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Mathieu MD Creative Commons

EUROPA

Potenza e limiti di Mélenchon e della France Insoumise

Jean-Luc Mélenchon è indiscusso quanto controverso protagonista delle esperienze di sinistra francesi e organizzatore di singolari formule di formazioni politiche e coalizioni, fino a France Insoumise e all’invenzione fulminea del Nouveau Front Populaire, in risposta alla sventurata decisione macroniana di sciogliere la Camera aprendo la porta all’offensiva di Le Pen

Gennaio 2012. Su France2, il principale canale della TV pubblica, il leader del Front de Gauche, la coalizione dei partitini della sinistra “radicale” francese, affronta un parterre di giornalisti intenti ad analizzare la fase politica, tra la fine del mandato di Sarkozy e l’inizio della campagna per le presidenziali di aprile, dalle quali uscirà vincitore il socialista François Hollande.

Senza capelli bianchi e con qualche chilo di meno,è un Jean-Luc Mélenchon fisicamente differente da quello di oggi, ma la verve, il linguaggio forbito e un po’ teatrale, il piglio da tribuno sono invece sempre quelli. Il tema della serata è la crescita verticale dei consensi elettorali di Marine Le Pen, da poco assurta al comando del Front National (che nel 2018 diventerà Rassemblement National). «Come in tutte le sequenze rivoluzionarie nel nostro paese, anche questa, alla fine, terminerà in un sfida tra loro e noi», dice Mélenchon, davanti ai giornalisti, increduli e un po’ divertiti. «Tutti gli altri saranno scomparsi, nascosti sotto il tavolo».

Ma come, chiede un giornalista importante e rispettato, lei pensa veramente che alla fine si giocherà tra l’estrema sinistra e l’estrema destra? E gli altri, chiede, la sinistra e la destra ragionevoli, che fine faranno? «Voleranno in pezzi», asserisce Mélenchon. Noncurante degli sguardi d’intesa che si scambiano gli editorialisti, come fossero davanti a un questuante un po’ pazzo, Mélenchon prosegue il suo ragionamento.

Questa fase di austerità, dice, è destinata a «sfociare in un disastro. Se noi, la sinistra, non vinciamo, ci sarà un enorme tumulto. A quel punto, da che lato andrà questo paese?» Sceglierà la sinistra e una politica di redistribuzione sociale, o virerà all’estrema destra e al razzismo? Di fronte a una tale tempesta in avvicinamento, dice, «bisogna innanzitutto essere abbastanza forti da pesare nella battaglia» che verrà.

«Noi o loro». Quale che sia il risultato dello scrutinio

Giugno 2024. La Francia si appresta ad andare al voto per eleggere la Camera dei deputati, dopo che il Presidente della Repubblica Emmanuel Macron ne ha decretato a sorpresa lo scioglimento. È senza alcun dubbio l’elezione legislativa più importante da molti decenni. Il «blocco» macronista, che aveva raccolto la sinistra e la destra ragionevoli, è letteralmente «volato in pezzi», dopo un decennio di politiche di austerità.

La ripartizione in tre «blocchi» che aveva contraddistinto il paese dalle elezioni del 2022 è ormai un gioco a due: la coalizione della gauche del Nuovo Fronte Popolare, nel quale La France Insoumise di Mélenchon fa la parte del leone, da un lato e, dall’altro, l’estrema destra di Marine Le Pen. «Noi o loro». Quale che sia il risultato dello scrutinio, il «noi», per una volta, è abbastanza forte da «pesare», avendo LFI raccolto il 22% alle ultime elezioni presidenziali.

Tale risultato elettorale è l’ennesimo significante dell’originalità di LFI in quanto oggetto politico. È l’unica formazione a sinistra della social-democrazia tradizionale, in Europa, a essere riuscita a imporre un’egemonia sulla sinistra del proprio paese, costruita non attraverso la compromissione col capitale, ma attorno a un orizzonte di emancipazione imperniato sulla redistribuzione sociale, risolutamente antirazzista, che ha al suo cuore l’ecologia politica e la solidarietà sociale.

LFI è un oggetto non identificato, un organismo contraddittorio e per questo complicato tanto da comprendere quanto da spiegare. È un partito, ma senza correnti né tessere né congressi. È a tratti orizzontale e innovativo, ma caratterizzato da un fondamentale verticismo e personalismo del suo leader, come nelle più datate organizzazioni politiche. È il risultato di un contesto politico-elettorale specificamente francese, legato alle istituzioni quasi-monarchiche e ultra-personalistiche della 5a Repubblica gollista e, tuttavia, ha tratto ispirazione dalle lotte e dai destini della sinistra radicale del sud d’Europa e del Sudamerica.

È una macchina elettorale, ma che carbura sulle lotte dei movimenti sociali coi quali ha costruito un rapporto simbiotico. È un partito del tutto personale, ma che ha saputo coltivare almeno due generazioni di dirigenti di grande qualità.

È una realtà, infine, che tramite un’intelligenza non comune nella costruzione dei rapporti di forza, ha saputo imporre la propria egemonia sul resto della sinistra, noncurante degli attacchi senza sosta da parte del sistema mediatico (e a volte giudiziario), senza cedere di un millimetro sulla propria linea politica. Questo strano organismo nasce in quel periodo che va dal 2012 a oggi, contraddistinto da due presidenze: quella del socialista François Hollande (2012-2017) e quella di Emmanuel Macron.

La nascita di France Insoumise

2017, cinque anni dopo la frase pronunciata sul set di France2 da Mélenchon. Alla fine della presidenza Hollande, la Francia è completamente un altro paese.

Dopo aver approvato una serie di riforme neoliberali che hanno provocato la rottura con i sindacati, scatenando movimenti come Nuit Debout e come quello contro la Loi travail, François Hollande è talmente detestato che non si presenta per un secondo mandato. Gli attentati jihadisti alla sede di Charlie Hebdo (gennaio 2015), al Bataclan (13 novembre 2015) e sul lungomare di Nizza (14 luglio 2016) hanno fatto centinaia di morti e traumatizzato un’intera nazione, provocando un’ondata d’islamofobia senza precedenti tanto nel paese quanto, soprattutto, nei media.

