DIRITTI
Non è tutto loro quel che luccica
Una risposta a Ernesto Galli della Loggia su bellezza e (diritto alla) città
In un recente editoriale sul Corriere della Sera, intitolato “La bellezza perduta delle nostre città”, Ernesto Galli della Loggia punta l’indice contro il degrado commerciale a cui sono sottoposti i centri storici e le città italiane, saturate dal fluire incontenibile di turisti in qualsiasi stagione dell’anno, snaturate dalla proliferazione di esercizi commerciali pensati unicamente per le esigenze del visitatore mordi & fuggi, negozi di paccottiglia a 1 euro, baretti e tavolini ovunque. È sorprendente, ma pare che la borghesia liberale nostrana cominci ad accorgersi di quello che essa stessa ha prodotto! Inizia a rendersene conto, certo, senza però per questo azzardarsi ad andare alle radici del fenomeno, ormai più che decennale, che ha modificato così radicalmente le nostre città, trasformandole in parchi a tema ad uso e consumo dell’industria turistica. Forse qualche amico si sentirebbe chiamato in causa, non sta bene.
Meglio quindi virare verso il linguaggio del “decoro”, tinteggiato di sfumature razziste, che mira a prendersela fondamentalmente con i kebabbari, con i migranti che gestiscono alimentari notturni, con i venditori abusivi di ogni sorta e con i volgarissimi centurioni, per non parlare dei temibili “caldarrostai bengalesi” (sic!), che degradano e insozzano la “grande bellezza” delle italiche piazze! Contro questo sfacelo, signora mia, manco a dirlo la soluzione è sempre la stessa: più controllo e più polizia, vigili urbani sotto il comando dei carabinieri! Via questo sozzume, ordine, disciplina e business as usual, a condizione che sia per i più abbienti, per un “turismo di qualità”, come lo chiamano lorsignori. Perché in fondo è questo che li disturba: dopo anni in cui le élites urbane e le amministrazioni di ogni colore si son date da fare per cacciare i poveri dal centro delle città, gli risulta insopportabile vederseli rispuntare fuori proprio nel salotto buono, e per di più negri!
Ma c’è di più. Oltre all’appello ad una maggiore militarizzazione del territorio, come se non ci fosse già abbastanza polizia in giro da cui guardarsi le spalle, Galli della Loggia propone anche di conferire al governo, per mezzo del Mibact, un potere di veto sugli atti amministrativi dei comuni, facendo aleggiare su di essi, con un gesto ormai di moda, lo spettro del commissariamento. Interpretando appieno lo spirito della riforma costituzionale renziana, che concede maggiori poteri allo stato centrale nei conflitti di competenza con gli enti locali, l’editorialista del Corriere ci aiuta a chiarire quale sia il vero pericolo da cui guardarsi, e lo dice esplicitamente: “Si chiama democrazia”. Certo, si affretta subito a correggere, “non la democrazia come ideale, beninteso, al quale siamo tutti devoti, ma la democrazia come realtà”. Beninteso eh.
Eppure l’articolo non si apriva male. Cominciava con questa domanda, che ci sentiamo di rilanciare: di chi sono le nostre città? “A chi appartengono Firenze, Roma, Venezia, i grandi luoghi della bellezza italiana?” La risposta di Galli della Loggia è purtroppo una di quelle già sentite. È la stessa che dà il Salvini di turno alla giusta rabbia che monta nella nostra società: il lavoro te l’ha rubato l’immigrato, il tuo nemico è chi è più povero di te. Va a braccetto con quell’altra risposta, quella snob, appannaggio dell’intellighenzia sedicente democratica, che vorrebbe ridurre il problema alla “maleducazione” di alcuni turisti un po’ troppo plebei, il cui arrivo andrebbe scoraggiato da prezzi più alti e da “un’offerta di qualità”. Sarebbe invece ora, per amore delle nostre belle città, ma soprattutto per rispetto del nostro odio nei confronti di chi le governa, di chi le concepisce come nient’altro che un palinsesto di merci da svendere al migliore offerente, di iniziare a smascherare la cattiva coscienza di questi pifferai magici, di destra e di “sinistra”.
