Lavorare senza padroni, la sfida continua
Le fabbriche occupate in Argentina, dieci anni dopo la crisi del 2001. Il 19 luglio alle Officine Zero
Un bambino di sette anni mi ha detto “Quando sarò grande, posso venire a lavorare con voi?” “Certo, dico io, se ci saremo ancora potrai…ma perché vuoi lavorare con noi?” “Perché io da grande non voglio avere padroni”.
Le parole più toccanti del documentario sono quelle di una lavoratrice dell’Hotel Bauen Recuperado, situato all’incrocio delle due grandi arterie di Corrientes e Callao, nel pieno centro di Buenos Aires. Il documentario “¡Que se vayan todos! Lavorare senza padroni”, che viene presentato il 19 luglio alle 19.30 presso le Officine Zero, prima e particolare sperimentazione romana di fabbrica recuperata e autogestita, ci restituisce le voci dei protagonisti di alcune esperienze di autogestione operaia cresciute a partire dalla crisi argentina del 2001.
Le suggestive immagini della IMPA, fabbrica occupata ed autogestita dal 1998, sgomberata e rioccupata nel 2007, simbolo del movimento delle “Imprese Recuperate”, della Chilavert, della Brukman o, ancora, della Macbody lanciano un messaggio piuttosto chiaro: dall’altra parte del pianeta, lavorare senza padroni è stato possibile. La sfida che ha portato alla conquista di tale possibilità sta tutta nelle parole di un bambino affascinato da un’esperienza che da oltre un decennio ha trasformato il panorama argentino della lotta di classe e che si è esteso poi ad altri paesi, oggi anche alla Grecia con l’esperienza della VioMe di Salonicco e infine in Italia.
“A dieci anni dal default argentino, con la crisi economica europea che attanaglia l’Italia, siamo andati a visitare le E.R.T. (Empresas Recuperadas por los Trabajadores) argentine per cercare di indagare e comprendere il fenomeno delle aziende recuperate da cooperative di lavoratori che si sono autogestite portando avanti il lavoro collettivo senza il padrone. È questo un modello replicabile in tutto il mondo e nella fattispecie in Europa?” si chiedono gli autori del documentario. In altre parole: “Come tradurre la potenza di quella cooperazione e autonomia, la riappropriazione e l’invenzione di uno spazio sociale e politico, educativo, lavorativo che sia la costruzione immediata di un mondo altro?”
Gran parte delle riprese del documentario (in progress) sono state effettuate a Buenos Aires, nella primavera del 2012. Con quelle immagini Cinema&Diritti Abruzzo, grazie ai mezzi ed ai tecnici messi a disposizione dalla Peperonitto Film, ha già prodotto la prima delle tre parti previste. Ed è qui che troviamo la premessa (1l 2001) e allo stesso tempo il sunto di quella che è la situazione attuale in Argentina, a più di dieci anni dal default, in relazione al vissuto di questi anni dell’Italia e dell’Europa. Un viaggio alla scoperta del lavoro. Della dignità del lavoro. Di un lavoro che prova a rompere le relazioni capitalistiche di sfruttamento e diventa costruzione di nuove relazioni sociali, di nuova potenza di immaginazione e lotta. “Abbiamo perso molti diritti, ma non la dignità” dice Gastòn de La Pena della fabbrica recuperata Macbody.
L’Argentina del 2001 è forse nota al livello globale per la fuga del presidente De La Rua dal tetto della Casa Rosada, gli assalti alle banche che trattenevano i risparmi di una vita di migliaia di famiglie o per le cacerolas, i piqueteros (i disoccupati che occupavano le strade per giorni bloccando il flusso delle merci nella sterminata metropoli e nel vastissimo paese), le assemblee di quartiere animate ogni giorno da centinaia di persone, i circoli del baratto (il treuque) le fabbriche recuperate. L’Argentina è stata però, nei decenni precedenti, un vero e proprio laboratorio della crisi economica, dalla dittatura militare al governo Menem, che in tutto ricorda una pallida copia del nostro Berlusconi: gli anni ’90 in particolare segnarono la fine dell’industria nazionale a favore di leggi senza regole sulla flessibilizzazione del lavoro, della speculazione finanziaria e della fuga di capitali. Perché dunque non un laboratorio di resistenza alla crisi attraverso movimenti costituenti che fanno dell’agire comune, del mutualismo e della solidarietà le proprie risorse?