Una marea maleodorante che fa le fortune di Marine Le Pen, surfata con grande trasporto e altrettanta miopia dai socialisti, i quali si fanno portatori di riforme pescate dalla retorica lepenista come il ritiro della nazionalità ai condannati per terorrismo (poi annullato dalla Corte costituzionale), o la riforma della legittima difesa per i poliziotti (che provocherà un aumento vertiginoso del numero di morti ammazzati dalla polizia negli anni successivi, in gran parte nei quartieri popolari, soprattutto tra le popolazioni razzializzate).

La putrescenza morale dei socialisti fa il paio con la decomposizione politica del partito. I più importanti baroni del PS decidono di abbandonare la nave, salendo assieme ad altri notabili del centro-destra sull’imbarcazione del giovane ex-ministro dell’economia di Hollande, un certo Emmanuel Macron, che ha appena deciso di lanciarsi alla corsa per l’Eliseo. Il battello dei ragionevoli è salpato.

In quel periodo, Mélenchon va in TV e annuncia la propria candidatura alla presidenza della Repubblica. Qualche settimana dopo, nasce La France Insoumise, «un movimento che non è né verticale né orizzontale, ma gassoso», come lo descrive Jean-Luc Mélenchon. Un movimento senza correnti né tessere, che sin dall’inizio possiede una formidabile capacità comunicativa, di gran lunga il primo e migliore partito francese a utilizzare gli strumenti offerti dal web e dai social per ovviare alla mancanza di esposizione mediatica.

La candidatura di Mélenchon e la creazione di LFI coglie di sorpresa gli alleati di quello che era il Front de Gauche, l’alleanza dei partiti della sinistra radicale, destinata a scomparire nel giro di qualche settimana. Dalla posizione di partner di una coalizione, gli alleati sono ora divenuti parte di un «movimento» dai contorni fluidi, centrato attorno alla figura di Mélenchon, passato da mediatore di un cartello di partiti a centro di gravità di una struttura quasi-personale.

Sin dall’inizio, LFI è una macchina elettorale estremamente efficiente, guidata da un gruppo dirigente dall’età mediamente molto giovane, il cui combustibile è l’energia irradiata dai movimenti degli anni precedenti, la volontà di rottura con il there is no alternative che ha guidato le politiche dei governi francesi da Sarkozy in poi.

Un populismo di sinistra

Negli anni 2000 e 2010, che conducono alla creazione di LFI, Jean-Luc Mélenchon opera una svolta politica e intellettuale all’insegna del «populismo di sinistra», tale quale tracciato teoricamente da autori come Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. Questo movimento «eretico» spiega molte cose del Mélenchon di oggi, dalla volontà di costruzione di un «popolo» al di là delle categorie pre-costituite del marxismo classico, alla necessaria incarnazione di un leader carismatico, sino all’importanza di parole d’ordine eterodosse, a effetto, capaci di parlare a più settori sociali in una volta sola.

È in questo quadro che prendono forma gli slogan programmatici della campagna del 2017 come “Piano A/Piano B”, volti a illustrare per esempio la strategia insoumise rispetto alle istituzioni europee (o si riformano i trattati e gli si disubbidisce, o si minaccia di lasciare lo spazio comunitario, un’idea formulata sin dal 2015 e messa al centro del programma del 2017).

Ed è sempre in questo contesto che va compreso il rifiuto di LFI di presentarsi come una forza di “vera sinistra” o di “sinistra radicale”, in opposizione per esempio ai socialisti. Per gli insoumis, si tratta di etichette «inutili se non controproducenti». Pur senza negare la filiazione della propria famiglia politica, LFI «rifiuta che tale storia diventi una barriera per coloro che non la conoscono, o che ne ricordano unicamente i tradimenti operati dalla socialdemocrazia europea»

Ispirandosi ai movimenti sociali sudamericani che portano al potere figure come Hugo Chávez, Rafael Correa, Evo Morales e Lula, è in questo quadro che Mélenchon conia il termine di «révolution citoyenne», facendone la pietra angolare della strategia degli insoumis, inaugurando una lunga serie di rimandi al doppio mito della Révolution-République, viste attraverso i loro connotati più «sociali», i loro momenti più giacobini e propriamente rivoluzionari. Il «popolo» che gli insoumis vogliono forgiare deve riconoscersi più nel 1793, anziché nel 1789.

La “rivoluzione cittadina” non è «solamente un programma di governo», scrive il leader di LFI nel 2014, ma «è l’azione del popolo che procede al recupero totale della propria sovranità in tutti i settori della vita in società» (corsivo mio). In questa «rivoluzione», «l’interesse generale primeggia in tutti i settori. L’implicazione popolare è la parola chiave. Il movimento sociale ne è il motore». Il motto, è «occuparsi di tutto, ovunque, in ogni momento».

Nel 2016, Mélenchon scrive che sarà «il popolo» a portare avanti tale movimento rivoluzionario. Il popolo «e non una classe particolare che dirige il resto della popolazione. Il popolo, cioè le masse umane urbanizzate che costituiscono l’essenziale della popolazione contemporanea. Il popolo, cioè quella moltitudine quando diviene cittadina, quando gli individui che la compongono prendono il potere sulle proprie condizioni di vita. E quando eleggono un’assemblea costituente per instaurare le nuove regole della vita comune. Il popolo che scaccia dal trono la piccola oligarchia dei ricchi, la casta dorata dei politici che serve i propri interessi».

Il «popolo» quindi, e non più la «classe» è il soggetto che la sinistra deve ambire a rappresentare, o meglio a costruire: Mélenchon ha fatto suoi gli insegnamenti e le spinte dei movimenti post-Occupy, all’insegna del 99%.

