ROMA
TrentAnniForti: pirati a Centocelle
Primo maggio: compleanno del Forte Prenestino e presentazione di Fortopìa. Recensione in anteprima
È davvero difficile sfogliare le pagine di Fortopìa (edizioni Fortepressa – La Bagarre onlus) senza emozionarsi. Una sorta di album di famiglia non convenzionale, scritto da mille mani, che racconta 30 anni di “storie d’amore e di autogestione” del Forte Prenestino, Centro Sociale Occupato e Autogestito di Centocelle. Un lavoro collettivo che verrà presentato, ovviamente, domenica prossima, durante la trentatreesima Festa del non lavoro, che nella sua prima edizione del 1983 fece da prologo all’occupazione del 1986. Quel primo maggio è la pietra miliare della Roma underground, una delle prime volte in cui punk e skin si ritrovarono a pogare insieme sotto il martello hardcore dei Bloody Riot e il combat-ska della Banda Bassotti. Il concerto dei sindacati confederali di San Giovanni sarebbe arrivato solo nel 1990, ma la Festa del non lavoro si posizionava già come alter ego delle cerimonie ingessate del Primo maggio istituzionale, ormai estraneo alla generazione precaria condannata sull’altare dei sacrifici, dell’austerità e del compromesso storico.
A pensarci bene, non conosco uno spazio sociale che può vantare un rapporto così intimo con la vita delle persone che lo hanno abitato e attraversato. Una storia collettiva e singolare, una storia metropolitana di libertà e resistenza alla dittatura del reale, narrata come un fiume in piena in 430 pagine di fotogrammi, frame, locandine d’epoca, pensieri sparsi, lettere, poesie, analisi politiche, racconti esistenziali, memorie irregolari, invenzioni artistiche e tecnologiche, linguaggi dei corpi e visioni lisergiche, impressioni di settembre e flash primaverili, slanci d’amore e scazzi furiosi, critiche e autocritiche, addii dolorosi e ritorni promessi. Parole e immagini prodotte direttamente da chi il Forte lo ha occupato, conosciuto, abitato, frequentato, visitato, suonato, recitato, progettato, amato e odiato anche solo per un giorno. Una raccolta polifonica che suona come un battito comune e folgorante.
Un almanacco storiografico e sentimentale che percorre la cronologia degli eventi e delle continue mutazioni, dalla fine degli anni Settanta ai nostri giorni. Una “geografia del desiderio”, per utilizzare il titolo di una vecchia inchiesta sui centri sociali di Primo Moroni, ma anche una bussola utile per indagare il rapporto tra movimenti e spazio urbano, controculture underground e produzione culturale tout court, autogestione e mutualismo, militanza politica e rivolta esistenziale. Senza filtri, senza autocensure preventive, senza celare la parte oscura e dolorosa che ha segnato il lungo viaggio di questi pirati con la saetta nel cuore.
Anche l’avventore più casuale di questo ex forte militare, costruito alla fine del XIX secolo, ricorda con nettezza la sua prima volta: l’attraversamento del ponte levatoio, un passaggio dell’anima in una dimensione psico-urbana che mozza il fiato. Un’area di 13 ettari fatta di cunicoli, cantine, depositi, due piazze d’armi, un’area rialzata sospesa tra giardini, alberi e stanze-caverne trasformate negli anni in spazi abitativi in perenne lotta contro l’umidità. Una storia sospesa tra miti e leggende, passaggi di proprietà tra demanio e comune, episodi eroici (il furto di armi e munizioni da parte dei partigiani durante l’occupazione tedesca) e avvenimenti tragici (il ritrovamento dei resti di un bambino, nel 1977, durante la prima occupazione lampo).
L’anomalia del Forte è scritta nel processo politico che dà vita all’occupazione. Centocelle, periferia est, primi anni Ottanta; anche qui l’esplosione del ’77 è già un ricordo lontano, una generazione intera si trova in galera, le sedi politiche segnano il passo o chiudono i battenti, il riflusso porta in dote licenziamenti di massa e ritorno al privato, il cielo diventa grigio come a Chernobyl e ci si dopa guardando Dallas su Canale 5. L’eroina diventa merce inflazionata nelle strade e sui muretti, l’esito obbligato della normalizzazione imposta da Agnelli e sostenuta da Craxi.
