ROMA

Interregno: manifesto per un festival sul futuro

Un’intervista sul festival che si terrà da venerdì 20 a domenica 22 tra le mura dell’Atelier Autogestito ESC.

Nel 1999 Larry e Andy Wachowski consegnano al Mondo Matrix, pellicola culto che narra di un’epoca a venire in cui le macchine sono all’apice del proprio processo di autodeterminazione, dal momento che non solo sono riuscite a ridurre l’essere umano a una mera pila energetica, ma anche a fargli accettare passivamente questo destino grazie a un gigantesco sistema di realtà virtuale in cui tutti vivono, più o meno, felici, contenti e digitalmente narcotizzati. Ora, il quadro a tinte nerissime e drammaticamente iperbolico tratteggiato dai fratelli Wachowski con tutta probabilità non si realizzerà, ma cosa succederà davvero e come sarà il futuro? Per molti anni questa domanda non se l’è posta più nessuno. La capacità di proiettarsi in avanti e di pensare il nuovo si è spenta parallelamente all’ascesa del neoliberismo e, paradossalmente, all’esplosione delle tecnologie digitali. Un primo risveglio (col botto) è arrivato in occasione della crisi finanziaria del 2007-2008, con l’idea di un’economia di mercato in perfetta, armonica e continua espansione che ha cominciato fortemente a vacillare. Poi è arrivata l’elezione di Trump, la Brexit, i populismi gentisti e Forbes – la rivista nota per la classifica degli uomini più ricchi della Terra – che pubblica articoli dal titolo “Is Capitalism Ending?”. Pensare il futuro è diventata quindi una necessità più che mai urgente ed è proprio con questo obiettivo che è nato Interregno, festival organizzato dall’Atelier Autogestito ESC, in collaborazione con NERO, che si terrà dal 20 al 22 ottobre. E visto che nel calderone del futuro può rientrare di tutto, siamo andati a fare due chiacchiere con gli organizzatori per capire come (e con chi) questo tema verrà trattato.

ZERO: Allora, possiamo partire dalla domanda che accompagna il testo introduttivo di questo festival: che fine ha fatto il futuro?
Interregno: Da un punto di vista più genericamente culturale, artistico, di linguaggi, questo è stato un tema ricorrente nel dibattito che si è sviluppato negli ultimi anni. Dopo anni di nostalgie, di estetiche nostalgiche e retromaniache, era evidente che si era un po’ toccato il fondo, con una proposta di contenuto assolutamente sterile rispetto a una realtà quotidiana che nel frattempo galoppava in maniera schizoide verso l’ignoto. C’è stato un forte scollamento tra la riflessione culturale e artistica e la contemporaneità, per cui, da un certo punto in poi, si è tornati a ragionare in maniera molto prepotente sulle implicazioni della realtà tecnologicamente mediata che viviamo oggi, sul perché in tutti questi primi anni Zero ci sia stato questo sguardo rivolto all’indietro e una conseguente perdita di contatto. Da lì ci si è cominciati a domandare perché il tema del futuro, che pure è stato un motore costante per l’evoluzione di ogni cosa, e quindi anche dei linguaggi artistici e musicali, fosse venuto meno. Ovviamente la faccenda non poteva essere semplicemente estetica, ma interpellava delle categorie precisamente politiche. Poi c’è stato il Manifesto per una politica accelerazionista del 2013 (i cui autori sono Alex Williams e Nick Srnicek, nda) che è stato un po’ un detonatore e ha fatto esplodere tutta una serie di questioni, anche nell’immaginario “pop”.