Il «popolo» che deve ambire alla costruzione di un momento costituente per riprendersi e rifare le istituzioni e che in questo stesso movimento non potrà che mettere al centro dell’agenda politica e mediatica i propri interessi di redistribuzione sociale e fiscale, abolendo i faraonici privilegi elargiti da vent’anni di neoliberismo (l’abolizione dei privilegi è un altro refrain della comunicazione insoumise, un ulteriore rimando a una delle parole chiave della Révolution).

In questo senso, LFI è in una tensione particolare con, per esempio, il pensiero gramsciano, che tanto ha strutturato la sinistra italiana. Il Partito non è affatto il «Principe», non ambisce a organizzare la classe per, in subordine, organizzare il Paese. I rivoluzionari non sono chiamati a un lavoro di conquista culturale e di organizzazione al fine di elevare la struttura interna alla classe e, così facendo, modificare in profondità i rapporti di forza generali.

Allo stesso tempo, riprendendo Gramsci, gli Insoumis ambiscono a sfruttare le istituzioni esistenti per costruire, sì, un’egemonia, ma non propriamente di classe, quanto piuttosto per creare le condizioni affinché un «popolo» possa emergere e assumere il comando di queste stesse istituzioni, trasformandole radicalmente in un processo costituente.

Al contrario di movimenti come Podemos (o persino dei Cinque Stelle), la France Insoumise non presta grande attenzione al problema dell’organizzazione interna, della democrazia delle strutture, dei modi in cui strutturare la politica per un mondo nuovo senza scadere nelle impasse di quello vecchio. In questo vi è senza dubbio l’influenza del contesto politico-elettorale francese, delimitato dalle ferree regole iper-personalistiche della 5a Repubblica, ma vi è anche una tradizione politica propria alla Francia, che va dal trotzkismo al mitterrandismo e che, tra alti e bassi, ha strutturato la politica rivoluzionaria dagli anni ’60 in poi.

A completare il quadro degli “appigli” storici e teorici che determinano la nascita di LFI, vengono infine – last but not least – l’ecologia politica e il crollo tanto del modello socialdemocratico che di quello del socialismo reale. A più riprese, negli anni attorno al 2017, Mélenchon accomuna questi aspetti in una stessa analisi che ricorda gli scritti di pensatori come Murray Bookchin o Andreas Malm. L’ecologia politica «mi ha fatto uscire dal quadro teorico nel quale stavo morendo senza accorgermene», ha detto il fondatore di LFI, poiché «rimette al centro i fondamentali». C’è «un solo ecosistema compatibile con la vita della nostra specie, ed è minacciato. La tesi socialdemocratica è quindi morta definitivamente, giacché presuppone una correzione progressiva delle diseguaglianze tramite una ripartizione diseguale dei prodotti della crescita economica – cioè, presuppone uno sviluppo infinito, ma le risorse sono finite». Lo stesso dicasi per il «comunismo di Stato che funziona su di un’illusione produttivistica».

Secondo il Mélenchon del 2017, l’ecologia politica insegna che bisogna «riformulare un corpus teorico coerente: identificare l’attore della Storia, i suoi metodi d’azione, il programma capace di federarlo, la posizione particolare della democrazia e del conflitto per rovesciare il vecchio mondo e far vivere quello nuovo».

Una macchina elettorale “gassosa”

LFI è innanzitutto una macchina elettorale pensata e costruita per vincere le elezioni presidenziali, cosa che, a cascata, garantisce eletti in parlamento, mezzi, esposizione mediatica, prestigio – tutte cose essenziali per qualunque formazione politica che ambisce a costruire, pezzo dopo pezzo, un’egemonia e a «pesare nella battaglia» elettorale nel contesto francese.

Il “popolo” è chiamato a partecipare a queste elezioni non solo votando, ma anche e soprattutto mobilitandosi, nell’universo virtuale e in quello reale, utilizzando LFI come una piattaforma attraverso la quale è possibile fare fronte comune su una serie di obiettivi. Una piattaforma non solo metaforica: il partito, negli anni, ha costruito una vera e propria struttura digitale per mobilitare e organizzare alla base le azioni, sfruttando in maniera intelligente e orizzontale le innovazioni digitali degli ultimi vent’anni.

Una struttura siffatta, flessibile ma compatta, “gassosa” ma con catene di comunicazione estremamente chiare, verticali e ben rodate, offre dei vantaggi considerevoli rispetto ai partiti tradizionali. Innanzitutto, è molto facile da integrare alla base: non ci sono tessere, ci si può investire durante una campagna elettorale senza farne parte, o partecipare a delle assemblee locali a un dato momento, quando sale l’onda della mobilitazione, e poi smettere quando scende la marea. Inoltre, è caratterizzata da un’agilità inedita, capace di assumere una linea politica informata e coerente con grande celerità, cosa che costituisce un vantaggio tattico fenomenale rispetto a partiti come il PS, impantanato in un conservatorismo imposto dalle mille correnti e dalle altrettanto numerose baronie locali.

Come ha detto Stefano Palombarini alla rivista “Contretemps“, la struttura della France Insoumise assomiglia «a una specie di vascello pirata. È capace di analizzare in maniera estremamente rapida una situazione e scegliere altrettanto rapidamente la buona traiettoria». Il “vascello pirata” si è rivelato straordinariamente efficace, raccogliendo 7 milioni di voti (il 19%) nel 2017 e quasi 8 (22%) nel 2022, sfiorando entrambe le volte il passaggio al secondo turno, piazzandosi nettamente in testa tra le compagini della sinistra francese.

Il ruolo del leader

Leggendo queste righe si potrebbe avere l’impressione che la creatura mélenchoniana sia un esempio di coerenza teorico-pratica, che dal «populismo di sinistra» di Laclau e Mouffe vi sia una linea diretta che conduce al successo elettorale di LFI. Ovviamente non è così, anzi, è l’opposto: è in base alle contingenze elettorali e politiche del momento, che LFI assume la sua forma attuale, che stabilisce un legame coi movimenti sociali, che alcune figure e alcuni pensieri si fanno strada a scapito di altri, che evolve, insomma, la strategia di Jean-Luc Mélenchon.

