La guerra razziale. Tra Affile e il colonialismo rimosso
Il nostro giorno della Memoria
un dialogo tra Wu Ming 2 e Giuliano Santoro
E fu così che, nel bel mezzo dell’autunno della crisi e dei sacrifici “tecnici”, si materializzò nel dibattito pubblico il monumento a Rodolfo Graziani governatore della Cirenaica e criminale di guerra del ventennio fascista. Graziani fu governatore durante la dominazione fascista della Libia, comandante nel corso dell’invasione dell’Etiopia, viceré d’Etiopia nel 1936-‘37 e comandante delle forze armate della Repubblica di Salò, lo stato-fantoccio mussoliniano che de facto rappresentò un protettorato nazista, dal 1943-45. Il monumento a questo macellaio del colonialismo e del nazifascismo è stato inaugurato l’11 agosto scorso ad Affile, paesello della provincia di Roma ai confini col frusinate. Il memoriale dapprima non ha destato scandalo, poi – complice il grido d’allarme, “Affile, Grazianilandia. L’eredità razzista e il mausoleo delle sfighe”, lanciato in settembre dalle pagine di Giap – ha conquistato le pagine dei giornali ed è diventato il simbolo della mancanza di memoria in questo paese. Tuttavia il monumento al criminale di guerra Rodolfo Graziani sta a ancora là. È un’occasione da cogliere per capire come le scorie dei postfascisti al governo e l’eredità tossica del ventennio berlusconiano abbiano influenzato il nostro rapporto con la storia.
In un articolo comparso sulla rivista internazionale di studi postcoloniali Interventionsnel 2007, Miguel Mellino si chiedeva come mai proprio in Italia – paese che ha un passato coloniale ed un presente attraversato da flussi migratori – gli studi postcoloniali e il dibattito critico su queste tematiche non avessero trovato terreno fertile. Una delle conclusioni di Mellino era che questa lacuna poteva essere colmata, (di più: stava già cominciando a essere colmata) soltanto negli spazi “al confine” tra la ricerca accademica e le lotte sociali. Di questo discuto con Wu Ming 2, uno dei membri del colletivo Wu Ming. Il mio interlocutore ha scritto con Antar Mohamed “Timira”, “romanzo meticcio” che racconta la storia di Isabella Marincola, donna che ha vissuto da una prospettiva “in-between” il periodo che va dal colonialismo fascista ai giorni nostri. Il tema del colonialismo e del rapporto con le storie incompatibili che agitano l’inconscio collettivo e sono in grado di mostrarci lati oscuri e “prospettive oblique” attraversa tutta la produzione letteraria dei Wu Ming. Per rimanere a due testi recenti,Manituana è ambientato nel mezzo della “rivoluzione” americana contro il colonialismo britannico e Altai ci racconta la battaglia di Lepanto (vero mito fondativo del concetto di Occidente) dal punto di vista degli infedeli. Ancora: tra febbraio e marzo del prossimo anno uscirà Point Lenana. Anche questo romanzo, firmato da Wu Ming 1 e Roberto Santachiara, affronta il tema del rapporto tra l’Italia e l’Africa, dal punto di vista insolito delle vicende legata alla scalata del Monte Kenya da parte di tre italiani negli anni della Seconda Guerra Mondiale.
Dunque, strappo Wu Ming 2 dalla scrittura di L’armata dei sonnambuli (questo il titolo del prossimo romanzo del collettivo, che sarà ambientato negli anni “del terrore” immediatamente successivi alla rivoluzione francese) e gli chiedo, per cominciare: il sacrario di Affile rappresenta davvero l’incapacità dell’Italia di fare i conti col suo passato coloniale?
