POTERI
Maionese impazzita e pressione europea
Avvinghiati come tre avvinazzati sotto la luna, barcollano verso l’abisso
Tutte e tre le situazioni sono rapidamente precipitate in questa settimana non ancora conclusa. Renzi continua a testa bassa la pressione per elezioni anticipate con una mossa in due tempi: 1) la proposta del Mattarellum maggiorato, di cui è scontato il rigetto, 2) l’utilizzo diretto della legge uscita smozzicata dalla Consulta pur di votare subito. L’omogeneizzazione dei sistemi elettorali fra Camera e Senato verrebbe assicurata estendendo l’Italicum anche al Senato. A parole l’avventuriero pone l’obbiettivo del 40% e conseguente premio di maggioranza, in realtà punta a garantirsi i capilista bloccati anche al Senato, emarginare la minoranza privata di candidati vincenti e correre alle urne purchessia. Per questo ha stretto un patto in commissione parlamentare con Lega e M5s, una bella accozzaglia condita pure con sparate populiste fasulle sui vitalizi, essendo ognuna di quelle forze interessata a buttare la palla in tribuna pur di controllare i propri eletti e fregare (nel caso di Salvini) gli alleati.
Cresce però la preoccupazione nel Pd di bocciare per la terza volta il proprio governo e rendersi responsabile di paralizzare il paese con una defatigante campagna elettorale subito dopo quella referendaria. Inoltre il rischio di beccarsi una procedura europea di infrazione supera largamente il vantaggio di andare alle elezioni senza fare l’ormai inevitabile manovra aggiuntiva, limitandosi a poche accise e molte promesse, e magari di rinviare i temuti referendum Cgil. La sconfessione più impressionante è venuta dal pentito Napolitano, ma anche un ministro cruciale come Calenda e l’alleato Alfano hanno detto di no al voto precipitoso. La scottatura del No brucia ancora e perché morire per Renzi? Altri tramano sottacqua. In compenso, l’unico endorsement al voto anticipato è venuto da…Fassina! Mentre Renzi ha l’ansia di restare troppo a lungo lontano dal centro del potere, il Pd a buon diritto teme una tranvata elettorale sul tipo del 4 dicembre e delle amministrative. Lo stesso Renzi comincia ad abbozzare una cauta marcia indietro, ipotizzando come possibilità secondaria il congresso Pd in autunno, le primarie e infine le elezioni nel febbraio 2018. Anche in lui cresce il timore di sparare il 40% e di ritrovarsi a fare, a testa bassa e con un partito bastonato e diviso, un accordo con Berlusconi. Prove tecniche di trattativa con i poteri forti e la minoranza interna. Con tutte le varianti per perdere tempo ed esorcizzare la spaccatura: congresso prima delle elezioni a giugno, primarie semi-congressuali in primavera, una gazebata alla qualunque, ecc.
Già, perché davanti all’ipotesi del voto subito (con capilista bloccati scelti da Renzi) e successivo congresso, le sinistre interne hanno preso coraggio e cominciato a parlare apertamente (perfino Bersani!) di scissione e congiungimento con gli altri spezzoni in via di libera uscita o già usciti: Sinistra Italiana e Consenso di D’Alema. E schegge assortite, da Civati all’Altra Europa e a Rifondazione: chissà, uno schieramento valutabile fra l’8 e il 14%, tale da azzoppare irrimediabilmente il partito di Renzi. Stavolta sembra difficile evitare la scissione, a meno di una clamorosa marcia indietro di Renzi su tutta la linea, che però ormai per lui sarebbe un suicidio e metterebbe in dubbio anche l’ultima arma rimastagli, la segreteria del partito. Una discesa dal 30 a poco più del 20% segnerebbe lo sfasciamento del Pd, un “liberi tutti” che chiuderebbe il ciclo del centro-sinistra e forse non lascerebbe neppure la stampella di una grande coalizione. Stante la situazione paradossa per cui si va – non solo il Pd, ma tutto il sistema politico –a elezioni proporzionali senza partiti definiti, tanto che ci si affanna e modificare all’ultimo minuto le liste di partito in liste e primarie di coalizione.
Nello stesso tempo crescono le grandi manovre di raggruppamento a sinistra, con una forte iniziativa propulsiva di D’Alema e una bella collezione di baroni spodestati e brava gente olivista e riformista sul serio. Perfino Pisapia è tentato. Restano però due dubbi, a parte il carattere frettoloso ed emergenziale dell’operazione. Primo, la litigiosità congenita della sinistra gruppettara e delle tribù in cui sta dissolvendosi il Pd. Secondo, la mancanza di un programma riconoscibile che affronti i problemi popolari e non solo l’insofferenza del ceto politico per l’usurpazione renziana. Per il primo capitolo, basti vedere la farsa dei miracolosi tesseramenti e delle peripezie congressuali di una SI spaccata in due prima di nascere e in lite con tutte le altre formazioni similari. Per il secondo, la totale mancanza di autocritica dei vecchi leader picisti dissidenti, l’assenza di un programma alternativo al neoliberalismo e gli equivoci intorno a questioni cruciali come il reddito di cittadinanza, la politica salariale e industriale, il ruolo dei migranti, l’Europa (del resto, SI con le sue punte no-euro e il “lavoro di cittadinanza” non è da meno). L‘unica parola d’ordine è ripiantare l’Olivo, che non sembra iniziativa né consistente né beneaugurante.
Se questo scombinato schieramento può assestare un duro colpo alla tracotanza renziana e al corpo nefasto del Pd, ben poche illusioni si possono fare sulle sue capacità costruttive – e i problemi dell’Italia e dell’Europa qualcuno dovrà pure con pazienza provare ad affrontarli, al di là delle petizioni di principio.