È una specie di dilemma dell’uovo e della gallina applicato alla politica. È venuta prima la volontà di riformare il presidenzialismo bonapartista della 5a Repubblica, rivendicazione storica della sinistra francese, o l’idea di un’assemblea costituente che rifaccia le istituzioni del paese? È venuta prima la crisi di consenso del neoliberismo, o l’idea di organizzare un “popolo” in vista di uno scontro con la “oligarchia”?

Sono cose in realtà inestricabili, l’una essendo il prodotto dell’altra. Nell’azione politica di LFI e di Mélenchon, la strategia e la teoria, la competizione elettorale e l’analisi politica, la polemica mediatica e l’organizzazione di massa sono due facce della stessa medaglia. Forse è anche per questo che in LFI non c’è una reale democrazia interna: siccome la priorità è l’azione, in particolare elettorale, è il leader a mediare tra le istanze sollevate dai vari movimenti interni, dalla leadership del partito, dai movimenti sociali che orbitano attorno a LFI, in un continuo incedere pratico e teorico, incessantemente mutevole. 

Anche per questo LFI non ha bisogno di momenti di “sintesi” come dei congressi tradizionali, nei quali linee e gruppi dirigenti competono per la leadership dell’organizzazione. All’interno di LFI, agisce un doppio principio, contraddittorio ma efficace: da un lato, quello del consenso e dell’unità nell’azione; dall’altro, i conflitti, qualora rimasti sospesi, vengono in ultima analisi risolti da Jean-Luc Mélenchon, che mantiene la parola finale sulle problematiche interne.

Una tale dinamica verticista, da “vascello pirata”, garantisce processi decisionali che permettono di assumere linee politiche radicali e intelligenti, in fase con la radicalità e la rapidità propria ai  movimenti sociali, portandone le istanze nel mainstream della comunicazione politica. Ma a condizione che la dirigenza presti una grande attenzione alle critiche e ai contributi degli stessi movimenti. Cioè, che i “leader” ascoltino il “popolo”.

Quando questa dinamica s’inceppa, quando si rompe la comunicazione tra i movimenti sociali e la dirigenza insoumise, LFI mostra tutta la debolezza di un’organizzazione senza strutture né pratiche consolidate. Uno dei casi più significativi, a mio avviso, è quello di Adrien Quatennens, un parlamentare di 35 anni insoumis di Lille, considerato uno degli astri nascenti del partito e possibile delfino di Mélenchon fino al 2022, quando è stato condannato a quattro mesi di prigione (con la condizionale) per delle violenze compiute sull’ex-moglie.

A fronte dello scandalo mediatico che ha fatto seguito alla vicenda, Quatennens ha risposto cercando di minimizzare l’accaduto, riducendolo a un «contesto di aggressività reciproca» gridando al «linciaggio mediatico». Jean-Luc Mélenchon ha tenuto a testimoniargli la propria «fiducia e [il proprio] affetto», derubricando dei gravi fatti di violenza di genere a un «divorzio conflittuale», nel quale si sarebbero «invitati» il «voyeurismo mediatico, i social network».

La vicenda è stata un duro colpo per LFI che, da ben prima di MeToo, aveva intavolato un dialogo coi movimenti femministi, producendo un programma elettorale politicamente avanzato sulle violenze di genere durante le presidenziali del 2022. Alla fine, LFI – sotto pressione dai media, dagli alleati dell’allora Nupes e dal proprio gruppo parlamentare – ha escluso Quatennens per quattro mesi. Al termine, tuttavia, il deputato di Lille è stato reintegrato, malgrado il parere contrario di un terzo dei membri del gruppo parlamentare insoumis.

Non curato a dovere, il «bubbone» Quatennens non ha fatto altro che ingrandirsi, mettendo in crisi LFI persino in quest’ultima congiuntura quando si è trattato di organizzare il Nuovo Fronte Popolare. Il partito, infatti, ha annunciato la ricandidatura del giovane deputato alle prossime legislative, provocando una giustificata ondata di critiche dei movimenti femministi. Qualche giorno dopo, in seguito alla pressione dei movimenti, Quatennens ha annunciato di ritirare la propria candidatura.

Ma se il verticismo della dirigenza, cioè nella parte “alta” del movimento, che caratterizza LFI può condurre a delle impasse come in questo caso, è anche ciò che ha permesso agli insoumis di compiere dei progressi nell’assumere posizioni «di movimento“ impensabili in altri contesti.

Contro il razzismo strutturale

Agosto 2019. Macron è al governo da due anni. Il suo programma neoliberista sta cominciando a distruggere le strutture sociali francesi, come ha illustrato il movimento dei Gilet gialli appena trascorso. Alla kermesse estiva di LFI, il filosofo Henri Peña-Ruiz sta parlando a una conferenza intitolata: “Le tre bussole della laicità”. A un certo punto, dice: «Cos’è il razzismo? È mettere in questione le persone per quello che sono, ma non è la messa in questione della religione. Abbiamo il diritto, diceva il compianto Charb [il direttore di Charlie Hebdo, ucciso nell’attentato del 2015, ndr] di essere ateofobi come abbiamo il diritto di essere islamofobi».

Nei corridoi dell’evento, un gruppo di militanti antirazzisti e dei quartieri popolari che dalle elezioni del 2017 hanno cominciato a frequentare il partito, comincia a discutere, a prendersela con il «filosofo», a dirgli che essere islamofobi non è un diritto, che non ha proprio niente a che fare con la laicità, ma che è una forma di discriminazione, un’oppressione che colpisce i milioni di abitanti figli del colonialismo che popolano i quartieri delle città francesi. Il tono comincia a salire. Vola qualche spintone. Mélenchon si affaccia sul capannello la cui temperatura non cessa di crescere. Secondo i militanti antirazzisti presenti, è in quel momento che il leader di LFI capisce che qualcosa sta cambiando, che è necessario un rapido aggiustamento della linea politica.