Infatti, c’è una quasi equivalenza di temi per quanto riguarda il dibattito politico della sinistra radicale. Ci si interroga sulle stesse questioni, certamente con un punto di vista diverso, ma non con un punto di vista totalmente altro. Veniamo da molti anni in cui la battaglia politica è stata “a difesa di”, si è creata una mitologia dei famosi 30 anni gloriosi del Dopoguerra, dipinti come anni di felicità e di prosperità quando invece ci sono state molte lotte che sono nate proprio in quel periodo e per contestare proprio quel sistema di cose. Quindi, da una parte c’è la consapevolezza dell’esaurimento del ciclo di queste lotte, dall’altra c’è una situazione paradossale in cui cui lo stesso neoliberismo, paradigma che ci ha governati negli ultimi 40 anni, sembra essere esso stesso incapace di promettere. Il tema del futuro negli ultimi 40 anni è stato affrontato nei termini di un’economia della promessa, di un sistema basato su meritorcrazia, premialità, performance e incitazione alla performance in vista di miglioramenti costanti del proprio lavoro, del proprio salario e quindi della propria vita. Ora siamo arrivati al momento in cui è pubblica la percezione che la promessa non può essere mantenuta, anzi, lo stesso discorso capitalista ha introiettato la distopia: basta pensare all’idea di stagnazione secolare – impossibilità di superare una fase di scarsità, di disoccupazione di massa etc. – che è maturata proprio in ambito liberista. Bisogna riaprire il campo del possibile, senza abbandonare il presente e le lotte immediate, ma facendo un discorso diverso: è impossibile vincere le lotte immediate senza immaginare un futuro alternativo, uno scenario post capitalistico. È un crinale scivoloso e complesso, ma è l’ambizione politica di questo festival.

Quali sono le prime risposte che stanno emergendo rispetto a questa domanda di futuro?
Il dibattito al momento sembra essersi polarizzato su due posizioni. Da una parte c’è una sorta tecno-ottimismo: c’è chi dice che bisogna accelerare oltre il limite lo sviluppo delle forze produttive per far crollare tutto l’edificio – usiamo questa immagine. C’è invece chi sostiene che invece bisogna rallentare il processo perché la velocità impedisce la decisione collettiva. È un dibattito che riguarda anche i media, ad esempio: c’è chi dice che Facebook è il demonio e chi dice che bisogna starci dentro. Noi stiamo cercando una terza di via, che non è né pessimista né ottimista, ma che si chiede come sia possibile utilizzare questa immensa virtualità che viviamo, rivoltandone però il segno. Ci interessa anche evidenziare la non linearità di questi processi. Quando parliamo di stagnazione secolare, ragioniamo sull’ipotesi che in un futuro abbastanza lungo il Capitalismo incontrerà una fase di bassissima crescita, accompagnata da alti tassi di disoccupazione. Un Capitalismo che continuerà sì a riprodursi, ma riprodurrà anche miseria e povertà. E non si tratta di una visione radicale, ma è una posizione sostenuta da fior fiore di economisti. Nello stesso tempo, c’è una grande evoluzione tecnologica, c’è il Capitalismo delle piattaforme che è figlio della crisi. Snircek mostra come sia stata la crisi stessa che ha favorito questo processo di innovazione, questa trasformazione dell’organizzazione della produzione. Paul Mason (giornalista inglese autore di molti articoli sulla possible fine del Capitalismo, nda) insiste molto sul fatto che le forme di produzione cooperativa che si producono all’interno delle piattaforme ci porteranno linearmente fuori dal Capitalismo: evidentemente non è così, non c’è linearità, c’è da immaginare invece nuove forme di conflitto, c’è da mettere a tema delle forme più avanzate di critica, delle forme alternative, non capitalistiche, di organizzazione della produzione.

Produzione ed ecologia non sempre sono due temi che vanno a braccetto. Che ruolo ha quest’ultima istanza nel dibattito?
La riflessione di Interregno parte dall’idea che quella economica, ecologica, sociale, istituzionale, politica, d’immaginario sono delle crisi che si attraversano e risuonano l’una sull’altra. L’idea del festival è di analizzare tutti questi strati che si sovrappongono. Rispetto al tema della crisi ecologica, una cosa che ci interessa approfondirne il legame con il pensiero femminista radicale: entrambe, ad esempio, analizzano il problema della riproduzione della vita, non solo inteso come possibilità di sopravvivere, ma come ambito dove il Capitalismo stesso sta concentrando l’attenzione per ottenere profitto. Questo sarà l’ultimo panel che avremo e sarà un tema abbastanza nuovo per l’Esc, quindi sarà un momento di scoperta.