Direi più in generale che il sacrario di Affile è un monumento all’incapacità italiana di fare i conti con la Storia. Nei giorni in cui si discuteva di quel Vespasiano di Sangue, molti giornali hanno pubblicato in prima pagina la notizia che il Tribunale di Stoccarda ha assolto gli otto indagati per la Strage di Stazzema. Da tutti gli articoli, oltre alla giusta indignazione per la sentenza, trapelava un sentimento critico nei confronti dell’intera nazione tedesca, ancora non abbastanza risoluta nel riconoscere la vastità dei crimini nazisti. Eppure, non c’è nulla di particolarmente “tedesco” nel tribunale di uno Stato che usa i codici per difendere le proprie forze dell’ordine. È un film visto e rivisto, che non conosce confini. Al contrario, c’è molto di italiano nella degradazione della Storia a semplice nostalgia, terreno di caccia, venerazione di facciata, giochino elettorale. Pensate che cosa sarebbe successo se un comune del Baden-Württemberg avesse eretto un monumento per uno degli accusati di Stazzema. Pensato? Ecco, quello è il sentimento che provano etiopi e libici nel sapere che in Italia c’è un sacrario dedicato a Graziani. Ma quelli sono negri e beduini, cosa vuoi che importi. Dunque il sacrario è anche un monumento al razzismo degli italiani. Con tutto che pure gli italiani dovrebbero provare un sentimento di ripulsa, perché Graziani, tanto per dirne una, fu pure il firmatario del bando – nel febbraio ’44 – che prevedeva la fucilazione per chi non si presentava alla visita di leva.
Graziani era fascista e colonialista. Ho notato che si tende spesso a distinguere tra i crimini del nazifascismo da quelli del colonialismo, forse perché questi ultimi sono stati commessi anche prima del Ventennio, come avete ricordato in occasione di un vostro speech sull’anniversario dell’Unità d’Italia. Eppure, c’è una relazione storica tra i due fenomeni: nel suo “Discorso sul colonialismo” l’intellettuale e poeta martinicano Aimé Césaire scriveva: “Varrebbe davvero la pena di studiare, clinicamente, in dettaglio, tutti i passi di Hitler e dell’hitlerismo, per rivelare al borghese distinto, umanista e cristiano del ventesimo secolo che anch’egli porta dentro di sé un Hitler nascosto, rimosso”. Césaire ricordava anche che il nazismo ha “applicato all’Europa quei procedimenti colonialisti che sino ad allora erano riservati esclusivamente agli arabi d’Algeria, ai coolie dell’India e ai negri dell’Africa”. In effetti, la persecuzione degli ebrei in Europa non venne dal nulla. Al contrario ebbe modo di prendere a modello la “socializzazione all’indifferenza” che era già stata sperimentata con i colonizzati; così come i lager e le pratiche di “annientamento amministrativo” erano stati nelle colonie. Pur distinguendo i fenomeni storici della Shoa e dei massacri coloniali, siamo costretti a prendere atto del fatto che l’Olocausto viene oggi – per fortuna – riconosciuto come “male assoluto” perché i sopravvissuti ne hanno tramandato la memoria, non senza trovare qualche ostacolo all’inizio. Tuttavia, ciò ancora non avviene quando si tratta di colonialismo. Quali corde dell’inconscio collettivo muove quella storia rimossa e come mai non diventa oggetto di dibattito pubblico?
Sono molto d’accordo con il discorso di Césaire, tanto che in Timira ho cercato di mettere a nudo anche il “piccolo colonialista” che mi sono ritrovato nel cervello, pur credendomi immune da una simile cultura. Tuttavia, ritengo che in Italia sia importante distinguere i crimini colonialisti dell’epoca liberale da quelli fascisti: si mostra così che fu il colonialismo (e il razzismo) a innestarsi nel fascismo, e non viceversa, che esso fu uno dei suoi elementi costitutivi (il Partito Nazionalista, grande sostenitore dell’impresa coloniale, confluì nel Pnf nel 1923). La retorica imperiale fascista ha finito per far coincidere, nell’immaginario collettivo, l’epoca delle colonie con la dittatura, e questo è un primo motivo di rimozione: se attribuiamo al fascismo la ferocia coloniale e i deliri sulla razza, allora ne facciamo il capro espiatorio di quelle brutture. E una volta immolato il capro, possiamo credere di aver mondato anche la storia patria e il nostro Dna da quella sporcizia. Detto questo, io credo che colonialismo e fascismo – pur distinti – vadano messi in stretta relazione, e che non si possa capire appieno il secondo se non si studia il primo in profondità. Lo stesso vale per la lotta di Liberazione: penso che