MONDO
Repressione di Stato e media alternativi in Argentina
Dalla repressione ai molteplici casi di “grilletto facile”: un reportage sulle violenze poliziesche racconta le lotte dei media alternativi e dei coordinamenti di amici e familiari delle vittime per rendere visibile e denunciare queste politiche di Stato.
Nel mese di maggio di quest’anno si è finalmente svolto un processo a tre membri della polizia di Buenos Aires per aver sparato sulla folla il 13 marzo 2013, durante lo sgombero dello spazio culturale Sala Alberdi. Un centro culturale che dopo anni di progressiva privatizzazione era tornato a riempirsi di spettacoli teatrali e attività artistiche a partire dal 2010: dalla Sala Alberdi, al sesto piano del Centro Culturale San Martín situato nel pieno centro della capitale argentina, sono passate generazioni di ragazzi, artisti, cittadini che andavano a lezione di teatro, musica, arte e animavano laboratori e spettacoli gratuiti sotto la direzione del Municipio: un istituto pubblico aperto e accessibile a tutti, di grande importanza per la città.
Nel 2006 arriva lo sfratto per evitare i costi della ristrutturazione dello spazio e nel 2009 viene sciolta la cooperativa che gestiva le attività. L’allora sindaco Macri, attuale presidente argentino, dispose la chiusura della Sala Alberdi che fu però impedita dalla protesta e da un ricorso giudiziario che impose al Comune di Buenos Aires di destinare uno spazio alle attività che lì si realizzavano.
Per un anno intero studenti, artisti e manifestanti autoconvocati cercarono di rendere visibile la rivendicazione e far rispettare quanto disposto dal giudice Schafrik, offrendo cicli di lezioni e di incontri culturali e nell’agosto 2010 occuparono la Sala contro il trasferimento delle attività rivendicandone la riapertura. In opposizione alle nuove minacce di sgombero nei primi mesi del 2013 decine di tende apparvero nella piazza davanti al Centro Culturale San Martín e dopo 82 giorni di presidio culturale la polizia intervenne il 13 marzo, scatenando più di 200 agenti contro una trentina di persone che occupavano in quel momento la piazza.
Tra le numerose persone che accorsero immediatamente in difesa della Sala Alberdi, la gran parte aveva meno di 20 anni, e la repressione poliziesca colpì duramente il presidio, si contarono sessanta feriti colpiti da pallottole non solo di gomma, ma anche tre proiettili di piombo che colpirono un manifestante e due attivisti della Rete Nazionale dei Media Alternativi, che documentavano le cariche e la condotta violenta delle forze di polizia.
“Ci fu una chiara intenzione di reprimere, di sparare per uccidere” testimonia Esteban Ruffa, fotografo di AnRed che il proiettile di quella notte ce l’avrà per sempre nella gamba, “l’ordine era che non restasse nessuna documentazione dello sgombero. Per questo nemmeno mi ero avvicinato al San Martíne fui inseguito per diversi isolati dai poliziotti che poi spararono”. Germán Darío de los Santos, del collettivo DTL!, noto come El Polaco, ricevette il proiettile subito dopo, sempre alle spalle: “avrei potuto essere un altro caso di omicidio da parte della polizia, sarebbe potuto toccare a chiunque di voi” racconta durante la conferenza stampa di presentazione dell’udienza.
“Si tratta di un processo storico”, afferma l’avvocato dell’accusa Maria del Carmen Verdú, del Coordinamento contro la Repressione Poliziesca e Istituzionale (CORREPI),infatti “è la prima volta che la polizia va al banco degli imputati per una repressione, e potrebbe essere una buona occasione per non lasciar passare tutti gli atti di impunità quotidiani della polizia in Argentina.” Tuttavia, dopo numerose proroghe e dilazioni, il processo si è concluso lo scorso 6 giugno con l’assoluzione di due dei poliziotti imputati, Maximiliano Nelson Acosta y Miguel Antonio Ledesma, e una condanna a tre anni con la condizionale a Gabriel Pereira de La Rosa, per abuso d’armi e lesioni, quando l’accusa chiedeva da 15 a 20 anni per tentato omicidio, aggravato dal ruolo istituzionale. Ciò che resta storico è il mese di udienze in cui la comunicazione popolare è riuscita a trascinare a giudizio tre ufficiali della polizia bonarense, con la solidarietà di numerose organizzazioni sociali e politiche, artisti e intellettuali argentini, e un’intensa campagna di controinformazione che ha messo a nudo, ancora una volta, la quotidianità degli abusi e l’esercizio della violenza repressiva degli apparati statali.
