MONDO

Patagonia argentina, una sfida comune per donne e mapuche

Corpi e territori. NiUnaMenos e altre organizzazioni femministe uniscono le loro lotte con quelle delle popolazioni indigene che rivendicano le terre occupate da Benetton. Mentre infuria la repressione di Macri e pensando alla sparizione forzata di Santiago Maldonado.

NiUnaMenos e alcune organizzazioni femministe della Patagonia argentina si sono incontrate la scorsa settimana in una grande assemblea organizzata a El Bolsón, a ridosso della Cordigliera delle Ande ancora innevata. Parola d’ordine: #NuestrosCuerpos #NuestrosTerritorios. Dov’è Santiago Maldonado? Si sintetizzano così varie questioni che oggi evidenziano nella regione un confitto crescente – e l’imprenditore italiano Luciano Benetton riveste purtroppo un ruolo centrale.

LA SPARIZIONE FORZATA dell’attivista Santiago Maldonado è avvenuta durante la repressione di un blocco stradale attuato dalla comunità mapuche lo scorso 1 agosto e al quale il giovane stava partecipando. Questo caso, oggi noto a livello internazionale e con ripercussioni che hanno di gran lunga scavalcato l’intenzione del governo Macri di zittire Santiago, va messo in rapporto con un conflitto per le terre che si accompagna da tempo alla militarizzazione della zona. Il blocco stradale era stato organizzato per protestare contro la detenzione del dirigente mapuche Facundo Jones Huala, della Pu Lof en Resistencia Cushamen (provincia di Chubut).

Dal marzo 2015 quella comunità ha iniziato un processo di recupero dei territori, contro l’occupazione da parte di Benetton. I protagonisti sono giovani provenienti dalle periferie urbane (in particolare dalla città turistica di Bariloche): decenni fa le loro famiglie erano state spogliate delle terre e lasciate senz’altra scelta che trasferirsi nei centri urbani come manodopera a buon mercato. Diversi giovani mapuche hanno scelto questo «ritorno» in una chiave che è anche generazionale. Nell’assemblea, le donne del sindacato delle lavoratrici domestiche hanno spiegato il loro percorso: «Qui siamo in maggioranza donne mapuche sradicate dalle nostre comunità per andare a servire nelle case cittadine, dove ci hanno obbligate a vergognarci di quello che siamo».

IN QUESTI ULTIMI MESI un crescendo di repressione ha preso di mira diverse comunità; la recrudescenza si spiega con diversi progetti di valorizzazione che si concentrano in quest’area «paradisiaca»: complessi immobiliari, impianti turistici, attività estrattive. L’insieme di interessi economici provoca da anni l’espropriazione delle terre, nella complicità delle istituzioni pubbliche, dei giudici e delle forze di polizia, in questa nuova fase di «Conquista del deserto» – così fu chiamata la campagna militare che alla fine del secolo IX segnò il consolidamento dello Stato-nazione con il massacro dei popoli indigeni mapuche, tehuelche e ranquel.

La stessa definizione di deserto era fatta per sancire la legittimità della crociata e tuttora continua a fungere da legittimazione alla rapina delle terre da parte di imprese transnazionali che le acquisiscono da latifondisti locali o, mediante espedienti vari, dallo Stato.

Le immagini di quella «conquista» militare si trovano oggi replicate nelle celle dei commissariati locali: come quella nella quale è stata detenuta ingiustamente per due settimane la mapuche Elisabeth Loncopan, prima imputata per la scomparsa di Maldonado, in un’aberrante operazione volta a criminalizzare proprio chi chiede giustizia. In seguito, al giudice che aveva ordinato la misura detentiva il processo è stato tolto, come chiedevano vari membri delle comunità che hanno occupato pacificamente il tribunale di Esquel. Il giorno prima, persone incappucciate avevano incendiato diverse case della comunità Vuleta del Río, con un’azione paramilitare tipica del modus operandi di un governo che sempre più sembra ricorrere a repressioni simili a battute di caccia, e a una criminalizzazione della protesta sociale in tutte le sue forme.

«NOI NON CHIEDIAMO la proprietà della terra, proponiamo un altro modo di abitare sulla terra», ha detto una dirigente mapuche durante l’assemblea. Si riferiva al tentativo di ridurre la contesa a una questione di proprietà, un inganno che cerca di assegnare titoli individuali per rendere possibile successivamente la vendita (forzata) delle terre stesse. Oggi il conflitto sui territori indigeni sembra assumere aspetti comuni ai conflitti urbani, sulla base di una complessa mappa di speculazioni immobiliari da parte delle grandi imprese in Patagonia e nel nord argentino (si tratti di agribusiness, progetti minerari o complessi alberghieri): la territorializzazione dei conflitti si fa sempre più acuta, perché le dinamiche dell’espropriazione richiedono un ricorso alla violenza sempre più marcato; e quando a questo si oppongono forme concrete di resistenza, le si criminalizza con ferocia.

Nell’assemblea femminista si è parlato di potere popolare e potere ancestrale, in un insieme che presenta un’inedita attualità, perché le comunità oggi registrano anche l’impronta urbana dei loro abitanti più giovani e perché nei territori urbani c’è una ricerca di legami comunitari aliena dai cliché del purismo e da aspetti folcloristici. L’assemblea è stata un intreccio di incontri non facili: più che una rimpatriata storica, un luogo di prima elaborazione fra organizzazioni femministe e rivendicazioni indigene. È stata tessuta una trama di storie che rivendicano la percezione di un presente in movimento. E obbligano il femminismo a ricostruirsi come femminismo popolare, comunitario, urbano, indigeno. Nuove forme che consentano di dare corpo alla domanda su come il femminismo – di strada e assembleare – possa divenire pratica anticoloniale costruendo alleanze in riferimento a determinati conflitti, assumendoli nella concretezza.

Il concetto di corpo-territorio e la rivendicazione dell’autonomia rispetto a entrambi è una chiave di questa sfida comune. Per questo, l’assemblea ha avviato una forma di azione politica che non può ridursi a una solidarietà astratta. Nella misura in cui l’attività diventa un dispositivo itinerante, mobilitato dai conflitti, si richiede un lavoro corpo a corpo imprescindibile per il dispiegarsi di un’intelligenza collettiva dalle molte lingue (quella della domanda e dell’insorgenza; della non sottomissione quotidiana e della riformulazione dello spazio pubblico; del sabotaggio e dello scontro; del territorio e della strada).

L’ORIZZONTE di questa conflittualità che trova nel femminismo un nuovo spazio di elaborazione politica è il perseverare nella tessitura di «alleanze insolite», scomode e irriverenti. Se il femminismo non vuole essere confinato in un’idea ristretta di genere.

*Pubblicato su Il Manifesto il 4 ottobre 2017. Traduzione di Marinella Correggia