Chi è sopravvissuto all’agonia della sinistra extraparlamentare decide di cambiare tavolo da gioco, promuove associazioni e riviste (Acab e Vuoto a perdere) che si emancipano dai cliché comunicativi e iconografici dei “maestri”; altri si aggregano per stile di vita e di strada, seguendo l’onda lunga del punk e delle sue contaminazioni (new wave, ska, reggae). Tra le comitive di piazza dei Gerani e piazza dei Mirti, tra i collettivi dei licei di zona, tra gli apolidi del lavoro salariato gira un’aria nuova. C’è chi ne fa una elaborazione teorica: se è la città intera, nelle sue filiere produttive e sociali, che viene messa a valore dai “nuovi padroni”, bene, occorre riprendersi un pezzo di questa città, sottraendola alla mercificazione, alla speculazione, al silenzio, alla repressione. Altri ne fanno una questione di ossigeno, di spazi vitali di espressione, di microfisica esistenziale, magari solo per sballarsi in santa pace o per suonare la musica di Jello Biafra o di Ian Curtis. D’altronde a Montesacro e a Colli Aniene sono già partiti, hanno occupato Hai visto Quinto e il Blitz. Perché non farlo pure nel quartiere dei fiori e delle piante?
È questo miscuglio di ex autonomi e punk, anarchici e comunisti, ecologisti radicali e agnostici della politica, femministe e skin, attori spericolati e musicisti sperimentali, che definisce la matrice fondativa di uno spazio sociale inafferrabile ai criteri della militanza tradizionale, capace di tenere insieme le memorie dei collettivi politici con le esperienze controculturali delle nuove generazioni. È questo respiro sincretico che, la sera del primo maggio 1986, decide di non tornare a casa, prendere la tronchese (prestata dai compagni del Blitz) e rompere la catena che apre la porta del paese delle meraviglie.
Dopo la rincorsa della ricostruzione storica, le pagine di Fortopìa si concentrano sulla fase pioneristica della messa in moto del mostro in tufo, della sua bonifica, della ristrutturazione degli spazi e le avventure per l’allaccio alla rete fognaria, della luce e dell’acqua da conquistare, delle birrerie messe su alla garibaldina e della sedimentazione organizzativa dell’autogestione.
I concerti punk e hardcore, nei primi anni di vita, rappresentano la benzina principale che alimenta il motore del Forte: la potenza straight-edge di Henry Rollins e la sua band, un giovanissimo Dave Grohl che sostituisce il batterista titolare degli Scream, la voce militante di John Sinclair degli MC5 che arringa la folla nei sotterranei della “Cattedrale”. E poi Fugazi, DOA, Contropotere, Kortatu. Fino alle quasi diecimila persone al concerto dei Mano Negra del 1992. L’Europa e il mondo della musica dei bassifondi fanno irruzione anche nel paese dei (pallosi) cantautori impegnati e della robaccia da Domenica in.
Siamo già sull’affaccio dei Novanta, la danza selvaggia della Pantera scuote le università e le città del Belpaese. Nuova linfa attraversa il Forte e la scena dei centri sociali romani. L’hip hop militante di Onda Rossa Posse inaugura una scena che cambia definitivamente la colonna sonora del movimento, l’attitudine DIY si mette al servizio della costruzione di reti produttive e di distribuzione, nasce la Cordata. Nella sala di Musica Forte viene registrato Conflitto, album seminale degli Assalti Frontali e Brutopop, edito dal Manifesto, di cui vengono vendute 25 mila copie.
Ma sono anche gli anni dell’esplosione della produzione teatrale, performativa (Margine Operativo), delle nuove tecnologie digitali e in rete (Avana bbs), dei progetti editoriali insubordinati (Torazine). Il Festival dell’arte del 1991 e la celebrazione del centenario della nascita di Majakosksy del 1993 (promossa da una rete di centri sociali e collettivi che definire eterogeneo è un eufemismo), insieme all’emersione di nuovi percorsi post-femministi e queer, aggiustano la rotta della nave allargando i progetti artistici e la produzione culturale. Giorgio Barberio Corsetti e Alberto Grifi sono compagni di avventura, mentre Achille Bonito Oliva sgrana gli occhi davanti al divieto di entrata all’ingresso del Forte.