Negli anni 2010, alla linea di frattura sul neoliberismo, si è imposta in Francia una seconda faglia di divisione: la questione del razzismo strutturale. Sostanzialmente, sul problema si affrontano due posizioni. Da un lato una posizione “laicista”: il razzismo strutturale non esiste, la Francia è un paese laico che non fa distinzioni di razza, etnia o religione e dire il contrario equivale a fomentare il “comunitarismo”, il “ripiegamento identitario”, a discapito dell’unico conflitto che conti: quello di classe; per di più, ci si aliena l’elettorato che vota attualmente per Le Pen. È questa una posizione che difende un’idea reazionaria ed esclusiva della “laicità”, intesa non come strumento di emancipazione e di garanzia della pluralità, ma come un mezzo per mantenere delle minoranze razzializzate in stato di inferiorità, bandendole dallo spazio pubblico e politico.

In conflitto con tutto ciò è emersa nell’ultimo decennio una linea politica antirazzista e de-coloniale, portata avanti da militanti politicizzatisi nelle lotte dei quartieri popolari e contro le violenze della polizia, figli dei movimenti autonomi dei quartieri degli anni ’80, a loro volta riconducibili ai movimenti extra-parlamentari dei lavoratori immigrati degli anni ’70.

Per questi militanti, il razzismo strutturale non solo esiste, ma è una questione – letteralmente – di vita o di morte che, molto spesso, si gioca sulla loro pelle. Una questione inseparabile dal tema delle violenze della polizia e dalle riforme neoliberali di Macron, i cui effetti sono decuplicati nei quartieri popolari francesi.

Il conflitto tra queste due posizioni ha attraversato l’intero corpo sociale della sinistra francese, dai partiti della sinistra ai media indipendenti, dai vertici alle basi sindacali. È un conflitto tuttora irrisolto, con la posizione “laicista” ancora prevalente nel PS e nel PCF e presente, seppur in minoranza, anche tra i Verdi. Per molto tempo, anche in LFI questa posizione è stata egemonica – talmente, che un «filosofo» poteva tranquillamente intervenire a uno degli eventi più importanti del partito predicando la libertà di essere islamofobi. 

Da allora molte cose sono cambiate, almeno tra gli insoumis. LFI ha operato una rottura netta con questo “laicismo”, tramite la partecipazione nel novembre 2019 alla manifestazione contro l’islamofobia (una parola che lo stesso Mélenchon rifiutava di utilizzare ancora nel 2017, giudicandola troppo polemica), malgrado le critiche interne ed esterne; o ancora appoggiando la lotta del Comité Adama, che ha rimesso al centro dell’agenda politica e mediatica la violenza della polizia nei quartieri popolari.

In tutte queste lotte – contro le violenze della polizia, contro il razzismo e l’islamofobia LFI è stata spesso lasciata da sola davanti alle bordate dell’establishment mediatico e politico, accusata di volta in volta di «complicità con l’islamismo», di sponsorizzare i Fratelli Musulmani in Francia, di voler distruggere la laicità… Accuse il cui tenore raffigura efficacemente la palude razzista nella quale si è impantanata la Francia, dopo l’elezione di Macron.

L’isolamento di LFI su questi temi è apparso in modo ancora più evidente durante il 2023. Dopo l’omicidio di Nahel a giugno di quell’anno, i quartieri popolari delle grandi e piccole città francesi sono bruciati per una settimana intera, messi a fuoco da una popolazione razzializzata e vessata dalla polizia, fermatasi solo davanti ai blindati che Macron ha inviato nelle banlieues come risposta alla rivolta.

Di fronte agli appelli lanciati dall’Eliseo al «ritorno all’ordine repubblicano» e a una mortifera «calma», LFI è stata l’unica formazione politica a rifiutare di unirsi al coro della repressione, malgrado il fuoco incrociato dei media e degli altri partiti della sinistra francesi, unanimi nell’aderire alla retorica “repubblicana” per la quale prima vengono la calma e i blindati della Gendarmerie e, poi, forse, un giorno, chissà, la giustizia.

«Ci ordinano di chiamare alla calma», scrisse all’epoca Jean-Luc Mélenchon in un tweet lapidario, «noi chiamiamo invece alla giustizia». Per LFI, le rivolte delle banlieues erano un fatto politico, l’espressione di un movimento di rivendicazione contro la violenza e il razzismo della polizia, non una semplice questione di ordine pubblico.

Ma per gli altri partiti, anche “di sinistra”, tali sommovimenti sociali non erano capitalizzabili in termini elettorali, quindi erano per definizione apolitici, e in quanto tali andavano trattati.

Questa divergenza fondamentale diede inizio a una guerra interna alla coalizione delle sinistre francesi che portò alla fine della Nupes, esplosa definitivamente con l’attacco del 7 ottobre e l’inizio del genocidio di Gaza. Soprattutto nelle fasi iniziali della guerra, la sinistra francese – esclusa LFI – ha appoggiato il “diritto di difendersi” di Israele, anche quando il massacro israeliano era già abbondantemente in corso. Gli insoumis, invece, sono stati l’unica formazione politica a invocare un cessate il fuoco la sera stessa del 7 ottobre, richiamandosi alla soluzione a due stati e al rispetto del diritto internazionale.

Una posizione tutto sommato ragionevole e moderata, ma che, unita al rifiuto da parte insoumis di qualificare Hamas come un “gruppo terrorista”, è valsa a LFI e soprattutto a Mélenchon un estenuante, interminabile e fazioso processo per antisemitismo che dura ancora oggi, quando Marine Le Pen è alle porte del potere, alla guida di un partito fondato da ex-Waffen SS e il cui padre, Jean-Marie Le Pen, è un notorio negazionista della Shoah.