la nostra Resistenza sia stata in buona parte una guerriglia anti-coloniale, radicata sul territorio, diretta contro un esercito invasore e contro un regime che aveva colonizzato le coscienze. Wu Ming 1 sta lavorando molto su questo parallelismo nelle pagine del suo prossimo libro, Point Lenana. Tanti italiani presero le armi e diventarono antifascisti proprio quando si trovarono nella condizione di vivere in una colonia del Reich. Quella condizione coloniale creò una specie di cortocircuito, un insight improvviso e contraddittorio. Nelle memorie di quei soldati italiani che dopo l’8 settembre ’43 disertarono sul fronte greco e jugoslavo, troviamo spesso la partecipazione a episodi di resistenza, ma non c’è mai il ricordo di quel che accadde prima dell’8 settembre, quando quegli stessi soldati facevano parte di un esercito invasore, che commetteva soprusi, stragi e fucilazioni. La coscienza anti-colonialista di quei soldati, una volta risvegliata, ha cancellato il ricordo di quanto loro stessi avevano commesso da colonialisti. Credo che in parte la rimozione della nostra esperienza coloniale dall’inconscio collettivo abbia a che fare anche con questo: i due miti fondativi della nostra nazione, ovvero il Risorgimento e la Resistenza, sono miti anti-colonialisti. Dunque, che ci siamo andati a fare in Africa, se non i ponti, gli ospedali, le strade? In secondo luogo, come dimostra bene il famoso discorso di Pascoli in favore dell’invasione della Libia (1911), buona parte della nostra retorica espansionista nasce dal vittimismo: gli Italiani sono ovunque derisi, trattati a pesci in faccia, considerati gente sporca e rissosa. È giunto il momento di far vedere al mondo quel che valiamo, di non essere più soltanto vittime, ma civilizzatori, padroni a casa nostra e in una casa più larga. Ma allora questo colonialismo “da vittime” non può esser stato che comprensivo, buono, tutt’al più straccione. Di certo non feroce. Infine, avendo perso le colonie con la seconda guerra mondiale, non abbiamo conosciuto nulla di paragonabile alla guerra d’Algeria o alla rivolta dei Mau Mau. Anzi: nel dopoguerra De Gasperi si adoperò per ottenere qualche ex-colonia in Amministrazione fiduciaria dalle Nazioni Unite. Spese le credenziali dell’antifascismo e della Resistenza per dire che l’Italia non era come la Germania o il Giappone, non la si poteva umiliare togliendole tutte le colonie. Ci voleva un contentino, e visto che nel frattempo c’eravamo tolti la camicia nera e avevamo imparato la democrazia, si offrì di insegnarla ai selvaggi che ancora non la conoscevano e ottenne l’affidamento decennale dell’ex-Somalia Italiana, per avviarla all’indipendenza. L’Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia fu una specie di colonia a tempo, con scadenza nel 1960. Ma era una colonia, così come “le operazioni di polizia internazionale” sono guerre e le bombe intelligenti sono ordigni di morte. I somali infatti non si fecero ingannare e reinterpretarono subito il nuovo acronimo (A.F.I.S.) come: Ancora Fascisti Italiani in Somalia. Burocrati e funzionari, infatti, erano gli stessi di prima della guerra, e nemmeno alcune leggi razziste vennero cambiate. Tuttavia, questo ci permise di pensare che mentre gli altri paesi europei dovevano combattere contro le guerriglie di liberazione, noi invece andavamo d’accordo con i nostri ex-colonizzati, tanto che addirittura potevamo festeggiare con loro, a Roma, la tanto sudata indipendenza. E questo fu un altro macigno calato sopra i crimini del nostro colonialismo.
Ragionando a proposito della memoria del passato coloniale in Italia, Paolo Jedlowski e Renate Siebert ricordano come quando si parli di “memoria” non si intendano solo le rappresentazioni esplicite, ma si esprimano anche “comportamenti, atteggiamenti, pratiche, immagini e nozioni diffuse e date per scontate, che dal passato provengono e si prolungano nel corso del tempo”. “In fin dei conti – sostengono i due sociologi – la forma in cui questa memoria è sopravvissuta è il razzismo stesso”. In altre parole, un trauma, come nel caso della violenza coloniale, che la memoria pubblica non elabora rispunta in forma latente nella vita quotidiana, sotto forma di prevaricazione, razzismo e – aggiungo io – disciplinamento della forza lavoro migrante. In che modo la narrazione di storie, il “disseppellimento di asce di guerra” per utilizzare una vostra metafora, può contribuire a far emergere questo “trauma culturale”?
Sono convinto che la narrazione sia un metodo di ricerca della verità. Ovviamente il tipo di verità che può trovare non è lo stesso obiettivo del metodo storico o di quello scientifico. La verità narrativa consiste soprattutto nel selezionare gli eventi, pigiarli assieme e spremerne significati e contraddizioni. Quindi sono convinto che romanzi e oggetti narrativi possano contribuire a mostrarci il senso del colonialismo: un senso, una direzione, che punta dritto sul nostro presente. Tuttavia, non sono sicuro che questo possa aiutare nell’elaborazione del trauma. Proprio perché raccontare il colonialismo significa tracciare una genealogia del razzismo italiano che arriva fino ai nostri giorni. E significa mettere alle corde il piccolo colonialista che siede – spesso incontrastato – nei nostri cervelli. Tutto questo non è per nulla piacevole. Solo una piccolissima parte della popolazione italiana, oggi, riesce ad ammettere – e in quel caso rivendica – di essere razzista. Moltissimi altri fanno discorsi razzisti mascherati con premesse egualitarie. Ed è questo un altro dei motivi che ha portato alla rimozione del nostro colonialismo dall’immaginario collettivo: quasi a nessuno piace sentirsi razzista, mentre parlare di colonialismo in maniera appena un po’ approfondita significa dire che siamo stati e tuttora siamo un popolo razzista, altro che brava gente. Si tratta né più né meno che di una seduta psicanalitica capace di mettere a nudo vaste zone d’inconscio. Ecco perché non sono sicuro che tutti la vogliano fare e penso quindi che la narrazione post-coloniale, per quanto necessaria, non abbia un esito scontato. L’effetto potrebbe anche essere quello di un’ulteriore rifiuto: ma almeno sarebbe un rifiuto dettato da un minimo di consapevolezza.
Qualche mese fa, quando “Timira”, il romanzo che hai scritto con Antar Mohamed, era uscito da poco, mi raccontaste della difficoltà per il mondo culturale italiano di fare i conti con il rimosso coloniale. In effetti, se si eccettua Ennio Flaiano in “Tempo di uccidere” (dove si narra di un omicidio di una donna abissina da parte di un soldato italiano e del complesso di colpa che lo perseguita, in una specie di “linea d’ombra” conradiana al contrario in cui il rito di passaggio è costituito dalla sopraffazione) e i recenti casi di Carlo Lucarelli ed Enrico Brizzi, sono pochi i romanzi ad occuparsi del colonialismo italico. Come mai il mondo letterario, neanche quello “di sinistra” in senso lato non ha mai affrontato questo tema?
Da un lato, bisogna dire che il mondo letterario non è mai “migliore” della società nel suo complesso. Inoltre, vaste porzioni della Sinistra italiana sono diventate “post-coloniali” solo in tempi recenti. Nel Dopoguerra, il Pci fece una dura opposizione al progetto dell’AFIS, ma sottolineando sempre che “non è in discussione il diritto dell’Italia ad avere o non avere delle colonie”. Si criticava una pratica specifica, non l’ipotesi coloniale nel suo complesso. Mohamed Aden Sheik, un grande intellettuale somalo, ricorda che negli anni Cinquanta venne a studiare in Italia e si accorse che nessuno conosceva la Somalia, figuriamoci la storia coloniale. Decise allora di proporre un ciclo di conferenze, appoggiato da Ignazio Silone. Il risultato fu che si presero una denuncia per vilipendio delle forze armate. Mi raccontava Erminia Dell’Oro – scrittrice italiana nata in Eritrea, autrice di diversi romanzi sul colonialismo – che negli anni Ottanta propose a diversi editori un libro sui crimini di Graziani, ma glielo rifiutarono perché troppo forte. Oggi ci sta rimettendo mano per provare a pubblicarlo. Per non parlare de Il Leone del Deserto, il film sulla resistenza libica contro gli italiani, bloccato dalla censura per circa trent’anni. Oltre a questo, c’è il fatto che Africa e Letteratura è un binomio del quale non frega niente a nessuno, a meno che non si parli di bambini (soldati o affamati) e di mutilazione genitale femminile. L’Africa è un continente enorme del quale conosciamo quasi solo stereotipi. La sua storia non ci interessa, non la studiamo mai. E di conseguenza, quando dici a un editore che vuoi occuparti di quello, lui ti guarda strano, si preoccupa, chiede se può mettere in copertina un bel paesaggio esotico, così almeno risolleva le vendite. E se racconti la storia di una donna italo-somala che ha fatto la modella per Guttuso e l’attrice in Riso Amaro, che ha avuto un fratello partigiano e ha visto la guerra a Mogadiscio, le redazioni dei giornali femminili ti rispondono che non ne parleranno perché non è il genere di storia che interessa alle lettrici. E allora, si domanda lo scrittore italiano, chi me lo fa fare di parlare di ‘sta roba? Per nostra fortuna, negli ultimi vent’anni hanno cominciato a scrivere in italiano anche donne e uomini di origine somala, etiope, eritrea. E la letteratura ha cercato di “mettersi in pari” grazie a scrittrici come Shirin Ramanzanali Fazel, Igiaba Scego, Gabriella Ghermandi, Carla Macoggi, Kaha Mohamed Aden, Cristina Ali Farah, Ribka Sibhatu, Martha Nasibù e a scrittori come Garane Garane, Ali Mumin Ahad, Amid Barole Abdu.