Militarizzare la città
A Buenos Aires negli ultimi mesi la polizia ha messo in atto una grande operazione di maquillage in vista dell’unificazione della Polizia Metropolitana con la Federale cosytituendo un nuovo corpo che a inizio anno ha preso il nome di Polizia della Città. La campagna pubblicitaria che invita a unirsi alle forze di “sicurezza” ha invaso le strade di Buenos Aires e i video promozionali su YouTube mostrano degli “”eroi in divisa”. Di fatto, 54 commissariati della polizia Federale sono passati sotto la giurisdizione cittadina, aggiungendo circa 20.000 operativi ai 6.300 che componevano la Metropolitana. In totale, oggi a Buenos Aires circolano 30 mila agenti: se si calcola che la capitale è composta da 12.255 isolati, significa che ci sono 2,5 poliziotti per ogni isolato. La capitale viene militarizzata in un contesto nazionale di recessione economica, con un’inflazione che nel 2016 ha superato il 40%, e una svalutazione della moneta che proprio nelle scorse settimane ha ricevuto un nuovo duro colpo, dopo la decisione di Morgan Stanley di mantenerla tra le economie “di frontiera”.
Repressione per gestire la crisi
L’effetto evidentedi questo scenario è la perdita del potere d’acquisto della popolazione, che insieme al blocco degli adeguamenti salariali e all’incremento generalizzato del costo della vita ha innalzato i livelli di povertà nell’ultimo anno e mezzo da 29 a 32,9%, aggiungendo un milione e mezzo di nuovi poveri al totale – ora di 13 milioni di persone in un Paese che ne conta poco più di 43 – e allargando la fascia dell’indigenza a 600 mila persone in più.
Nel primo anno del governo Macri si sono registrati quasi 250 mila licenziamenti, con il conseguente aumento della disoccupazione, mentre il prezzo dei servizi di base come luce, gas, trasporti è aumentato fino al 700% con il cosiddetto “tarifazo”, mentre centinaia di migliaia di persone scendevano in piazza per opporsi a queste misure e poi per aprire una trattativa sui salari.
Già nel 2013, quando Macri era sindaco, il Centro di Studi Legali e Sociali (CELS) aveva denunciato la repressione sistematica come scelta politica di gestione da parte della polizia, accanto ai noti fenomeni di corruzione, clientelismo, abuso di potere e violenza – fino all’omicidio – durante fermi, arresti, sgomberi, soprattutto nei quartieri più poveri. Oggi, al crescere delle diseguaglianze si moltiplicano mobilitazioni e proteste e l’apparato repressivo mostra i muscoli: “La violenza la esercita lo Stato tra giri di vite e aumento dei prezzi. Quando risponde, lo Stato lo fa con violenza” conclude Maria del Carmen Verdú .
Que pasa que pasò la policia matò
Nell’ultimo anno in Argentina sono morte 259 persone per violenza istituzionale secondo il rapporto annuale di CORREPI, cioè per “l’applicazione di una politica repressiva statale e l’utilizzo di risorse dell’apparato statale il cui risultato è la morte della vittima”. Facendo una media, si può dire che si è registrato quasi un morto al giorno per mano dei corpi di polizia statali, con una percentuale in crescita rispetto agli anni passati e che rappresenta un triste record per il Paese.
“Se si guardano i 12 anni del kirchnerismo, dove pure c’è stata una crescita importante, si registra un incremento più forte a partire dal 2008, che raggiunge la media di una morte ogni 28 ore” alla fine dell’ultimo mandato di Cristina Fernández de Kirchner, mentre durante il governo di Mauricio Macri, alla presidenza dal dicembre 2015, la percentuale è salita a un morto ogni 25 ore. Questo significa che “al kirchnerismo è servito un certo numero di anni per dispiegare il suo apparato repressivo” spiega María del Carmen Verdú, mentre adesso “in soli 10 mesi e mezzo, è un salto qualitativamente importante”.
