MONDO

Un mese di sciopero della fame

La situazione dei prigionieri politici palestinesi è da sempre un nodo centrale all’interno del conflitto mediorientale, per numerosi motivi.

È noto quanto il sistema giudiziario israeliano sia estremamente repressivo e preveda l’uso massiccio del carcere per chi si opponga, anche in forma non violenta, all’occupazione militare.

In questi 50 anni di occupazione della West Bank e Gaza, sono stati circa 800.000 i palestinesi che hanno trascorso brevi o lunghi periodi nelle carceri israeliane. Inoltre, è pratica comune la detenzione amministrativa di 6 mesi, sempre rinnovabili, che permette l’arresto anche senza prove concrete. Tale pratica è stata ereditata dal sistema legislativo del Mandato Britannico e incorporata nella legge israeliana.

Per questa ragione il “passare del tempo in carcere in Israele” è diventato quasi un’istituzione sociale, in quanto detenuti di diversi villaggi e orientamenti politici potevano conoscersi, confrontarsi e rafforzare la determinazione nella lotta, pur nella durezza delle condizioni carcerarie e nelle gravi privazioni che la detenzione comporta. Per lunghi periodi, soprattutto durante la prima intifada, il carcere israeliano è stato una vera e propria scuola di formazione politica, in cui i militanti e i quadri dei vari partiti si sono formati e sono cresciuti per poi tornare all’attivismo una volta terminata la detenzione. Ad oggi, questo sistema è fortemente indebolito perché la detenzione avviene in condizioni ancora più difficili che limitano molto la socialità e l’incontro tra detenuti, anche se la funzione sociale di propulsore politico è rimasta.

Anche in anni recenti, movimenti e proteste lanciate dai detenuti hanno sempre avuto un impatto significativo e trasversale in tutta la società e sono riusciti a trascinare la popolazione in larghe manifestazioni di supporto.

Un ruolo fondamentale in queste proteste è sempre stato quello di Marwan Barghouti, leader indiscusso di Fatah, detenuto dal 2002, e unico politico palestinese capace di aggregare attorno a sé un consenso trasversale. Marwan è ancora oggi l’unica figura nazionale unificatrice, simbolo di determinazione nella lotta e di serietà e onestà, che invece molti altri politici palestinesi non sono più in grado di dimostrare per l’opacità delle scelte, l’ambiguità delle posizioni, la corruzione e la complicità con gli occupanti. Non è certo un caso che ogni trattativa per il suo rilascio e un suo ritorno alla vita politica sia naufragata.

Tra le varie forme di protesta portate avanti dai detenuti politici lo sciopero della fame è sempre stato tra quelle più utilizzate. Israele ha spesso fatto ricorso a misure repressive anche contro questa pratica, come l’alimentazione forzata o l’ulteriore isolamento dei detenuti.

Siamo arrivati oggi al ventinovesimo giorno di sciopero della fame nelle carceri israeliane, lanciato questa volta da Marwan Barghouti in persona, con un forte articolo di denuncia pubblicato sul New York Times, che ha permesso di dare visibilità a livello internazionale alle condizioni carcerarie imposte dallo stato di Israele

I prigionieri chiedono un miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri, l’accesso costante alle cure mediche, spesso negate dalle autorità carcerarie, il rispetto del diritto di visita di legali e familiari e soprattutto la fine dell’utilizzo della detenzione amministrativa.

Anche questa volta, la protesta ha scosso nel profondo la società palestinese. Sono state organizzate manifestazioni di protesta in molte città. In una di queste, venerdì 12 maggio, nel villaggio di Nabi Saleh, famoso per le sue proteste contro l’occupazione militare, è stato ucciso da un militare israeliano Saba Obeid, un ragazzo di 22 anni.

La reazione dei politici israeliani davanti allo sciopero è stata indifferenza, aperta ostilità, fino all’arroganza sadica di un membro della Knesset che, insieme ad altri componenti del suo partito di estrema destra, ha organizzato barbecue davanti alla prigione di Ofer.

La situazione politica tra Israele e Palestina è incagliata in un pericoloso cul-de-sac, perché da un lato Israele avanza nelle sue politiche estremiste e razziste, dall’altro la leadership palestinese non è riuscita a costruire proposte concrete che potessero avviare la mobilitazione sociale o la trattativa diplomatica. In questo momento entrambe sono drammaticamente silenti. Mentre le colonie si espandono e la Knesset continua a sfornare leggi razziste, la violenza dell’occupazione continua.

La forte preoccupazione che tutti abbiamo per la salute dei più di 1.500 prigionieri in sciopero si accompagna perciò alla speranza che la loro iniziativa possa essere, anche questa volta, una leva di sblocco per una situazione politica così pericolosamente incancrenita.