Secondo l’establishment politico-mediatico francese, le posizioni assunte da LFI in questi casi sono dovute a una forma di elettoralismo, a una volontà di comperare a facile mercato il voto degli «arabi» e dei «musulmani». «Il voto delle banlieues è centrale nella strategia elettorale della France Insoumise», ha scritto per esempio “Le Figaro”, ironizzando sul fatto che «Jean-Luc Mélenchon è passato nel giro di qualche anno da intrattabile “laicista” a difensore del multiculturalismo e delle “minoranze” religiose o etniche».

È questo un punto di vista razzista e classista, per il quale le popolazioni dei quartieri popolari, viste come omogenee al loro interno e del tutto passive, non hanno alcuna agency né complessità: non sono nient’altro che un gregge. In quanto tali, non scelgono per convinzione o perché ragionano o perché semplicemente seguono la politica come chiunque altro, ma perché sono vittime di un raggiro da parte di populisti, nella migliore delle ipotesi; o, nella peggiore, perché sono attori più o meno inconsapevoli di un sinistro disegno “comunitario” volto a imporre la mezzaluna musulmana sul cancello della Sorbona, per riprendere l’immagine di un romanzo di Michel Houellebecq il cui successo è direttamente proporzionale alla mediocrità.

Questo genere di sguardo razzista, per il quale le “minoranze” non possono essere nominate se non tra due virgolette, è divenuto moneta corrente nella maggior parte dei media francesi. Vi sono intere schiere di giornalisti per i quali LFI intende «difendere l’islamismo costi quel che costi».

Battaglioni di opinionisti che si chiedono se «i musulmani francesi non siano gli utili idioti» della «pesca al voto musulmano» ingaggiata da LFI. Reggimenti di professori universitari che considerano che il partito di Mélenchon sia «pro-islamista», convinto com’è che sia «comprensibile, se non fondato, l’islamismo politico».

Il rapporto con i quartieri popolari

La realtà, è che questi tuttologi non hanno mai digerito il fatto che LFI sia riuscita a ricostruire una rappresentanza nei quartieri popolari delle città francesi e, in particolare, tra i giovani che vi abitano. Nelle banlieues, LFI è di gran lunga il primo partito e questo già da diversi anni. Alle ultime europee, un’elezione che in Francia ha sempre conosciuto fortissimi tassi d’astensione (a maggior ragione nei quartieri popolari e ancor più tra i giovani), LFI ha progredito di diciannove punti nella banlieue parigina rispetto allo scrutinio del 2019, secondo “Le Monde”.

Per la genia dei commentatori è questo forse il più grande crimine, il peccato capitale di Mélenchon. L’idea stessa che tali classes dangereuses possano aver voce in capitolo, che il partito elegga tra i banchi del parlamento dei candidati provenienti da quei luoghi, è semplicemente uno scandalo che non trova altre spiegazioni se non la complicità con l’islamismo.

Se i tuttologi fossero più attenti, se concepissero la politica non solo come una serie televisiva fatta di colpi di scena, serate elettorali e punchlines, ma come qualcosa che coinvolge i movimenti sociali e le masse, si accorgerebbero che i rapporti tra i movimenti antirazzisti e/o decoloniali, tra i movimenti dei quartieri popolari e LFI non sono sempre idilliaci.

Nonostante l’elezione di alcune figure specifiche, sono pochissimi i parlamentari eletti e ancora meno i membri dirigenti del partito che provengono da percorsi di lotta interni a quelle situazioni sociali. A ogni ciclo elettorale, LFI richiede un grande sforzo ai militanti dei quartieri popolari e ai movimenti sociali che vi sono impiantati, ma offre ben poco in cambio. La debole rappresentatività di tali movimenti – che resta tuttavia ben più alta tra le fila degli insoumis che tra quelle di qualunque altro partito francese – è il grande punto di tensione, attualmente, di questa relazione che, nonostante ciò, rappresenta un esempio dal quale ogni formazione della sinistra europea dovrebbe trarre ispirazione.

Su un punto i commentatori hanno ragione. La ricerca di un rapporto di fiducia e di rappresentanza coi quartieri popolari, per quanto conflittuale, è effettivamente il risultato di una strategia di LFI, non il semplice prodotto del caso (e tantomeno l’effetto di una conversione all’islamismo di Mélenchon).

Nel suo ultimo libro, pubblicato dopo le elezioni del 2022, Mélenchon ha scritto che il “popolo” che dovrà operare la révolution citoyenne è caratterizzato dal condividere «la propria condizione sociale urbana» e «la dipendenza più o meno diretta ai rapporti di produzione capitalistici». Questo «popolo» vive quasi universalmente una «condizione urbana» determinata «dalla segregazione dei quartieri poveri, dal problema dell’accesso ai réseaux», cioè alle reti sociali e alle reti dei servizi, nonché dalla «polverizzazione» del salariato «nel precariato».

Questa “moltitudine” si trova davanti «il vero padrone: l’oligarchia». Una «manciata di profittatori della segregazione urbana», della «sfera finanziaria», che «controlla il mercato immobiliare e delle infrastrutture urbane», la quale «lavora alla privatizzazione dei servizi pubblici essenziali, licenzia, espelle». La strategia che propone Mélenchon, in questo senso, è quella di fare popolo: «la popolazione diviene popolo tramite la propria azione collettiva dell’occupazione di strade e delle rotonde», scrive, in riferimento ai Gilet gialli. «In altre parole, bisogna sottomettere, riappropriarsi i servizi tramite i quali la vita urbana è resa possibile». Questa, in sintesi, è la strategia «dell’Unione Popolare», la quale, formandosi, «fa incontrare per la prima volta una linea di resistenza che copre l’intero campo di battaglia» alla «oligarchia».

