approfondimenti

ITALIA

Una questione settentrionale?

Emerge dal nuovo rapporto SVIMEZ che il 2023 è stato uno spartiacque delle politiche economiche. La spesa pubblica espansiva post-Covid ha generato effetti inattesi nel Mezzogiorno tra il 2019-23 e il rallentamento dell’economia nel nord riflette la crisi della Ostpolitik tedesca. In questo quadro leggiamo il voto del ceto medio per la destra post-fascista

Il 2023 potrebbe essere ricordato come l’inizio del declino delle politiche fiscali espansive post-Covid italiane. L’ultimo anno dell’eccezionalità della risposta fiscale anticiclica sperimentata nella pandemia, prima di giungere, nell’anno in corso, all’approvazione delle ultime regole europee del patto di stabilità che aprono ufficialmente la  nuova stagione di contenimento del bilancio.  È l’ipotesi di fondo che emerge in un recente rapporto della SVIMEZ, redatto in collaborazione con ref.ricerche. Una tesi che, come tradizione dell’istituto, chiama in causa il rapporto nord-sud del paese. Dove le linee dei divari di sviluppo, questa volta, sembrano contribuire a tracciare possibili evoluzioni di una geografia economica nazionale messa fortemente in tensione dal regime di guerra globale.

Spesa pubblica e miglioramento temporaneo e “accidentale” del Mezzogiorno

È ampiamente riconosciuto che il quinquennio 2019-2023 si è caratterizzato per l’adozione di misure di politica economica in controtendenza rispetto alla storia europea degli ultimi trenta anni, favorite dalla sospensione temporanea del Patto di Stabilita e Crescita.  Con la conclusione dei lock down pandemici l’economia italiana in linea con altri paesi europei, grazie a una spesa pubblica espansiva, ha potuto evitare una recessione prolungata come nel post-2008 e nel 2011. Negli ultimi cinque anni (2019-2023) il PIL reale è cresciuto del 3,5% in Italia e del 3,4% nel centro-nord, mentre è nel Mezzogiorno che si è registrato il dato più elevato (3,7%). Non una crescita di trend, ma neppure solo un mero rimbalzo dell’economia, piuttosto qualcosa che richiama in causa gli effetti della spesa pubblica espansiva nel contesto del “caos sistemico” della congiuntura globale. Una crescita che al sud è stata trainata soprattutto dalla componente degli investimenti, come conseguenza del PNRR, della misura di garanzia sui crediti, della chiusura del ciclo di programmazione delle risorse comunitarie 2014-20.

Nel Mezzogiorno la spesa in conto capitale ha fatto registrare un aumento del 29,6% nel periodo citato, a fronte del 25,2% del centro-nord e del 26% a livello nazionale.

Sono stati gli investimenti (pubblici e privati) nelle costruzioni, in modo particolare, a trainare il dato compressivo di questo aggregato della domanda nel quinquennio, complice evidentemente anche la misura del superbonus introdotta dal governo Conte II: +40,5% nel Mezzogiorno, a fronte di +35,9% nel centro-nord e +37% a livello nazionale. Coerentemente i dati sul valore aggiunto settoriale (2019-2023) mostrano come la tenuta dell’economia sia stata assicurata essenzialmente dalla “bolla” del settore delle costruzioni, ancora una volta con un incremento maggiore nel Mezzogiorno (+37,9%), rispetto al centro-nord (+28,3%) e al dato nazionale (+30,7%), mentre nel settore dei servizi la crescita è stata dieci volte più bassa e l’industria ha fatto registrare quasi ovunque una contrazione.

Anche l’occupazione ha fatto registrare dati più elevati al sud, dove la variazione del 2023 sul 2019 è stata pari al 3,5%, a fronte del 2% nel centro e a livello nazionale e dell’1% e 1,7% rispettivamente nel nord-ovest e nord-est. Una occupazione che nel Mezzogiorno è stata determinata dall’incremento degli occupati nelle costruzioni e nei settori a più basso valore aggiunto, in un quadro drammatico segnato dai bassi salari e dalla crescita dei working poors su cui si concentra il rapporto.

