PRECARIETÀ
Il paese dei record
La disoccupazione ha raggiunto il suo traguardo storico dal 1977: secondo la stima provvisoria dell’Istat è al 12,7%, mentre quella under 29 è arrivata al 41,6%. E il Governo, intanto, pensa alla legge elettorale migliore per far rieleggere i propri membri
Un risultato “invidiabile” quello ottenuto dall’Italia della crisi economica: la disoccupazione, tema quasi abbandonato dal dibattito pubblico mainstream, ha raggiunto il suo massimo storico dal 1977, anno contrassegnato, non a caso, dall’intensità delle lotte sociali. Impossibile non fare un parallelismo con quegli anni: nel 1976 il governo Andreotti promulgò un pesantissimo programma d’austerity, che produsse, allora come oggi, la macelleria sociale. Numerosi gli scioperi e le proteste, che i sindacati confederali ( in prima fila la Cgil di Luciano Lama), in accordo con il governo Andreotti, cercarono di soffocare. Furono gli anni in cui si consumò lo strappo tra lavoratori e sindacati e nacque invece un duraturo sodalizio con la controparte. Il padrone.
La situazione più drammatica è al Sud, dove la percentuale di chi non trova un lavoro è più che raddoppiata negli ultimi anni. E mentre tutti, a partire dal Governo, continuano a passarsi la palla delle responsabilità (è colpa dei giovani che non s’impegnano e rimangono a casa da mamma e papà, è colpa dei sindacati, è colpa dell’art.18, è colpa degli immigrati, è colpa delle donne che hanno iniziato a lavorare invece di stare con i figli), c’è chi, in questo paese, per colpa del lavoro, muore.
Più di cento, infatti, sono state le persone che nel 2013 si sono tolte la vita per la disperazione di aver perso il proprio posto di lavoro. Uomini e donne che a cinquant’anni si sono sentiti dire che erano “troppo vecchi” per il mercato ma anche “troppo giovani” per la pensione. Persone che sono crollate psicologicamente anche a causa delle pressioni esercitate su di loro dalle istituzioni finanziarie, di cui Equitalia è la prima della fila.
Oltre al danno, accentuato anche da una serie di riforme volte a precarizzare ancora di più le condizioni lavorative ed esistenziali, soprattutto delle fasce giovanili, la classe politica italiana non ha voluto rinunciare alla beffa verso chi già si era visto distruggere il futuro e il presente. Apripista nel 2010 il ministro Renato Brunetta, che promise “una legge che costringesse i ragazzi ad andarsene via di casa a diciotto anni”, per arginare il fenomeno dei bamboccioni che rimanevano fino a trent’anni nella dimora di mamma e papà.
Si è poi unita a lui Elsa Fornero, ministro del lavoro sotto il governo “tecnico” Monti, che ha definito i giovani troppo choosy, schizzinosi, colpevoli di non voler accettare anche il più sfruttato dei lavori. Quando è stato fatto notare alla ministra dalla lacrima facile che milioni di studenti e laureati fanno i camerieri o i commessi nei centri commerciali, mentre sua figlia insegna nello stesso ateneo dei genitori e svolge un lavoro di ricerca medico finanziato dalla San Paolo, di cui lei è stata la vice presidente, non è riuscita a balbettare nulla. La ministra ha però voluto dimostrare che aveva veramente a cuore i giovani studenti e precari: ha introdotto infatti una legge, che stabiliva che gli stage lavorativi non dovessero essere più gratuiti. Il buon esempio è stato dato immediatamente dal ministero dell’Economia che ha emanato un bando per trentaquattro stage, retribuiti un euro l’ora.
Ultimo in ordine di insulti, ma non meno importante, Michel Martone, facoltoso figlio del magistrato Antonio Martone, che definì i giovani che a ventotto anni non si erano ancora laureati, degli sfigati. Poco importa se lavorare otto ore al giorno ti fa andare fuori corso. Se non hai studiato in Inghilterra con i soldi guadagnati col sudore di tuo padre, sei un perdente.
Ed eccoci arrivati oggi alla resa dei conti in un paese allo stremo all’anno sesto della crisi, dove di fronte alla drammaticità delle conseguenze dell’aumento della disoccupazione, la classe politica sembra interessata solo ad approvare quelle norme di legge atte a garantire la propria riproduzione. L’introduzione di misure di welfare, come la garanzia di un reddito per tutti, che potrebbe dare alle persone un livello dignitoso di vita e rendere più difficili le forme di ricatto sul posto di lavoro, non sono minimamente prese in considerazione, se non da qualcuno, e con molti limiti.
C’è chi, come Renzi, propone una riforma del lavoro, dove siano eliminate le già poche tutele dei lavoratori, a partire dall’art.18. Una riforma, dove le aziende siano libere di licenziare indiscriminatamente. “Ebbene, se vogliamo esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea”, diceva Lama nel 1978, in una celebre intervista rilasciata a Eugenio Scalfari. L’odioso motivetto di allora, “lavoratori tirate la cinghia” è ripreso oggi, nel 2014, da quella “sinistra” che ha definitivamente smesso di difendere le classi subalterne. Niente più piantagrane, niente più donne incinte, niente più persone malate che si assentano dal lavoro. Allora basta far finta di piangere i morti, basta far finta di avere intenzione di risolvere il dramma della disoccupazione. Questo è il mare da cui vogliono pescare. È il capitalismo, bellezza.