Il rapporto coi quartieri assume tutto il suo senso in questo quadro teorico, che rappresenta un’evoluzione logica del «populismo di sinistra» di Laclau e Mouffe. Tuttavia, in un’ambiguità tipica di Mélenchon, è difficile dire se nasca prima l’idea di un popolo il cui carattere fondamentale sia l’esistenza urbana e la lotta per l’accesso ai réseaux, o se invece sia l’incontro tra LFI e i movimenti dei quartieri popolari ad aver prodotto tale quadro teorico. Allo stesso modo, senza il ciclo di lotte che ha investito la Francia nell’ultimo decennio, molto di quanto scritto in questo articolo non avrebbe alcun senso e LFI non sarebbe nella posizione egemonica nella quale si trova oggi.

L’Unione popolare è la risposta offerta da Mélenchon alla crisi nella quale versa il Paese dall’elezione di Macron. Arrivato al potere con la promessa di ricacciare nella fogna l’estrema destra, l’ex-enfant prodige del neoliberismo non ha fatto altro che prepararne l’ascesa. Sin dal 2017, Macron e Le Pen sono stati in una danza a due, l’uno non potendo fare a meno dell’altro. Macron ha avuto bisogno dello spauracchio Le Pen per vincere le elezioni successive e consolidare il proprio gruppo politico, a scapito della destra e della sinistra tradizionali (ragionevoli!); Le Pen ha avuto bisogno di Macron per approfittare dello scontento causato dalle sue politiche, utilizzandolo come combustibile mediatico ed elettorale per giungere al potere par la grande porte, dall’ingresso principale.

Ma in questa danza a due, Macron si è presto ritrovato in posizione subalterna. Giorno dopo giorno, decreto dopo decreto, polemica dopo polemica, il centro macronista si è ritrovato a inseguire l’estrema destra sui temi identitari per meglio nascondere il fallimento della politica economica.

A colpi di leggi sull’immigrazione, di proposte di eliminazione dello ius soli, di cacce agli islamo-gauchistes nelle università e nelle piazze, d’interdizioni di vestiti percepiti come di origine musulmana, di repressione sfrenata e mortifera contro i movimenti sociali, di citazioni pseudo-furbe di autori antisemiti come Maurras e di riabilitazioni di Pétain, di interviste concesse ai settimanali della destra più estrema, di favori ai canali all-news del gruppo Bolloré, di accuse di “immigrazionismo” proferite contro la sinistra, alla fine, Macron non ha fatto altro che trascinare il paese in una spirale razzista sempre più profonda, sempre più violenta.

Questo scivolamento razzista, effettuato a colpi di persecuzioni e moral panic diretti principalmente contro la popolazione percepita come musulmana e/o discendente dell’immigrazione post-coloniale, è un colpo potenzialmente mortale alla strategia di LFI fondata sull’Unione popolare, giacché agisce come un formidabile fattore di divisione.

I dati statistici e le inchieste dei sociologi confermano tanto lo scivolamento razzista di una parte del paese, quanto il rischio di divisione provocato da quest’ultima, così come il successo parziale della strategia insoumise. Se una certa vulgata mediatica ha spesso presentato il voto lepenista come un voto di “classe”, un modo per il “proletariato” per significare il proprio malcontento, la realtà è ben diversa. Come ha detto un sondaggista all’indomani delle elezioni del 2022, «Le Pen è in testa nella categoria popolare detta “classica”, la più integrata, spesso proprietaria del proprio domicilio e assunta a tempo indeterminato, mentre Mélenchon è avanti nella frangia più modesta del milieu popolare, che raggruppa i part-time, le piccole pensioni, o ancora i beneficiari dei sussidi minimi di Stato».

In un libro uscito di recente, il sociologo Félicien Faury ha messo in luce «il carattere razzista del voto per l’estrema destra» in Francia, dove «il voto per il Rassemblement National è sistematicamente correlato ai livelli più alti di quello che la scienza elettorale chiama le “scale etnocentriche”». Per molto tempo, scrive Faury, le scienze sociali francesi hanno preferito evacuare questa spiegazione, a favore di «altre causalità sociali», come «la globalizzazione neoliberale [e] l’abbandono dello Stato». Se è necessario prendere in conto questi fattori, ammonisce Faury, non bisogna ignorare quanto, nella Francia di oggi, «il razzismo sia una causalità sociale e politica a parte intera».

La promessa programmatica principale del lepenismo, cioè l’instaurazione della «preferenza nazionale» nell’accesso ai servizi e nella contribuzione fiscale, è «compresa e interpretata dal suo elettorato come la promessa di una preferenza propriamente razziale», scrive Faury. Tradotto: chi vota RN sa benissimo che, dietro alla promessa di prendersela con gli stranieri, in realtà giace la volontà di prendersela coi non-bianchi.

Negli ultimi due anni, e in particolare dopo lo scrutinio presidenziale del 2022, LFI ha imposto la propria egemonia al resto della sinistra francese attorno a un programma di rottura col neoliberismo. Posizioni fino a pochi anni fa considerate del tutto eretiche, in particolare sulla necessità di disobbedire ai trattati europei sull’austerità e sul pareggio di bilancio, sono divenute ormai il cuore dei programmi politici portati avanti dalle due successive coalizioni della sinistra francese, la Nupes prima e il Nuovo Fronte Popolare poi.

Queste vittorie tattiche non sono però permanenti. A ogni episodio di unità delle sinistre francesi, ha fatto da contraltare una pressione proveniente dalle frange conservatrici della gauche per scalzare l’egemonia di LFI e la posizione di Mélenchon. L’ultimo esempio è Raphaël Glucksmann, candidato del PS alle europee ed espressione dell’ala conservatrice del PS, un candidato liberale pronto a rimettere completamente in discussione il programma di rottura imposto da LFI.

La debolezza principale di LFI risiede, in fondo, nella sua stessa natura di essere rimasta una macchina per vincere le elezioni presidenziali. Dal 2017, il partito non è mai riuscito a strutturarsi solidamente sul territorio, tantomeno a far vivere l’organizzazione tra un appuntamento elettorale e un altro, avendo grandi difficoltà a mobilitare la sua base al di là del solo appuntamento delle presidenziali (dopo il 20% alle presidenziali del 2017, alle europee del 2019 LFI fece appena il 6%; dopo il 22% del 2022, alle europee appena trascorse LFI ha realizzato il 9.9%).