Nel 2001, infatti, l’esplosione delle fabbriche occupate e recuperate e dei movimenti di disoccupati e di giovani ha costruito un immaginario che, al di fuori di ogni mitologia, ci parla di questioni e sfide concrete, di lotte quotidiane, di una tensione che ha molto da dire a chi oggi affronta l’offensiva capitalistica globale. Ed è per questo che ha senso oggi parlare di queste esperienze nel pieno della crisi economica mondiale che in particolar modo sta colpendo i paesi dell’Europa mediterranea.
La storia delle “recuperadas” argentine nasce e vive in un contesto di “saccheggio” (come lo ha definito il regista Pino Solanas nel suo capolavoro che ci restituisce la drammaticità e allo stesso tempo la determinazione e la speranza dell’agire collettivo di quei mesi tra il 2001 e il 2002) nel quale alcuni imprenditori optarono per vendere, altri decisero di continuare accumulando debiti nell’attesa di condizioni economiche più favorevo il fallimento), altri ancora optarono per la strategia del “vaciamiento” (svuotamento): prima di arrivare ad una situazione di completo fallimento decapitalizzarono l’impresa in vario modo, mettendo in salvo i capitali all’estero o reinvestendoli, smettendo di pagare le spese i contributi ai lavoratori, il debito con i fornitori, i salari.
Il “recupero” consiste dunque nella decisione dei lavoratori di fronte al fallimento o all’abbandono delle aziende da parte dei loro proprietari di farsi carico della direzione dell’attività produttiva per difendere la propria fonte di reddito. Fin dalle prime esperienze la lotta legale e politica per l’esproprio delle imprese fallite assunse fondamentale importanza: come la riforma di un articolo della Legge sui Fallimenti imprenditoriali che permise la formazione delle cooperative di lavoro, composte per almeno 2/3 da lavoratori dell’impresa fallita che avrebbero garantito la continuità produttiva. Così come fin da subito fu chiaro che la trasformazione della fabbrica era impensabile senza un’inclusione verso l’interno di nuove idee, progetti e risorse e di un’apertura di questa verso l’esterno: le “recuperadas” vedevano nascere al loro interno servizi autogestiti per i quartieri, scuole popolari (i “Bachilleratos”) o esperienze culturali che difficilmente in tempo di crisi trovano spazio altrove.
Le sperimentazioni nate in questi mesi a Roma e a Milano con le Officine Zero e la Ri-Maflow, che si sono recentemente incontrate ad un dibattito presso il centro sociale Zam di Milano, indicano l’apertura di uno spazio nuovo da indagare, percorrere e sperimentare. Uno spazio in cui la riconversione industriale a partire dall’occupazione della fabbrica in chiusura crea la possibilità di incontro tra vertenze operaie e sperimentazioni di lavoro precario in comune, così come rende possibili esperimenti di autoformazione e creazione di nuovo lavoro (dal riuso e riciclo all’apertura della fabbrica occupata alla società, alle esigenze e ai desideri di chi viene quotidianamente espropriato dalla crisi) dando vita alla “pazza idea” di connettere settori diversi e spesso artificialmente contrapposti.
Di certo esperimenti embrionali, che devono essere sostenuti, difesi, vissuti ma che al tempo stesso sono parte di una lotta complessiva contro la crisi: per rompere il ricatto della precarietà occorre porsi all’altezza della sfida che riguarda la decennale rivendicazione di un reddito di base e incondizionato, per costruire nuove sperimentazioni di lavoro cooperativo, per trasformare la una condizione di subalternità e ricattabilità in forza autonoma, potenza costituente e alternativa dentro e contro la crisi.
Da qualche parte bisognava pur cominciare, e ripercorrendo le esperienze delle fabbriche argentine dieci anni dopo la crisi gli autori del documentario ci spingono a continuare questo viaggio giorno dopo giorno, nelle lotte. Ci suggeriscono di ascoltare le parole di chi in prima persona ha dato vita a queste esperienze, per rimetterle in circolazione, per andare oltre quello che è stato e continuare a inventare e costruire il futuro. Ed è così che le fabbriche occupate argentine continuano ad esistere, a lottare, a “divenire norma” e a rivendicare leggi che ne sanciscono il riconoscimento, capaci di trasformare la relazione tra movimenti, organizzazioni sociali e comunitarie e istituzioni locali o statali. Ed è così che diventano laboratori di esperimenti educativi alternativi, radio comunitarie, mense popolari e produzione di cultura indipendente.
E da parte nostra si continua a occupare, produrre e sognare.
“¡Que se vayan todos! Lavorare senza padroni” (Peperonitto Film, 2013) – Trailer: