Istanbul: il primo maggio rubato
Il governo vieta ogni manifestazione: scontri e feriti gravi. Il racconto di Serena Tarabini da Istanbul.
Può un governo decidere di sottrarre ai propri cittadini una delle giornate più importanti della storia internazionale? Si, può impedirlo in Turchia, dove il 1 maggio assume un doppio significato in seguito alla strage orchestrata del 1977, dove 54 persone rimasero uccise in seguito agli scontri provocati dai servizi segreti per spianare la strada al golpe che si verificò tre anni dopo. Si, lo può fare ad Istanbul, tornando a vietare a sindacati, lavoratori, partiti, associazioni e movimenti della sinistra, quella che è LA piazza, quella che altre non ce ne possono stare, la stessa Taxim che fu teatro della strage del ’77.
Un divieto assurdo, sintomo di un autoritarismo e un’arroganza volontariamente malcelati dalla scusa utilizzata per giustificarlo, quella dei lavori di ristrutturazione in corso.
Un divieto inaccettabile, che difatti la maggior parte delle realtà che tradizionalmente animano questa giornata non hanno voluto accettare, dandosi comunque appuntamento in diversi luoghi per provare a raggiungerla.
Ma il governo ha deciso di difendere l’indifendibile, e lo si percepisce fin dalle prime ore del mattino. La città è letteralmente sequestrata e sorvegliata da un numero abnorme di forze di polizia, chiamate per l’occasione anche dai distretti più lontani come quelli di Marvin o Ankara. Tutti i mezzi di trasporto pubblico sono stati cancellati, dagli autobus ai tram, dai treni ai traghetti, la parte asiatica viene completamente isolata, non si può viaggiare in nessuna delle due direzioni. Ci sono solo i taxi, che possono comunque fare ben poco, in quanto intere ed estese porzioni di Beyolglu, la municipalità a cui Piazza Taxim appartiene, quella di cui l’attuale premier Erdogan è stato sindaco prima di diventare il primo cittadino dell’intera città, sono chiuse alla circolazione, anche pedonale. Lascia uno strano sapore in bocca, con un retrogusto amaro, vedere Istiklali Kaddesi, l’arteria pulsante del centro storio, attraversata ogni giorno da centinaia di migliaia di persone, completamente vuota sbirciandola al di sopra delle teste dei poliziotti schierati ad occluderne i vari accessi. Per interdire la città ai suoi abitati vengono utilizzati i mezzi più disparati: tonnellate di barriere di ferro presidiatissime da poliziotti in tenuta antisommossa che non fanno passare nemmeno uno spillo, non solo blindati ma anche autobus e tir collocati di traverso, il Ponte Ataturk sul Corno d’oro aperto per impedire il passaggio di chicchessia, anche a piedi, una misura che nella storia della città ha solamente un precedente, quello del giugno 1970, quando si svolse uno dei più grandi scioperi della repubblica.
Camminiamo per 5 kilometri per raggiungere a piedi uno dei luoghi dove una parte dei militanti dei sindacati di classe, delle organizzazioni studentesche e femministe e dei partiti di sinistra si sono dati appuntamento, la piazza principale del popolare quartiere di Beşiktaş.
A solo un’ora dal concentramento, l’aria è greve per il fumo dei lacrimogeni già a centinaia di metri di distanza. Quando arriviamo, non posso credere ai miei occhi. Ai manifestanti, in quantità difficile da valutare con precisione a causa della dispersione, sicuramente migliaia, è letteralmente impedito di fare qualsiasi cosa. Non assisto direttamente a quello che poi mi riporteranno altri manifestanti o i video diffusi su you tube, ovvero inseguimenti uomo a uomo, lacrimogeni lanciati all’intero degli edifici, persone malmenate: il fatto è che non c’è bisogno di arrivare al corpo a corpo : con una regolarità inquietante, ogni qualvolta tentino anche solo di radunarsi nel centro della piazza, le persone vengono spazzate via dai getti degli idranti e dalle ruote dei blindati, ed inondati di gas lacrimogeni. Una volta dispersi, è il momento delle cariche, plotoni di poliziotti che si spingono fino alla laterale delle laterali di Barbaros street, la via principale del quartiere, dai cui edifici si affacciano persone che inveiscono contro i poliziotti, lanciano ai manifestanti limoni, aceto e fazzoletti, aprono le porte delle loro case per dargli rifugio. Per molte ore i manifestanti, persone di tutte le età, non demordono, a più riprese rispuntano da luoghi diversi i caschetti celesti del sindacato dei metalmeccanici, o i cappelli rossi del partito socialista, o le bandiere viola del movimento lgbtq, e cercano non di andare verso Taxim, cosa impossibile, ma solo di rimanere uniti nella piazza, ed a più riprese vengono ricacciati allo stesso modo. Alcuni rispondono alle cariche con lancio di qualsiasi cosa, altri fronteggiano gli sbarramenti, ma l’aria di tutto il quartiere è resa irrespirabile e brucia, il più delle persone, anche donne ed uomini anziani, sono devastate dai lacrimogeni utilizzati in maniera spropositata e sparati ad altezza d’uomo.
Verso le 17 del pomeriggio l’assurdo gioco ha fine, stremate, le persone se ne vanno. Non è stato possibile muovere un passo. E lo stesso, è avvenuto a Şişli, luogo di una secondo appuntamento, dove un edificio sindacale è stato bombardato di lacrimogeni anche al suo interno, e gli scontri hanno avuto un esito drammatico, inaccettabile: fra le decine di feriti, tre sono molto gravi, ed in questo momento una studentessa diciassettenne si trova fra la vita e la morte.
Solo verso sera le strade di Istanbul tornano lentamente ad essere riaperte, con il loro tappeto di bussolotti vuoti e l’asfalto divelto. Ovunque ancora polizia e polizia, che smonta le barricate, risale sugli autobus, contribuisce ancora al senso di invasione ed sgomento che tutti provano, nemmeno sapendo quanto pesante sarà il bilancio di questa giornata rubata.
Niente piazza Taxim. Niente Primo maggio. Niente democrazia. Questa è la Turchia.
Foto dalla piazza di Serena Tarabini: