TERRITORI

La logica del giorno di gloria

In rete si sta sviluppando un dibattito significativo attorno alla giornata di sabato a Cremona. Nell’ottica di contribuire ad una riflessione collettiva proponiamo il testo del CSOA Scurìa di Foggia. Leggi anche il Comunicato del CSA Dordoni di Cremona

Ci giriamo attorno, come condor.

Più che la fame, poté l’imbarazzo. Di essere i primi a parlare. Ad affondare il becco aguzzo nella carne appetibile della carcassa. Perché quel che andiamo ad afferrare, è carne di noi stessi. E ci fa specie. Cremona è stata un fallimento.

Oltre le fiamme rosso vivo dell’incendio in cui vorremmo perennemente bruciare le nostre esistenze, oltre la prova di forza che trasuda impotenza, Cremona è stata un fallimento.

Ci immedesimiamo. Lo facciamo sempre. Perché oltre l’immedesimazione, c’è il grigio a perdita d’occhio della burocrazia, del calcolo, dell’opportunismo. E le cose, per capirle o capirle un po’ meglio, dobbiamo sentirle. Sulla nostra pelle. Come un taglio profondo. Perché ogni compagno aggredito è nervi dei nostri nervi. Fuor di retorica. Se fossimo stati aggrediti noi, in sessanta contro otto, avremmo valutato due opzioni. E due soltanto. Avremmo deciso. Se allargare alla città, addirittura alla nazione, il compito di offrire i propri corpi, il tempo, a difesa del nostro progetto. O rispondere occhio per occhio, perpetrando quella guerra fra bande che è nel nostro dna, a perenne monito del trasformismo tattico.

Nel primo caso, avremmo coinvolto. Raccolto i frutti del seminato. Allargato, per forza di cose, a gente diversa, differente da noi. SEL, Rifondazione, l’Anpi, l’Arci, la Cgil, pezzi del Partito Democratico. Le anime belle, la brava gente sentimentale. Ci saremmo basati sul numero, sulla quantità di antifascisti disposti a metterci la faccia. Sui vecchietti al balcone. Avremmo attraversato il centro, rassicurando gli esercenti e i bottegai, garantendo – a casa nostra – sui compagni e le compagne. Sul loro operato. Alla fine avremmo ringraziato tutti, dal palco. E basta.

Nel secondo, avremmo lasciato che la clessidra vuotasse il suo carico di tempo. Un compagno in fin di vita, la rabbia che preme sul sottile strato di pelle che ci divide dall’etere. Non avremmo chiamato nessuno. O, meglio, avremmo chiamato chi di dovere. E, alla scordata, avremmo fatto in modo che i nostri nemici capissero, una volta per tutte, che nessuna offesa – men che meno un tentato omicidio – passa inosservata.

La dicotomia tra fascismo e antifascismo – abbiamo già avuto modo di dirlo – è fenomeno residuale. Sganciato com’è dalle dinamiche concrete della vita di tutti i giorni, evaporato in una bolla di teoria che – per quanto valida e vitale per noi – nulla ha a che fare coi bisogni reali, è affare di minoranza. Minoranze. La nostra, da questa parte, e la loro, da quella. Pretendere, ad orologeria, dopo un attacco subito, di travalicare la linea di demarcazione della questione, è già di per sé una scommessa. Cremona è stata un ibrido.

A Cremona ci è venuta gente che non si vede in piazza da anni. Gente che – dinanzi alle scadenze di movimento – ha scelto di esaltare il territorio. Gente che affronta l’antifascismo con lo stesso spirito di quei turisti che vanno in Inghilterra a fare gli hooligans, a scadenze bisettimanali. Gente che ritrova il coraggio del riot non appena si allontana di casa, che a casa propria bisogna implorarli per averli sulla barricata. Compagni, per carità. Non siamo certo noi a dover rilasciare patentini di legittimità. E ognuno si muove come meglio ritiene, in questo deserto che più lo si affronta e più si estende.

Per noi, per la nostra scelta di antifascismo, decidere di coinvolgere quanta più gente possibile e poi agire da banda è una contraddizione insanabile. Un errore, ai nostri occhi, che avremmo fatto di tutto per evitare. Gli sbirri, le banche, le assicurazioni. Quelli sono nemici sempre. Ma attendere un appuntamento così significativo per dispiegare la nostra forza è un atto che scopre il fianco all’impotenza e alla frustrazione, soprattutto laddove ritiene di dipingersi come possente. I fasci non c’erano. La celere difendeva una saracinesca. La celere non ci ha caricati.

Nel fumo dei lacrimogeni è saltato il patto che legava la Cremona antagonista alla città solidale, che aveva risposto all’appello.

Perché – e questo dev’essere chiaro – nessuno può permettersi di fare politica prescindendo dal consenso. E nessuno ottiene consenso regalando un pomeriggio di ordinaria guerriglia ad una sonnolente cittadina padana. Pare brutto dirlo, ma è così. Poi, come sempre, è questione di scelte. E se la scelta è stata coscientemente quella di perpetrare lo scontro frontale con gli agenti in divisa in luogo della fascisteria non pervenuta, ben venga. Purché chi organizza sappia a cosa si va incontro. E oggi – ripartiti tutti – il Dordoni è solo. Con mezza Italia – reale e virtuale – che straparla della bellezza delle fiamme, della risposta adeguata, del “giustizia è fatta”. Solo. Con una città delusa e amareggiata. Che non si farà scrupolo a voltargli le spalle, quando sarà il momento. Questione di scelte. Capiamoci: il rivoltoso che vive in ognuno di noi camperebbe sulle barricate. L’adrenalina che scorre a fiotti ed anestetizza, i gas che sballano come tossine in circolo, il peso del casco, il fazzoletto intriso di Maalox, il rischio che esalta, l’epica che guida un passo dietro l’altro, nella direzione sbagliata. Nessun giudizio morale. Va bene così, se l’obiettivo era una notte di fuochi.

Ma da militanti politici abbiamo il dovere di guardare oltre. E bloccare il battimani. Perché una cosa è il 15 ottobre, la rabbia degli esclusi che diventa faro per altri esclusi, attira con l’esempio alla linea del fronte dello scontro di classe; altra cosa è l’antifascismo, per tanti semplice argine morale, quando non vessillo costituzionale. In ogni caso, immeritevole di cotanta caciara. E mo so cazzi. Lasciati sul vassoio ai compagni cremonesi, mentre noialtri siamo in giro a raccontarci l’epopea e a postare video, già reduci del 24 gennaio.

Questo non certo per dire che dobbiamo piacere a tutti. Ma per ribadire che il fuoco piace a tutti. Ci piace da morire. E che da morire non ci piace spurgare le fogne. Che la logica del giorno di gloria ci sta facendo più male che bene, mentre le città di ognuno di noi – quelle plebee e quelle intoccabili e santificate – hanno tubature a corto di ossigeno. Che necessitano di tecnici e di volenterosi.

Un giorno – speriamo non lontano – ci piacerebbe conoscere Emilio. Averlo tra noi, a tavola o al bar. O al mare. Parlare coi suoi e nostri compagni come non siamo riusciti a fare ieri. E raccontare cosa ci ha insegnato Cremona. Che senza costruire, non vale neppure la pena distruggere.

tratto dal profilo FB del CSOA Scurìa