Dall’altra parte della barricata che futuro si immaginano?
Sinceramente li vediamo in crisi. In Italia, ad esempio, il pensiero “Expo-ottimista”, una sorta di variamente fuori tempo massimo del blairismo, è andato a picco velocemente. La Brexit o l’elezione di Trump hanno messo in discussione il pensiero progressista liberale che si immaginava un futuro senza strappi, in cui sarebbero scomparsi i conflitti e ognuno sarebbe stato condotto al proprio posto al sole grazie al merito. Questa ipotesi ha perso non solo credibilità, ma è stata smentita dai fatti. Insomma, dall’altra parte stanno vivendo quasi uno psicodramma, per cui o si propone un futuro distopico, quasi allucinato, fatto di viaggi su Marte e isole galleggianti per ricchi nel mezzo di un disastro climatico globale, o si cerca di portare avanti un faticoso traccheggiamento giorno per giorno al fine mantenere lo status quo corroso e avvelenato da distorsioni e cattiverie che sperimentiamo quotidianamente. C’è la mancanza di uno slancio futuribile condiviso, di un ipotesi che a una persona faccia venire voglia di affrontarlo il futuro. Lo sforzo è quindi di immaginare un futuro altro, di catapultare nel presente delle ipotesi trasformative, magari non da realizzare immediatamente, ma che diano un sbocco anche solo enunciandole. Questo è il tentativo più interessante che si sta facendo adesso.

ITF

Per anni abbiamo avuto difficoltà a parlare di futuro, la parola utopia è stata completamente bandita dalla lingua, bisognava attenersi alla realtà, stare con i piedi per terra. Ora si ricomincia a parlare di come lo sviluppo tecnologico può consentirci di immaginare una società oltre il lavoro, attraverso il basic income ad esempio. La cosa curiosa e paradossale è che questo dibattito in Italia ha 40 anni, ma avere il coraggio di riaffrontarlo è l’unica cosa che oggi può proteggere dalla barbarie. Di recente l’Esc ha ospitato una conferenza sul Comunismo (C17 – The Rome Conference on Communism, che si è tenuta nel gennaio 2017, nda) ed è venuta moltissima gente, molta più di quanta ce ne aspettassimo, segno che c’è un grande interesse, un grande desidero di parlare di un futuro possibile. Paradossalmente, però, in questo evento si è discusso poco di futuro, per cui Interregno è anche un nostro modo di raccogliere questa domanda che è stata inevasa. Sorprende davvero pensare che nel 2017, in Italia, abbia avuto un grande successo una conferenza sul Comunismo, su uno spettro, un fantasma…

Quali sono state le posizioni all’interno di questa conferenza?
Ci sono stati molti dibattiti classici sul ruolo dello Stato, sulle soggettività e le classi sociali che possono essere capaci della lotta ed essere responsabili del cambiamento. La discussione è stata innovativa dal punto di vista delle categorie teoriche, ma le tematiche sono state essenzialmente classiche. Non si è parlato dei modelli di società alternativi, perché c’è da sempre una sorta di convenzione sull’esclusione del futuro, sul pensare alla futuribilità dell’azione politica. Quello che Marx chiamava “l’avvenire del movimento” è diventato un oggetto misterioso, che bisogna far riemergere.

In altri Paesi quanto è avviato questo diabattito?
Parecchio e va a coinvolgere ambiti non solo strettamente politici, ma anche più genericamente culturali. La stessa parola Capitalismo è ricomparsa sulla stampa “mainstream” e ci sono stati numerosi editoriali su testate assolutamente non miltanti, non radicali, che hanno ragionato di fine del Capitalismo, post Capitalismo, crisi del Capitalismo etc. Questo è l’indicatore di un clima mutato. Per quello che riguarda l’Italia, come dicevamo, il dibattito in realtà c’è da 40 anni e infatti, cosa paradossale, negli articoli e nei saggi anglofoni ci sono un sacco di riferimenti alla tradizione italiana, che invece in patria è considerata scomoda, non interpellabile, non seria. Per cui, a maggior ragione, è necessario riprendere le fila di certi discorsi.

