DIRITTI
Il reato di tortura è finalmente legge, ma sembra proteggere i carnefici più delle vittime
Sulla recente approvazione del reato di tortura, oltra la retorica del governo
Negli ultimi spasmi di questa maledetta legislatura, che non finisce di finire, il Parlamento ha infine votato una legge che introduce il reato di tortura anche in Italia. Così, mentre la legge sul testamento biologico sembra essere già naufragata, mentre la legge sulla legalizzazione della cannabis non pare avere neppure il minimo orizzonte di realizzazione, mentre la legge sullo ius soli si appresta a diventare schifoso campo di contesa elettorale, almeno ad una delle grandi rivendicazioni per lo Stato di diritto in Italia sembra si sia data risposta. Eppure, ancora una volta, si tratta di una risposta misera, contrattata al ribasso, insufficiente, poco efficace, quasi un insulto a tutte le vittime di tortura passate e future, quasi un regalo ai loro carnefici.
La legge approvata prevede l’inserimento nel codice penale di un nuovo articolo 613-bis, che punisce con la reclusione da 4 a 10 anni «chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». Aumenti di pena sono poi previsti in base all’esito della tortura: l’aggravante è di un terzo in caso di lesioni gravi e di metà in caso di lesioni gravissime. Infine, la pena è massima in caso di omicidio derivante dalla tortura «Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell’ergastolo». Ma è proprio nella prima e più importante decisione normativa del reato che emergono gli inghippi più gravi.
In primo luogo, secondo il legislatore italiano, la tortura – per essere qualificata come tale – deve essere commessa tramite una pluralità di condotte, ossia reiterate violenze o minacce o crudeltà. Nel caso in cui invece la sofferenza fisica o il trauma psichico sia causato da un unico atto, da un atto isolato (oppure, più verosimilmente: nel caso in cui in tribunale non si riesca a dimostrare più di una sola condotta), bisognerà dimostrare che esso sia stato particolarmente grave, tanto da essere classificato come inumano e degradante per la dignità della persona: un onere della prova molto maggiore per chi voglia far qualificare il torto subito come tortura.
In secondo luogo, come si legge nella norma, il reato di tortura è ravvisabile soltanto quando la vittima si trovi in uno stato di privazione della libertà personale. A segnalare la natura eccessivamente restrittiva di questa decisione ci hanno pensato, meno di un mese fa, undici magistrati a vario titolo coinvolti nei processi penali legati alle abominevoli nefandezze perpetrate dalle forze dell’ordine a Genova nel luglio 2001. In una lettera indirizzata alla Presidente della Camera, quei magistrati hanno fatto notare che, per come è scritta questa norma, le carneficine della Diaz non sarebbero potute essere riconosciute come torture, in quanto le vittime non si trovavano propriamente in stato di limitazione della libertà personale e neppure in una condizione tale da poter essere ricondotta alla “minorata difesa”.
In terzo luogo, sulla vittima di tortura grava un ulteriore onere, cioè quello di provare la verificabilità del trauma psichico subito, tramite documentazione medica o altro: senza cioè che sia possibile, in tribunale, affidarsi alla consequenzialità logica e auto-evidente tra un certo comportamento (minacce o violenze o crudeltà) e la sofferenza che inevitabilmente ne consegue.
La norma prosegue, prevedendo un aumento di pena – da 5 a 12 anni – nel caso assolutamente più probabile, quello cioè in cui la tortura sia perpetrata da un membro delle forze dell’ordine: «se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio». Una scelta, quest’ultima, decisamente criticata – tra gli altri – dal senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani, che era stato primo firmatario della proposta di legge sul reato di tortura e che ora ne disconosce radicalmente l’esito, alla luce dei grotteschi stravolgimenti cui il testo è stato sottoposto durante il suo lunghissimo iter parlamentare (cinque anni per approvare una legge lunga meno di una pagina). Da ultimo ai microfoni di Radio Onda d’Urto, Manconi ha infatti denunciato come la legislazione italiana su questo punto si sia colpevolmente discostata dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, approvata nel 1984 e ratificata dall’Italia nel 1988, salvo poi non essere mai applicata. Quella Convenzione infatti riconosceva la tortura come reato proprio, ossia come reato tipicamente imputabile ad una particolare categoria di soggetti: ai pubblici ufficiali o a chi svolga un pubblico servizio. Al contrario, la legislazione italiana, appena introdotta, prevede la tortura come un reato generico, perpetrabile da chiunque, e pone come mera aggravante la circostanza che la tortura sia agita da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio.
Si tratta, anche qui, di qualcosa di più che di un semplice cavillo: si tratta del grave rifiuto, da parte del Parlamento, da parte dello Stato, di riconoscere che alcuni reati sono compiuti specificamente dalle forze dell’ordine, e non da chiunque. Significa rifiutarsi di ammettere, anche solo come eventualità (e le previsioni di reati nei codici sono sempre eventualità…), che un poliziotto o un carabiniere possano in quanto tali commettere un reato. Significa continuare a fornire i presupposti teorici e giuridici necessari alla tesi delle mele marce, ossia a quella tesi che mira a disconoscere l’esistenza di un problema strutturale nella selezione, nell’addestramento e nella formazione dei corpi armati di questo Paese, così strutturalmente insofferenti alle più elementari garanzie democratiche. Significa, in ultima analisi, che persino mentre si approva una legge che dovrebbe tutelare le persone dagli abusi in divisa, si continua a prevedere almeno teoricamente la possibilità dell’impunità delle forze dell’ordine, nel modo in cui è stata puntualmente garantita negli ultimi decenni dallo stesso sistema penale, un sistema debole coi forti e forte coi deboli.
Poscritto: la nuova legge sul reato di tortura ha previsto, intervenendo sul testo unico in materia di immigrazione, che «non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani». Al di là del fatto che una simile previsione, almeno sulla carta, è già contenuta nei principi giuridici generali – interni, internazionali ed europei – in tema di diritto d’asilo, c’è comunque da constatare quanto essa palesemente si scontri con la prassi violentemente restrittiva delle Commissioni territoriali per il diritto d’asilo, e soprattutto con le previsioni dei decreti (ormai leggi) Orlando-Minniti, che proprio in questo ambito hanno negato il diritto al ricorso in appello per i migranti che si vedevano rifiutata la richiesta di asilo politico. Come al solito, nella maggioranza piddina, una mano lava l’altra.