” dei media mainstream, non solo perché ignora il pericolo esistenziale che deriva dal programma di “terra bruciata” (parole della nuora Lara) annunciato da Trump, ma perché non tiene conto dei risultati ottenuti in quattro anni dall’amministrazione Biden. Quelle politiche keynesiane hanno effettivamente registrato interventi di welfare a favore delle classi medie più massicci sia di Obama che di  Clinton. Come non cessano si sottolineare alla Casa Bianca, la criminalità è ai livelli più bassi in 50 anni, l’inflazione scesa quasi al target del 2% e i mercati continuano a registrare record. Come ha scritto l’analista David Frum, «gli USA potrebbero diventare la prima democrazia a crollare con l’occupazione piena e i salari in crescita».

Sfortunatamente nessuno dato o punto percentuale influirà su di un elettorato volubile e demotivato quanto la percezione epidermica dei candidati e, da questo punto di vista, i catastrofici 90 minuti sotto i riflettori della CNN hanno provocato un danno forse irreparabile, di certo non reversibile da argomentazioni statistiche. Riportare il discorso sugli obiettivi conseguiti, oltre che inefficace, è un errore tattico quanto lo è denunciare l’autoalimentazione del news cycle in una spirale viziosa, che nessuno spin può sperare di controllare. Lo ha dimostrato l’intervista organizzata a questo scopo nel talk-show “amico” di George Stephanopoulos, che prima di essere giornalista ABC è stato portavoce di Bill Clinton. Al suo microfono, il Presidente ha escluso ogni ipotesi di ritiro. «Anche se glielo chiedessero i suoi sostenitori più stretti?Forse se me lo chiedesse iddio onnipotente…». È stata la battuta, calibrata forse per proiettare una disinvolta sicurezza ma che, come gran parte dell’intervista, ha prodotto invece una sensazione di distacco dall’effettiva entità del problema. Ancora più problematica è stata la risposta all’eventualità di una sconfitta. «Se avrò dato il meglio di me, me ne farò una ragione», che  è sembrata gravemente sottovalutare le conseguenze di una presidenza Trump prodotta da una mal riposta testardaggine personale.

Nell’insieme una performance giudicata insufficiente dal pubblico target, il partito nel quale sono sempre più visibili le crepe nel sostegno al candidato e nel quale si registrano  defezioni quotidiane, senza peraltro che si delinei un consenso su eventuali alternative, salvo un ruolo “inevitabile” per la vice, Kamala Harris.  Uno scenario doloroso, familiare a chiunque si sia trovato dover sottrarre le chiavi dell’auto a un anziano parente, con il rischio annesso di un “litigio in famiglia”. Al coro crescente di opinionisti democratici che lo auspicano, come Maureen Dowd, Anne Applebaum e Paul Krugman, fa infatti riscontro la postura sempre più difensiva e risentita dei lealisti. Un ritratto di famiglia sull’orlo di una crisi di nervi che affronta, per avere colpevolmente rimosso un problema lampante, l’ultimo dilemma di cui avesse bisogno a quattro mesi dalle elezioni e con un Trump risorgente. 

Non la situazione ideale per affrontare un possibile nuovo insediamento di un golpista pluri-inquisito e condannato, che non fa nulla per dissimulare le sue intenzioni di rivalsa e vendetta sui nemici e la messa in atto del programma già stilato dai think tank integralisti e reazionari che lo sostengono. Oltre alla sensazione di rovina che grava sul partito democratico, si respira infatti un’aria di premonizione, senza che siano evidenti le pulsioni anti-autoritarie che in Francia sono riuscite a ostacolare il fascismo annunciato.

Non che manchino, certo, le buone ragioni per farlo. Abrogazione di diritti civili, decurtazione del welfare, proibizione dell’aborto, sconti fiscali alla plutocrazia, deportazioni e securitarismo sono elencati chiaramente nel Project 2025, da cui Trump cerca oggi di distanziarsi, ma che è da considerarsi affidabile programma di un suo prossimo governo. 

Né è possibile ignorare cosa comporterebbe un suo ritorno, oggi che la Corte suprema, ideologicamente deformata verso destra, gli ha fornito una licenza illimitata per implementarlo con la sentenza che di fatto lo mette al riparo da ogni prosecuzione penale. 
Si presagisce di fatto l’attuazione di quella che Kevin Roberts, capo della Heritage Foundation (autrice del Project 2025) ha definito «la seconda rivoluzione americana». E se rimanesse qualche dubbio la “rivoluzione culturale” programmata dalla destra, è già in bella mostra negli stati “rossi” che da un paio di anni i governatori oltranzisti hanno trasformato in laboratori di politiche improntate al liberismo estremo, il darwinismo sociale e l’oscurantismo religioso.

Quello che risulta sempre più chiaro è che l’unica via d’uscita alla possibile alla regressione populista sarà politica. Come nessuna sponda istituzionale è riuscita contenere il debordante governo di Trump, così i tre rami di governo hanno fallito in successione di impedire che si ripresentasse alla soglia del potere. Il Congresso fallendo per due volte l’impeachment, l’esecutivo che ha impiegato ben due anni per formalizzare le imputazioni per i fatti del 6 gennaio e il giudiziario che lo ha poi preventivamente esonerato. Ora è più che chiaro, non vi sarà soluzione giuridica al trumpismo. Crisi o non crisi, Biden o Harris, l’ultima possibile sponda saranno gli elettori, il 5 novembre prossimo.

Immagine di copertina: Joe Biden, 21 agosto 2020, fotografia dal sito ufficiale della Casa Bianca, disponibile su Wikimedia Commons.

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