Presentiamo le varie sezioni e gli ospiti di Interregno.
Si inizia il primo giorno con un panel che è un po’un “metapanel”: un panel che vuole riassumere e presentare tutto il festival e avrà al centro il problema dell’utopia, della distopia e della costruzione del futuro. Sono invitati Nick Srnicek, coautore del Manifesto per una politica accelerazionista, Chiara Giorgi, una ricercatrice che si è occupata del tema dell’utopia in Marx e Gramsci, Benedetto Vecchi dal Manifesto, che ha scritto un testo sul Capitalismo delle piattaforme, e poi Bifo, che ha posizioni più particolari e da poco ha scritto un libro che si chiama Futurability.

Il giorno successivo ci sarà un panel su un tema che non vuole essere immediatamente una proposta politica, ma agirà molto sulla costruzione dell’immaginario e ha a che fare con l’ipotesi di una pianificazione economica non centralizzata, che non rimetta al centro il tema dello Stato e della sua funzione, ma immagini forme di pianificazione che possano partire da piattaforme digitali, che insistano molto sul decentramento delle decisioni, sul tema dalla partecipazione, della condivisione e della cooperazione dentro la rete. Questo dibatto ha avuto sviluppo a partire da un romanzo che è uscito nel 2010, Red Plenty (tradotto L’ultima favola russa, nda), in cui si racconta la storia (vera) di alcuni cibernetici sovietici degli anni ’50 che si sono posti l’idea di una pianificazione alternativa che includesse anche la tecnologica. Ne parleremo con Jeremy Gilbert, autore del libro Common Ground, che si è posto il problema della democrazia e della cooperazione in un epoca segnata dall’individualismo. Gilbert ha anche ripreso da Mark Fisher il cosiddetto tema dell “acid corbynism”, vale a dire la possibilità, partendo dalle sensibilità psichedeliche degli anni 60, di recuperare nella stagione del corbynismo un’immaginario che sia veramente altro e liberatorio. Ci sarà anche Carlo Vercellone, uno degli autori centrali per il dibattito sul capitalismo cognitivo, che ha appena chiuso un nuovo libro intitolato Il comune come modo di produzione; poi Tiziana Terranova, docente dell’Orientale di Napoli, che ha lavorato sui nuovi media e il populismo nelle piattaforme, ragionando però anche sul tema del comune. Ci sarà Emanuele Braga, attivista di Macao a Milano, che si è interrogato sul tema delle monete digitali, sia dal punto di vista teorico che concreto, perché a Macao stanno sperimentando una moneta digitale per forme di pagamento alternativo.

Sempre il sabato ci sarà il panel Digimonia, in cui si affronta più di petto il discorso dell’immaginario, del rapporto tra utilizzo dei media e intervento sulla realtà concreta, sia da un punto di vista si pratico che estetico. Parlerà Andrea Natella, colonna della controcultura romana sin dai tempi delle prime teorizzazioni cyberpunk, passando per la stagione dei rave, di Luther Blissett, dei Man In Red, dell’ufologia radicale, che quindi sarà d’aiuto per dare uno sguardo storico prospettico su come questi temi siano stati affrontati nel tempo. Ci sarà Donatella della Ratta che, parlando di mediattivismo, porterà in rassegna un esempio concreto, pratico, con tutte le sue contraddizioni e fallimenti: la stagione delle primavere arabe e i rapportati tra movimenti, social media e tecnologie. Infine ci sarà Domenico Quaranta, il più importante personaggio che abbiamo in Europa e in Italia nel campo del post internet, dell’arte che ha interrogato e riflettuto sui temi di cui abbiamo parlato fin’ora, del rapporto con la tecnologia, dell’invasione della tecnologia, dell’invasione del Capitale nella vita quotidiana attraverso la tecnologia e così via. Tutto questo discorso adesso è diventato anche un po’ hype nel mondo dell’arte: un certo tipo di estetica, alcune paroline chiave che butti lì in una biennale a caso… L’ultima Biennale di Berlino, ad esempio, ha suscitato un sacco di polemiche perché era piena zeppa di questi temi, per cui non si capiva se era una critica vera o una “fashionizzazione”. Quaranta, in particolar modo, può aiutarci a stabilire un continuum storico con le esperienze più di rottura, quelle che hanno fatto da serbatoio per la produzione attuale.