A leggere i dati del 2019-2023, a cavallo tra il governo Conte II e quello Draghi, questo periodo sembra essere segnato da una sorta di meridionalismo accidentale. Il risultato di un effetto collaterale delle politiche economiche espansive, piuttosto che l’esito di una strategia politica consapevole. Sembra essere il frutto esclusivo di un disegno di politiche anticicliche contraddittorie che nel contesto della crisi pandemica, pur avendo portato più risorse dove più intensa è stata la crisi, non hanno però neppur minimamente stimolato un cambiamento strutturale dell’economia, necessario ai tempi della crisi climatica e dei cambiamenti dei modi di produzione favoriti dall’IA. Un esito coerente, ad esempio, con le ipotesi critiche sul PNRR già tracciate in una recente pubblicazione di Gianfranco Viesti.

Nella storia del paese non è la prima volta che il sud fa temporaneamente registrare risultati migliori rispetto al resto del paese. Più di recente è accaduto alla fine del ciclo di programmazione comunitaria 2007-2013, quando le regioni meridionali hanno temporaneamente aumentato la spesa pubblica al fine di non perdere le risorse di Bruxelles.

È una banale constatazione che però ci aiuta a rileggere ancora una volta l’insegnamento di Luciano Ferrari Bravo. Il legame tra sviluppo e sottosviluppo è espressione di un rapporto dialettico mediato dallo Stato, esito di una logica economica costitutivamente dinamica e relativamente adattabile sul piano storico. Un legame segnato essenzialmente da una razionalità in cui a prevalere è la forma politica di dominio che combina gerarchicamente i “fattori produttivi” presenti in queste diverse porzioni di territorio nel quadro della geografia dell’accumulazione capitalistica globale: peso rivestito dalle branche dell’economia, specializzazioni tecnologiche, flussi di forza lavoro, ecc. Se nel quinquennio 2019-2023 si è registrata una relativa novità nei pattern di sviluppo nord-sud, al netto della congiuntura eccezionale della spesa pubblica espansiva, è anche perché si sta imponendo una nuova «questione settentrionale», che inseguito allo scoppio del conflitto russo-ucraino ha assunto caratteristiche strutturali non più aggirabili e non facilmente risolvibili. Il rallentamento economico delle regioni del nord è, evidentemente, il riflesso dei cambiamenti strutturali che premono complessivamente sull’Europa e riguardano in particolare l’economia tedesca.

Il cambiamento nelle politiche di sostegno al reddito

Il rapporto allarga opportunamente lo sguardo alle politiche welfaristiche di sostegno al reddito, un aspetto cruciale per comprendere le modifiche interne ai differenziati «regimi di crescita». Tra il 2019 e il 2023 si è concentrato un insieme variegato di misure: a) il Reddito di Cittadinanza (che nel 2024 è stato sostituito dall’Assegno di Inclusione); b) le misure specifiche di contrasto alla pandemia tra il 2020-21 (tra cui reddito di emergenza, bonus baby sitting, una tantum per i lavoratori non coperti da integrazioni salariali, cassa integrazione con causale Covid, ecc.); c) interventi contro il caro energia dal 2022. Il sostegno della politica di bilancio al reddito disponibile delle famiglie è stato senza precedenti nell’anno della pandemia, poi è diminuito progressivamente fino al 2023. In questa cornice a beneficiare del sostegno al reddito sono state per ovvie ragioni principalmente le regioni del sud. Si è trattato, però, di un beneficio temporaneo e parziale, poiché mentre il sostegno al reddito è andato progressivamente diminuendo fino al 2023, il reddito reale delle famiglie meridionali dal 2021 è stato eroso dall’inflazione più che nel resto del paese, segno evidente che l’inflazione ha sempre effetti differenziati che contribuiscono ad accumulare diseguaglianze, generando nuove gerarchie, forme di povertà e di esclusione.

Che il 2023 sia stato uno spartiacque è confermato anche da alcuni cambiamenti interni alle politiche di sostegno al reddito. Non solo perché l’intensità della spesa pubblica si è ridotta consistentemente e il governo Meloni ha cancellato il Reddito di cittadinanza.

