EUROPA
Grecia, lo Stato si assolve ancora
Assolti tutti gli agenti che in una rappresaglia dopo lo sciopero generale del 5 maggio 2010 devastarono il centro sociale della Rete per i diritti politici e sociali, a Exarchia.
Atene, 5 maggio 2010. Mezzo milione di persone sfilano nelle strade che portano a piazza Syntagma. Protestano contro le misure incluse nel primo memorandum. Il 2 maggio, infatti, UE e FMI hanno trovato l’accordo per “salvare” il paese ellenico. Dieci giorni prima, l’allora premier socialista Papandreou era volato sull’isola di Kastellorizo, per annunciare da un luogo sicuro la richiesta di attivazione del “meccanismo di salvataggio”.
Siamo ai tempi del primo memorandum. Quando le misure di austerità non avevano ancora saccheggiato il paese, fatto schizzare il tasso di suicidi e distrutto pensioni, salari e diritti sociali. Chi era ad Atene in quei giorni racconta di una determinazione comune e diffusa, di massa, a impedire a tutti i costi che quel primo pacchetto di misure anti-sociali diventasse legge e venisse applicato.
Il corteo è enorme. Selvaggio. Gli scontri sono pesanti ed esplodono in diversi punti. La folla scala alcuni gradini che conducono al Parlamento (all’epoca non c’era ancora la recinzione, poi inserita alla base della scalinata). C’è un sentore che qualcosa di grande possa iniziare. Poi succede un fatto. Viene appiccato il fuoco a una banca. Una delle tante. Ma questa ha delle persone dentro. Il giorno prima gli impiegati avevano ricevuto delle minacce: “se non venite, sarete licenziati”. Si tratta di una filiale della Marfin Egnatia Bank. Tre persone muoiono a causa del fuoco. La sentenza dei media e delle autorità è istantanea: sono stati gli anarchici.
La serie di strane coincidenze intorno all’episodio è lunghissima e troppe sono le incongruenze che riguardano la sua indagine. Questi articoli ne citano alcune: Tre anni dopo sul caso della Marfin Bank; L’uso politico del caso Marfin Bank; Le strane indagini sull’incendio della Marfin Bank.
Nonostante la matrice dell’incendio rimanga ancora oscura e l’unico imputato, un ragazzo anarchico, sembri più il perfetto capro espiatorio che uno degli autori reali del gesto, l’episodio getterà per mesi il movimento in uno stato quasi catatonico, aprendo molte ferite e discussioni interne, congelando quel potenziale di massa che si era riversato nelle strade.
Qui, però, vogliamo raccontare un altro pezzo di quel 5 maggio. Mentre all’interno della Marfin le fiamme bruciano ancora, dal comando centrale della polizia arriva via radio un ordine a tutte le unità: attaccare Exarchia. MAT e Delta (le unità motorizzate) invadono il quartiere della sinistra e degli anarchici. “In stile SS”, sostiene qualcuno: perché come i colleghi tedeschi colpiscono a casaccio chiunque si trovino di fronte. Sfondano i vetri dei bar. Invadono la casa di una donna che dal balcone grida di fermarsi. La pestano nel suo appartamento. Sgomberano l’occupazione “Zaimi”. È una rappresaglia che vuole dare il colpo di grazia a chi è sceso in piazza ed è già tramortito dalla notizia della Marfin. È una rappresaglia che ha un significato politico: colpirli tutti, indiscriminatamente, per dire che tutti sono colpevoli. È una rappresaglia che nasconde una vendetta nella vendetta.
Un gruppo di Delta, in sella alle loro moto e vestiti di blu, si dirige verso un centro sociale situato in via Tsamadou: sono gli uffici del Dyktio (Rete per i diritti politici e sociali). Sanno che non sono anarchici, ma li accusano di essere vicini ai terroristi perché lottano per i diritti dei prigionieri politici. L’avvocato degli attivisti, Ioanna Kurtovic, racconta che “nelle registrazioni delle comunicazioni tra centrali e unità Delta risulta l’ordine a tutte le squadre di Atene di riversarsi a Exarchia e fare piazza pulita. La squadra che devasta il Dyktio, invece, per diversi minuti non risponde alle chiamate della centrale. Sono i minuti del raid all’interno dei locali”. Alcuni testimoni raccontano come i diversi poliziotti si muovano senza fiatare, senza comunicare tra loro, “quasi sapendo esattamente cosa fare”. Questo assalto, a differenza dello sgombero di Zaimi, non è stato ordinato da nessun giudice. Non esiste mandato. Sembra che i poliziotti abbiano semplicemente approfittato del fatto che il quartiere era sotto assedio.
Entrano negli uffici, distruggono tutto quello che possono. Librerie, sedie, tavoli. Strappano e rubano gli striscioni. Mandano in frantumi finestre e porte a vetri. Dietro a una di queste c’è una ragazza che prova a proteggersi con le mani. Per un miracolo i vetri non le tagliano la faccia o la gola, ma soltanto le braccia. Le urla fanno accorrere altri attivisti dall’edificio adiacente, lo Steki metanaston, il “circolo per immigrati” che fa parte dello stesso centro sociale.
Riescono a prendere le targhe delle moto e sporgono denuncia. I dieci poliziotti dell’unità Delta – ora abolita dal governo Syriza – vengono accusati di tre reati: lesioni aggravate; violazione di domicilio; danneggiamento. Durante il processo ripetono tutti la stessa versione: non siamo mai entrati nell’edificio; eravamo là fuori; delle persone con il passamontagna ci hanno aggredito; hanno provato a portare dentro uno di noi; siamo intervenuti per salvarlo, recuperandolo all’ingresso del palazzo.
Dopo l’assoluzione in primo grado, il procuratore – e non le vittime, che non ne hanno diritto secondo l’ordinamento greco – fa appello. Mercoledì 21 dicembre 2015 arriva la seconda assoluzione. Come in primo grado, il giudice sostiene che non ci sono prove evidenti dell’attacco e che “non è possibile che un ufficiale di polizia agisca in quel modo”. Viene dunque accolta la tesi della difesa, secondo cui sono gli attivisti stessi ad aver distrutto i locali del centro sociale per accusare la polizia, perché “sono amici dei terroristi e odiano le guardie”. Rimane invece il mistero su come sia stata ferita la ragazza. A meno di voler attribuire anche questo fatto ai suoi amici e compagni.
L’avvocato Kurtovick si dice sorpresa di questa sentenza, alla luce di uno svolgimento processuale che era apparso corretto e favorevole ai suoi assistiti. Del resto, sottolinea come anche in Grecia le sentenze di condanna dei poliziotti siano rarissime. Anche per fatti gravissimi, che implicano episodi di tortura, le già poche condanne in primo grado vengono tendenzialmente revocate in secondo. E comunque la responsabilità viene attribuita sempre e solo a “comportamenti individuali”, a delle mele marce che non avrebbero nulla a che vedere con la struttura e l’organizzazione delle forze di polizia.
Insomma, i governi cambiano, ma la solidarietà tra gli apparati dello Stato resta. “Soprattutto quando alla sbarra finisce chi combatte i movimenti”, commenta un testimone dei fatti.
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