La Biennale di Berlino del 2016.
La Biennale di Berlino del 2016.

L’ultimo panel, la domenica, verterà sul cosiddetto “Capitalocene”, quindi crisi ecologica e strategie per il post umano. Un panel in cui si proverà ad affrontare il rapporto tra crisi economica, sociale e crisi ecologica, e a capire i rapporti tra l’umano e il non umano. Noi abbiamo discusso tanto sul concetto di comune ed è necessario capire come questo concetto si estenda all’ecologia. Qui interverranno Helen Hester che è una teorica, docente di media e protagonista di questa nuova tendenza che si chiama xenofemminismo, poi Emanuele Leonardi, Miriam Tola e Andrea Ghelfi, che si sono occupati di ecologia del comune, dell’Antropocene etc.

Chiudiamo con una parte musicale, video e anche ludica.
Sì, questi temi, ovviamente, a un certo punto sono piombati anche nel mondo dell’estetiche digitali, sia musicali che artistiche. Quindi ci sono una serie di personaggi che li incarnano e li portano avanti. Nella prima giornata c’è Filter Dread, che è uno dei protagonisti della scena grime inglese: esce per Pan, Lost Codes ed è vicino anche al giro Boxed, attorno a cui gravitano i musicisti che nell’Inghilterra degli ultimi anni hanno portato avanti un discorso futuribile, di opposizione, anche frontale, a quello che c’era nell’ambito della musica elettronica, che per tanto tempo è stata la musica del futuro, della tecnologia, ma che a un certo punto era diventata revival anch’essa. Questa scena ha ripreso l’”hardcore continuum” descritto da Simon Reynolds, spingendosi oltre, verso i territori del post e dell’oltre umano. Filter Dread sarà affiancato da di Since, crew romana tra le poche, anzi, forse l’unica qui in Città, che ha provato a far girare questi suoni. Sabato c’è Still, che esce sempre su Pan, ma è un artista italiano: Simone Trabucchi, di Milano. Lui ragiona su suoni digitali allo stato ultimo e identità post coloniali, sulle famose seconde, terze, quarte generazioni italiane deterritorializzate e lo fa con un estetica che non è quella world, ma è molto più hi-tech. Assieme a lui ci sarà Vipra, che è un canale verso esperienze come quella di Janus in Germania, il collettivo che forse più di tutti ha portato determinati temi nel mondo musicale.

La domenica sarà invece dedicata a una session di videogiochi curata da Marco Caizzi. Anche nel gameing si è portato avanti un discorso speculativo e teorico molto forte e ci sono stati esperimenti veramente radicali, estremi: è l’ultimo mondo che immagineresti coinvolto in un dibattito del genere, ma, a ben pensarci, è uno dei momenti di confronto più diretto con l’esperienza tecnologica. Quindi ci saranno molti giochi messi a disposizione per far conoscere questa esperienza. Poi ci sarà anche tutta una parte di materiali video provenienti dal serbatoio dell’arte contemporanea: Lawrence Lek, #Additivism, Laboria Cuboniks e anche Hyperstation, un film di Armen Avanessian e Christopher Roth che è stato un primo tentativo, datato 2016, di documentarizzare questo dibattuto all’incrocio tra arte contemporanea, filosofia e attivismo politico.

 

*Intervista pubblicata su Zero. Titolo originale: Interregno: manifesto per un festival accelerazionista