Questo limite sembra difficilmente superabile dagli insoumis nel breve termine. Per un movimento-partito costruito e pensato come una macchina elettorale, questo è un problema esiziale, la cui risoluzione non può che passare attraverso una nuova mutazione della natura stessa del progetto politico e organizzativo.

Alcuni tentativi messi in piedi di recente sembrano promettenti. All’indomani delle presidenziali del 2022, LFI ha sponsorizzato la creazione dell’Institut La Boétie, una sorta di centro-studi molto aperto, coinvolgendo decine e decine di intellettuali sui temi più disparati, invitati a discutere tra loro, con i quadri del partito e, soprattutto, a formare i militanti un po’ ovunque nel paese.

In una certa misura, LFI è riuscita a costruire ponti importanti coi movimenti sociali, non mancando mai gli appuntamenti decisivi, pagando lo scotto di un continuo fuoco di fila da parte dell’establishment mediatico e politico. Grazie a quest’intelligenza e sensibilità a tratti collettiva, a tratti ultra-verticistica, Mélenchon e LFI sono giunti a costituire un blocco elettorale equivalente a quello di Macron e di Le Pen, salvando la sinistra francese dalla scomparsa o dalla compromissione.

L’evoluzione della crisi nella quale versa la politica francese dal 2022 ha mostrato, però, che se un blocco così costituito è abbastanza per «pesare nella battaglia», non è sufficiente per vincere. La coalizione messa in piedi da LFI, il «popolo» ch’è riuscita a costruire finora, assemblando il sostegno dei giovani, degli ecologisti, dei quartieri popolari, di alcuni settori del lavoro precario, non è riuscito a tenere il passo con quello che è stato messo in piedi dall’estrema destra, in particolare nelle zone del paese meno urbanizzate e più lontane dai réseaux.

Di fronte alla scelta tra una coalizione di sinistra come il Nuovo Fronte Popolare e l’estrema destra, la borghesia francese ha scelto apertamente di puntare le proprie fiches su Marine Le Pen. Finora, la sinistra a trazione insoumise, anche unendo le forze tra linee politiche tra loro divergenti su alcuni punti fondamentali, non è riuscita laddove Macron ha invece operato con successo in passato, cioè nel forzare la mano agli elettori del blocco avverso per far fronte comune contro l’estrema destra.

Se gli elettori di sinistra, turandosi il naso, hanno accettato di portare Macron all’Eliseo per due volte pur di non consegnare le chiavi del potere alla famiglia Le Pen, gli elettori macronisti hanno esplicitato molto chiaramente che non renderanno il favore – giacché, quando i nodi vengono al pettine, per un insieme di classi francesi, il razzismo sarà sempre preferibile alla redistribuzione sociale, per quanto timida.

In questo giace forse la debolezza della strategia dell’Unione popolare. Stretta nei limiti del presidenzialismo francese, attaccata senza sosta dal padronato e dall’establishment mediatico, essa si trova davanti un blocco reazionario e nazionalista di fronte alla cui avanzata le classi agiate del paese hanno deciso di fare spallucce. Un blocco di destra razzista che, grazie in parte alla complicità di Macron e dei media, ha ormai un elettorato trasversale, interclasse, che gode di apprezzamento tra i padroni come tra la bassa classe media. Un consenso trasversale che LFI non potrà mai avere, che non dovrebbe neanche desiderare d’altronde, ma che costituisce una debolezza nella congiuntura attuale.

Questa debolezza/limite, si traduce peraltro in una frattura che ricalca tutti i temi affrontati fin qui: il rapporto con i quartieri popolari, con le lotte antirazziste, col femminismo, con lo scivolamento razzista e le offensive mediatiche e padronali, con l’eredità delle parole d’ordine e l’immaginario del movimento operaio “tradizionale”.

Per Mélenchon, le “rotture” e le strategie che le hanno dettate sono ciò che permettono all’Unione Popolare di conquistare i voti e le adesioni delle frange più basse delle classi popolari e, soprattutto, degli astensionisti nei settori più vessati della società. Questa strategia è ciò che ha permesso a LFI di essere un serio contendente alle presidenziali e al Nuovo Fronte Popolare di “tenere botta” di fronte all’avanzata lepenista.

Di fronte alla crescita elettorale del bIocco di estrema destra, una parte della sinistra francese ha invece formulato un altro indirizzo, in opposizione alla linea di Mélenchon e dell’attuale direzione insoumise. Per figure come François Ruffin, deputato LFI dissidente del nord deindustrializzato e dove il RN ha un seguito massiccio, o ancora per il Partito Comunista Francese, la via per arginare il lepenismo passa dal recupero di una tradizione socialdemocratica mitterrandiana, meno offensiva tanto nei modi che nei contenuti, votata più al consolidamento dei consensi di un’immaginaria white working class che a un effettivo radicamento nei quartieri popolari o alla coltivazione di rapporti organici con i movimenti. Una linea che per Mélenchon equivale a «riprendere le ossessioni» di una classe, piegandosi ai diktat dei media e del padronato, rinunciando a «convincere della forza del proprio programma». Una strategia, insomma, difensiva e non offensiva – e per questo perdente. 

La crisi iniziata nel 2022, all’indomani delle elezioni legislative nelle quali Macron perse la maggioranza assoluta, sta conoscendo un avvitamento rapido e inquietante. È del tutto probabile che tale crisi continui ancora per un certo tempo. La tempesta è giunta, ma non è ancora scritto, alla fine, da che parte tirerà il vento. Una cosa, tuttavia, è sicura: dopo essere riusciti a «pesare nella battaglia», si tratta ora di trovare il modo di vincere la contesa.

Immagine di copertina: Mathieu MD in Creative Commons

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