Su Giap avete (ri)lanciato in maniera efficace la “maledizione di Graziani”. Questi infatti nel 1937 ordinò di sterminare cantastorie, indovini e guaritori, colpevoli di spargere veleni e predicare contro l’occupazione italiana. Fu una vera e propria rappresaglia contro le contro-narrazioni, che costò la vita a migliaia di morti ma che causò anche la cosiddetta “maledizione di Graziani”: da quel momento, scrivete , egli divenne una specie di “Re Mida al contrario” e tutto cominciò a girargli storto. Qui notiamo solo en passant, come da quando sia stato eretto il monumento di Affile al Pdl laziale sia successo di tutto, a cominciare dalla rovinosa caduta della Giunta Polverini. Dopo più di sessant’anni, la voce di quei cantastorie che Graziani ha cercato di sopprimere è arrivata qui da noi? Il vero significato della “maledizione di Graziani” è la contaminazione inesorabile del mondo colonizzato nei confronti dei colonizzatori?
Nei racconti di zombi, è spesso il riemergere di un passato rimosso – o di una violenza nascosta – a causare la resurrezione dei morti viventi. Non a caso, alla fine di The Night of the living dead di George Romero compaiono i notiziari sulle vittime dei bombardamenti al napalm in Vietnam. Il sacrario di Affile ha risvegliato orde di zombi, cantastorie uccisi e uomini de-umanizzati dal nostro colonialismo. Franz Fanon, ne I dannati della terra, ha messo per primo in relazione gli zombi e i colonizzati, e dunque la paura della zombificazione con la paura di un contatto ravvicinato e violento con gli immigrati post-coloniali. Sartre, nella prefazione a quel libro, avverte i lettori europei che, immergendosi nelle sue pagine, saranno finalmente loro a sentirsi zombi, morti che camminano. “Guardando ciò che abbiamo fatto nelle colonie, capirete ciò che abbiamo fatto a noi stessi”. Allo stesso tempo, credo che il monumento a Graziani fosse anche un goffo tentativo di tenere a bada gli zombi coloniali. Quei mattoni dozzinali, la scritta “Patria e Onore” sul frontone, sembrano voler dire: “Magari ci fosse ancora qualcuno che può impunemente tirare il gas sugli africani! Quanto ci farebbe comodo uno così. Ai suoi tempi gli zombi erano zombi e i vivi erano vivi, senza strane contaminazioni. Ai suoi tempi la vista degli zombi non ci spaventava, e anzi serviva a rassicurarci di essere superiori, viventi, sani. Oggi vorremmo tanto guardare con la stessa sicurezza agli immigrati, e invece essi rifiutano di auto-rappresentarsi come zombie e finiscono così per contaminarci, per rovesciare la prospettiva e farci sentire morti che camminano”.