Chi sono le Vittime del “grilletto facile”?
Nel rilevamento condotto da CORREPI sono segnalate le morti durante proteste e manifestazioni, ma impressionano anche le cifre dei decessi in carcere, così come i casi di sparizioni forzate, spesso legate alla tratta per prostituzione, e cominciano a essere denunciati con maggiore frequenza i femminicidi: dei 481 registrati nell’ultimo anno, 291 sono legati alle forze di polizia. In cima alla lista, però, ci sono i casi di “gatillo fácil”, che corrispondono al 47% delle morti per violenza istituzionale. Gatillo fácil si traduce letteralmente “grilletto facile” ed indica i casi in cui le forze repressive statali aprono il fuoco contro un cittadino; se si aggiunge che la maggioranza delle vittime ha meno di 25 anni, risulta chiaro che i più colpiti sono i giovani dei quartieri poveri, oggetto di ricorrenti campagne mediatiche sulla sicurezza che criminalizzano le loro condizioni di indigenza, etichettandoli come ladri e legittimando la facilità con cui la polizia mette mano alla pistola e spara. Un altro dato agghiacciante rivela che in quasi tutti i casi di morte nei commissariati riguardano soggetti in stato di detenzione arbitraria avvenute con il pretesto del controllo di precedenti penali o multe.
Come è successo a Luciano Arruga 8 anni fa, sequestrato e torturatoa morte dalla polizia di Lomas del Mirador, un quartiere nella Gran Buenos Aires; come è accaduto nel 1991 a Walter Bulacio,caso famoso per essere stato portato davanti alla Corte Interamericana per i Diritti Umani, e come continua ad accadere a tanti altri ragazzi che non ottengono giustizia, minacciati dalla polizia, costretti a rubare dagli agenti, o semplicemente uccisi in strada, nei loro quartieri sempre più militarizzati.
Reti di solidarietà e lotta
Le denunce riescono a emergere solo in casi particolari in cui la reazione popolare esplode per disperazione, rabbia, indignazione. Negli ultimi anni però, con sempre più forza, stanno crescendo le reti di solidarietà e lotta. A Córdoba, dove la polizia è rinomata per essere la più violenta del paese, si organizza da ormai 10 anni la “Marcha de la Gorra” con la parola d’ordine “la mia faccia, i miei vestiti e il mio quartiere non sono un crimine” per rivendicare il diritto alla vita di tutti i ragazzi – visiera tirata sugli occhi e aria spavalda – che vivono al limite tra legalità e illegalità a causa di povertà ed emarginazione. Sempre a Córdoba, nel 2014 si è costituito il Coordinamento delle Madri di Vittime di Gatillo Fácil, collettivi omologhi sono presenti in diverse province, e a Buenos Aires attorno al caso di Luciano Arruga è sorto un coordinamento di familiari e amici che negli anni ha saputo ampliarsi e articolarsi, che continua a chiedere giustizia e ogni gennaio riunisce nelle strade della provincia famiglie, collettivi e organizzazioni sociali da tutto il paese. La rete CORREPI da molti anni accompagna le cause per ottenere giustizia, e sono proprio i familiari delle vittime, così come le reti di solidarietà attorno a loro, la prima fonte d’informazione.
“Perché ci sia repressione ci sono due elementi chiave. Uno è l’invisibilità e l’altro la naturalizzazione” afferma Ismael Jalil di CORREPI, durante la presentazione del rapporto per il 2016, e conclude: “l’esistenza dei media alternativi permette dare la battaglia contro questi due elementi. È enorme l’importanza dell’attività della Rete Nazionale dei Media Alternativi, senza quello il nostro lavoro probabilmente non avrebbe avuto l’effetto che comincia ad avere”.
Nei prossimi giorni pubblicheremo la seconda parte dell’inchiesta che verte sul ruolo dell’informazione comunitaria e indipendente nel denunciare e rendere visibili le violenze poliziesche.