Il Forte fa i conti con un passaggio di crescita progettuale e politico, che modula e diversifica l’utilizzo degli spazi interni e si apre alla costruzione di reti e campagne politiche, a partire dal coordinamento dei centri sociali, la battaglia per la delibera 26 sugli spazi comunali, la rete Sprigionare per l’amnistia e la fine della legislazione d’emergenza. Senza dismettere mai la vocazione alla sperimentazione musicale: sono gli anni del boom della Toretta Style, dei free party e della generazione techno, delle Street Parade e le campagne antiproibizioniste, ma anche dell’irruzione dei movimenti globali antiliberisti, dopo l’insurrezione zapatista del 1994. Il sostegno alla lotta dei curdi per Ocalan. E degli assalti alla sottoscrizione di bande staliniste, troppo infami per accettare chi sceglie di non aver paura della libertà.
Il Forte, con tante altre realtà romane, anima Rage, la Rete anti-globalizzaione economica, spazio pubblico che convergerà nello stadio Carlini di Genova. Una oceanica iniziativa al Villaggio Globale fa da trampolino di lancio delle contestazioni del G8. Sui due schermi giganti, ai lati del palco, viene proiettato il geniale contributo video dei fortaroli: una sorta di corso accelerato di “tutela del manifestante”, in cui si mostrava l’utilizzo corretto dei materiali (bottiglie, gommapiuma, parastinchi) che avrebbero dovuto proteggere l’“esercito di straccioni” di via Tolemaide.
Le ferite di Genova non se ne vanno facilmente, lasciano sull’asfalto ingenuità e speranze troppo pure da sopportare. Gli anni zero si accavallano tra nuovi progetti e sperimentazioni, si consolida l’”offerta di servizi” e un format-evento di grande qualità e partecipazione: le feste del raccolto, i festival di fumetti, gli eventi di musica elettronica (Electrode su tutti), le rassegne cinematografiche più off che non si può, i primi eventi post porno. Ma sono anche gli anni dei rigurgiti fascisti, di nuove occupazioni immediatamente affini, delle carovane in Palestina.
Oggi, a leggere tutto ciò che si muove e si aggira alla fine di via Federico Delpino, si rimane senza fiato. Palestra, enoteca, coltivazioni varie, escursionismo militante, corsi di italiano, teatro, serigrafia, pub, cucina, spazio giochi per bambini, mercato terra-terra, Enotica e non ricordo cos’altro. Uno spazio progettuale che ormai esonda il fossato che lo circonda, ma che deve fare i conti anche con l’irrisolto problema della continuità dell’“intervento politico”, dei meccanismi decisionali, della partecipazione attiva e del ricambio generazionale.
Un compleanno così importante è anche l’occasione per fare un bilancio e mettere a verifica strumenti e obiettivi. Cosa resta di 30 anni di autogestione, quando i nuovi padroni della città vogliono smantellare, privatizzare e svendere il patrimonio pubblico – bene comune – di Roma? Cosa resta dell’utopia radicale della Festa del non lavoro, quando la crisi globale picchia duro e la condizione dei precari è diventata la condizione comune intergenerazionale di tutto il mondo del lavoro? Cosa significa produzione indipendente nel paese della dismissione e distruzione della scuola e dell’università pubbliche? Come si favorisce un ricambio generazionale e una memoria condivisa quando la gestione dello spazio spesso assorbe gran parte delle energie, del tempo di vita e di “militanza”? Domande collettive, che riguardano tutti coloro che non si arrendono allo stato di cose presenti, che hanno a che fare con la materialità e la singolarità della nostra vita e delle nostre forme di organizzazione politica.
In questo spazio del possibile e del comune, sul crinale delle torri, nelle celle dei sotterranei, immersi in un pogo senza regole o davanti alle vibrazioni di un basso, in un’assemblea infinita o davanti a una bottiglia di vino, di giorno come di notte, ognuno di noi ha trovato, magari solo per un istante, la propria affinità elettiva, una nicchia ecologica esistenziale, artistica, emotiva, affettiva, politica, in cui poter vivere liberamente una faccia diversa dell’ordine quotidiano. Come quell’alba affollata di una primavera di fine anni zero, quando la cassa dritta lasciò repentinamente il passo alla versione struggente ed epica, firmata Strummer-Cash, di Redemption song di Bob Marley. Nessuno proferì un lamento. Il sole illuminava splendente il drappo, programmatico, calato dalla consolle: “Only Punk Rock”.
Tanti auguri Forte, mille di queste emozioni.