Su questa tematica ha scritto un bellissimo articolo Simone Brioni, ricercatore all’Università di Warwick. Brioni interpreta Zombi 2 di Lucio Fulci (1979) come la paura dell’immigrazione che si fa celluloide, il morto vivente del colonialismo che perturba l’inconscio collettivo degli italiani, il rimosso che ritorna travestito da mostro, dopo aver cambiato forma. Purtroppo l’articolo sarà disponibile solo in inglese, dalla prossima primavera, su una rivista accademica. Ma contiamo di dargli una maggiore visibilità.
il Mausoleo di Affile a Rodolfo Grazioni
Il pensiero postcoloniale ci ha abituato a guardare il mondo facendo tesoro della sensazione di spaesamento che esso causa: non si comprendono i nuovi schiavi di Rosarno oppure l’arcipelago gulag dei Centri di detenzione per migranti se non si scorgono i tratti del mondo postcoloniale. In altre parole, alcune delle caratteristiche del colonialismo si riproducono in pieno Occidente mentre, allo stesso tempo e senza possibilità di sintesi, alcune caratteristiche che si direbbero del mondo “sviluppato” appaiono nel bel mezzo del cosiddetto “terzo mondo”, rendendo inutili o quanto meno insufficienti i concetti stessi di “sviluppo” e di “arretratezza”, di Sud e Nord. Il virus del colonialismo, la sua violenza ma anche la rabbia dei colonizzati, è arrivata a bussare alle porte di quelle che i Clash chiamavano “sicure case europee”. Nel 2007 nell’introduzione di un numero della rivista “Afriche e Orienti” dedicato al “ritorno della memoria coloniale” si poteva leggere che “il crescente flusso di immigrati provenienti dal mondo già coloniale ha riaperto ovunque in Europa la memoria della frattura coloniale”. Come si è inserita in questo contesto una donna come Isabella-Timira, con la sua storia meticcia e col suo carattere forte e poco incline agli accomodamenti?
Isabella ci ripeteva spesso di aver subito nell’Italia di oggi la peggior forma di razzismo in ottant’anni di vita. Va da sé che una simile “classifica” ha un senso relativo, ed è senz’altro influenzata dalla distanza temporale, tuttavia, si tratta di un’affermazione piuttosto pesante in bocca a una donna che visse da meticcia e black italian nella Roma imperiale e fascista delle leggi razziali. Se volessimo dare un’etichetta ai diversi aspetti che il razzismo ha preso sulla pelle di Isabella, potremmo definirlo dapprima paternalista, poi sessuale, religioso e infine identitario. Il razzismo paternalista è appunto quello legato all’Impero: la piccola Isabella era allora una bella abissina da vezzeggiare e mostrare, come una scimmia ammaestrata, in quanto dimostrazione vivente della capacità italiana di civilizzare il mondo: una negretta che sa recitare Carducci a memoria. Il razzismo “sessuale” coincide con l’inizio dell’età adulta e con il lungo Dopoguerra: uomini cresciuti nella mentalità colonialista vedono nella donna nera una riserva di caccia, una promessa di sesso caldo e selvaggio sempre a disposizione. Il razzismo religioso è invece quello che Isabella ha sperimentato in Somalia, dove la chiamavano “gaal”, infedele. Infine, il razzismo “peggiore”, quello identitario, nasce da un’Italia impaurita, insicura, che teme di essere zombificata e dunque ha bisogno di disciplinare i morti viventi, non soltanto con un controllo sociale e poliziesco, ma anche erigendo precisi steccati mentali. In questo contesto Isabella sente che la sua italianità viene messa in discussione, in nome dell’equazione-steccato italiano = bianco. E questa le appare una violenza peggiore in quanto più imprevedibile di tutte le altre. Isabella è arrivata in Italia all’età di due anni, è cresciuta nella scuola fascista, sotto tonnellate di nazionalismo, ha studiato e amato la cultura italiana e mai avrebbe immaginato che qualcuno, magari molto meno istruito di lei in quella cultura, avrebbe potuto mettere in dubbio la sua cittadinanza. Tra tante insicurezze e fallimenti, considerava l’essere italiana l’unica certezza, qualcosa che nessuno avrebbe mai potuto sottrarle. E non per via di un padre italiano che nel lontano 1925 l’aveva riconosciuta come figlia legittima. La sua era un’identità culturale, la stessa che potrebbero provare uomini e donne arrivati in Italia da bambini e che pure ci ostiniamo a considerare stranieri – considerando il sangue, o la terra, l’unica vera garanzia di cittadinanza. Roba da Medioevo: è proprio vero che gli zombi siamo noi.