Perché un nome e un cognome i padroni delle nostre città ce l’hanno, basta andarli a cercare al citofono giusto. Sono quelli che hanno speculato sul mercato immobiliare alzando gli affitti e sfrattando migliaia di famiglie dai centri storici. Sono quelli che possiedono un po’ di appartamenti da mettere a rendita attraverso Airbnb, evadendo spesso e volentieri le tasse e mandando fuori mercato le locazioni per i residenti, per i giovani, per i precari di ogni provenienza geografica, costringendoli a spostarsi sempre più verso la periferia. Sono quelli che hanno favorito, dalle poltrone di qualche amministrazione dei più vari colori, la svendita del patrimonio pubblico ai privati. Sono quelli che attraverso la formula magica della “valorizzazione del patrimonio” hanno finalmente trovato la pietra filosofale del marketing territoriale, in grado di trasformare i vecchi agglomerati urbani nei pozzi del folklorico “petrolio italiano”. Sono gli amici e gli sponsor politici degli armatori che fanno passare le Grandi Navi in bacino di San Marco, a costo di devastare i territori e di espellerne gli abitanti. Sono quelli come Briatore, che possono permettersi di pretendere la privatizzazione di tutto, dalle scuole agli ospedali fino al paesaggio, perché “i ricchi vogliono hotel extralusso a picco sul mare e porti per i loro yacht”, altro che le spiagge libere. Sono quelli che possono concedere la licenza per l’apertura di un nuovo albergo la mattina, e quelli che firmano un ordine di sfratto il pomeriggio.
Perché è vero, le nostre città ci sono state sottratte, espropriate, e continuano a esserlo giorno dopo giorno, fin nei pochi angoli che avevano finora resistito alla fame di speculazione del cialtronissimo capitalismo italiano. I centri storici devono diventare niente più che bomboniere, vetrine per lo shopping di chi può permetterselo. Noi, se vogliamo tornarci, possiamo farci i camerieri o i commessi, ma siamo caldamente invitati a tornarcene a casa il più lontano possibile, dove la nostra vista non disturba e dove le nostre esigenze di socializzazione, di cultura e di divertimento possano essere comodamente ignorate, lontano dalle case dei padroni della città, in quartieri dormitorio in cui seppellire vivi i nostri desideri di piazza e di comunità. Possiamo tornarci facendo le guide turistiche precarie e soprattutto non sindacalizzate, pagate una miseria da finte cooperative in grado di assorbire nel mercato il nostro eccesso di formazione universitaria. Possiamo tornarci facendo i baristi o i portapizze a cottimo nei locali del centro, o a cambiare le lenzuola nei bed & breakfast abusivi. Possiamo tornarci a guardare, ma guai a toccare, perché non è più roba nostra.
Se queste sono le alternative che ci vengono offerte dal mondo dei Galli della Loggia e dei suoi amici, possiamo però iniziare almeno a fare in modo che non ci piglino per il culo. Possiamo iniziare a farla finita con questa retorica del decoro, e iniziare a dire che il degrado delle città è innanzitutto la loro privatizzazione. Possiamo iniziare a pensare che il diritto alla città è anche il diritto a una certa forma di vita urbana, e che il centro non è dei ricchi e dei turisti per una qualche sorta di diritto naturale, ma lo è per effetto di un’appropriazione indebita di ciò che è massimamente comune: la città, per l’appunto, sacrificata sull’altare della rendita. Possiamo iniziare a fare come i ragazzi di Foodora, in sciopero contro il cottimo e le condizioni di lavoro infami a cui sono sottoposti. O come i comitati di Barcellona, che hanno occupato qualche settimana fa un appartamento turistico illegale, denunciando la speculazione in atto nel centro storico della loro città. Possiamo insomma inziare a dire, quando reclamiamo il diritto alla città, che sotto questo nome noi vogliamo proprio intendere tutta la città: dai nostri quartieri più o meno periferici, fino ai centri storici che ci sono stati sottratti.
E se infine vogliamo anche specificare in cosa si sostanzi quel diritto, non dobbiamo avere paura di ripeterlo: è diritto alla decisione, tanto sulle condizioni materiali delle nostre vite, quanto sulle trasformazioni dei nostri territori. In due parole, democrazia radicale. Beninteso eh.