A questo si aggiunge un più generale cambiamento nelle altre politiche di sostegno al reddito. L’attuale governo post-fascista, nel contesto della crisi inflattiva, ha spostato progressivamente l’attenzione verso misure a favore della riduzione del cuneo fiscale, a cui si sono aggiunti altri interventi nel tentativo di contenere le lotte salariali che in Francia e in Inghilterra già erano esplose (innalzamento dei tetti del welfare aziendale fino alla flat tax per il lavoro autonomo). Essendo queste misure rivolte ai percettori di redditi da lavoro (dipendente e autonomo), il tentativo sembra essere stato quello di rispostare il maggior flusso della spesa pubblica nuovamente al nord, nelle regioni caratterizzate da tassi di occupazione più alti.

Il vagone e la locomotiva

Il punto su cui vale la pena soffermarsi riguarda il modo in cui il quadro appena descritto conduca verso uno scenario di grande instabilità sia sociale che politica dove in primo piano torna la questione territoriale. Le stesse elezioni europee hanno certificato la rilevanza di una tale questione laddove il voto per il partito di maggioranza di Giorgia Meloni presenta una distribuzione territoriale e sociale molto marcata. Al suo consolidamento nelle regioni del nord corrisponde una debolezza nelle regioni del sud. A una forte incidenza tra gli imprenditori, i lavoratori autonomi di prima e seconda generazione e gli operai fa da contraltare una minore capacità attrattiva tra gli studenti, i disoccupati e gli impiegati.

Se, da un lato, la debolezza elettorale riscontrata nelle regioni del sud mostra come la destabilizzazione di quel regime di crescita che ha favorito quelle regioni durante la parentesi post-pandemica e che abbiamo definito come meridionalismo accidentale, si traduce più in un aumento dei livelli dell’astensionismo che uno spostamento a destra dell’elettorato (laddove ha penalizzato soprattutto il partito che si era più fortemente identificato con quelle politiche, i 5 stelle) dall’altro lato, la conquista elettorale delle regioni del nord da parte di FdI può esser presa come l’esito di un processo di lungo periodo che ha trasformato il tessuto produttivo di quelle regioni e che nel prossimo futuro rischia di esacerbarsi all’interno di quella che potremmo definire come una nuova questione settentrionale.

L’invasione russa dell’Ucraina ha infatti segnato una cesura geopolitica dalle profonde ripercussioni, che non solo sta imponendo una nuova Zeitenwende (“svolta epocale”) alla Germania ma che investirà nel profondo anche i territori del nord Italia, da oltre trent’anni funzionalmente dipendenti dalla domanda dell’economia tedesca.

Nel 2023 l’esportazione di merci (al netto della componente energetica) è aumentata del 14,2% nel Mezzogiorno, a fronte di una dinamica piatta nel resto del paese (-0,1%), per effetto di un calo registrato soprattutto nelle regioni italiane la cui economia è più esposta alla domanda tedesca.  

La crisi strutturale della Ostpolitik tedesca ha dunque effetti destinati a riverberarsi inevitabilmente fin dentro la struttura della società italiana. Sergio Bologna, nell’analizzare lo spostamento a destra del quadro politico italiano, ha sostenuto che bisogna risalire a prima della crisi del 2008 per rintracciare l’origine di questa sensazione che attanaglia intere componenti del ceto medio, sia datoriale che operaio, il cui pensiero è di essere entrati in una fase strutturale di declino ed emarginazione, covando un senso di rancore verso tutti i presunti responsabili di questa condizione di impotenza. Nello scenario attuale, la necessità di affrontare la crisi del sistema produttivo settentrionale potrebbe condurre a una ulteriore radicalizzazione di questa dinamica interclassista spingendo verso soluzioni che puntano ad aumentare i margini dell’evasione fiscale, dello sfruttamento del lavoro irregolare e del razzismo istituzionale.

Tuttavia, la traduzione politica degli smottamenti in corso è ancora tutt’altro che scontata. Servirà analizzare e attraversare le fratture sociali e territoriali emergenti lavorando su altre linee di composizione, capaci di scongiurare la stabilizzazione del consenso post-fascista.

In copertina: foto di Giulio Gigante in cc su Flickr

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