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MONDO
Diego Sztulwark: Cosa accade con il governo Macri? Le sfide politiche in Argentina
La seconda parte della conversazione con Diego Sztulwark, redattore di Lobo Suelto! e di Tinta Limon: la repressione di Stato per disarticolare i movimenti sociali, la retorica della meritocrazia contro l’uguaglianza, la politica culturale e le nuove sfide delle lotte sociali
La seconda parte di una lunga intervista a Diego Sztulwark, la prima parte dedicata all’approfondimento delle micro e macro politiche neoliberali e all’analisi dei processi che hanno portato al governo Macri.
In una intervista immediatamente successiva alle elezioni hai definito il governo Macri come espressione della continuità nel tempo del progetto politico della dittatura, un tema su cui in tanti sono tornati a riflettere in particolare rispetto alla politica economica. Riemerge con forza quel progetto che Walsh aveva definito il peggior crimine della dittatura, ovvero “la miseria pianificata di milioni di persone” come obiettivo centrale del neoliberismo. Per aprire la strada a questa miseria, occorre fronteggiare le organizzazioni popolari che negli anni hanno acquisito forza territoriale, aperto spazi di autonomia e costruito sperimentazioni innovative di relazioni con lo stato e con la governance kirchnerista.
Vorrei chiederti a tal proposito di approfondire alcune questioni che riguardano l’attacco portato avanti in questi dieci mesi nei confronti delle esperienze di autorganizzazione della società e dei settori popolari. Repressioni contrro i lavoratori in lotta, sgomberi di fabbriche recuperate, intimidazioni poliziesche e azioni paramilitari contro giornali autogestiticome Tiempo Argentino, violenze poliziesche contro i settori urbani più poveri, sgomberi di case e di terre occupate. Un caso emblematico è quello della Tupac Amaru, storica organizzazione di Jujuy la cui leader Milagro Sala si trova in carcere da quasi nove mesi in condizioni molto dure, esposta ad una vera e propria persecuzione politica. Poche settimane fa invece ci siamo trovati di fronte ad un altro dei momenti emblematici rispetto alla persecuzione politica delle opposizioni, con il tentativo di arresto di Hebe de Bonafini leader delle Madres de Plaza de Mayo ad inizio del mese di Agosto. Cosa sta accadendo?
Quando Macri arriva al potere comincia fin da subito una sistematica offensiva contro le grandi organizzazioni sociali del paese. Il primo caso, tra i più eclatanti, è sicuramente quello di Milagro Sala, donna indigena e leader della Tupac Amaru, arrestata dalla polizia senza alcuna accusa né alcun ordine di arresto, si tratta di fatto di un vero e proprio sequestro. Solo dopo diverse settimane di detenzione in condizioni molto dure si cominciano a formulare delle accuse concrete. Uno scandalo enorme, ma la detenzione continua nonostante le campagne politiche per la sua liberazione. La Tupac Amaru è una tra le più grandi organizzazioni sociali del paese, radicata particolarmente nella provincia di Jujuy. Alle ultime elezioni della provincia di Jujuy il macrismo vince con venti punti percentuali in più, di fatto la classe media vota contro la politica del kirchnerismo e della stessa forma di organizzazione dei poveri portata avanti dalla Tupac. In questo contesto si scatena l’offensiva repressiva che non accenna a fermarsi. La Tupac Amaru è una esperienza che nasce come esperienza autonoma di movimento ed entra poi in contatto con la Centrale alternativa dei lavoratori, la CTA, negli anni successivi si relaziona con il governo e ottiene finanziamenti statali, gestisce la costruzione di case, diventa una realtà molto importante nella provincia. Siamo davanti ad una smobilitazione violenta di tutte le forme di appropriazione di fondi pubblici da parte delle esperienze di militanza kirchnerista e non solo.
Per quanto riguarda Hebe de Bonafini, abbiamo scritto su Lobo Suelto! una riflessione subito dopo i fatti, cercando di rendere conto in poche righe di questioni enormi che riguardano il passato, il presente e il futuro politico dell’Argentina. Ci siamo interrogati su quale fosse l’obiettivo di chi ha cercato di arrestare Hebe de Bonafini, convinti che scommettesse con forza sul potere delle immagini per cercare di farla finita con una fase storica: quella degli anni settanta? La lotta per la memoria degli anni ottanta e novanta? Quella del 2001? Quella kirchnerista? Quella della nascente resistenza al macrismo? In un qualche modo con tutte queste cose. Perché Hebe ha impedito che queste diverse fasi storiche fossero isolate l’una dall’altra. Il suo modo di attraversare il tempo è davvero eccezionale. In questo senso possiamo leggere le sue parole dopo il tentativo di arresto “Non misuro mai le conseguenze delle mie azioni. Per me la cosa più importante sono le vite e l’onore dei miei figli e dei 30mila desaparecidos”.
Abbiamo scritto che lo Stato, proprio quello che ha commesso un genocidio, non ha alcuna autorità sulle Madres che si sono conquistate una dolorosa e commovente legittimità: continuano ad essere testimoni della giusta eccezione, quella che antepone la legittimità alla legalità. Queste sono cose fanno uscire di testa le varie destre, che vorrebbero occupare questo spazio oltre la legge con un Dio patriarcale o un Guru delle finanze, ma mai con una madre che lotta per quello che hanno fatto ai suoi figli militanti. Perché è esattamente la materialità della lotta delle madri quello che vogliono sconfiggere. Perchè con la loro forza mossa dalla giustizia, sono capaci di mobilitare molto più di quello che può fare il kirchnerismo o le sinistre. Le Madres de la Plaza de Mayo hanno messo in gioco, dal 1977 ad oggi, il più radicale dei principi di sovranità: quello composto dai corpi vivi, capaci di lottare contro il terrore e lo sfruttamento che vogliono negarne l’esistenza. Senza questa materialità viva, principio politico elementare eppure fondamentale, la democrazia non ha senso.
Se nella retorica anti-corruzione possiamo leggere un attacco alla redistribuzione sociale della ricchezza, anche attraverso questa offensiva politica contro le organizzazioni sociali e dei diritti umani, assistiamo oggi più in generale alla chiusura e allo smantellamento di spazi di critica, istituzioni della cultura, programmi di ricerca e in generale spazi di autonomia e di libertà che si erano aperti in questi anni.
In generale siamo davanti ad uno smantellamento progressivo di tutte le organizzazioni per i diritti umani che operano nei più svariati campi. Penso ad esempio alla Banca Centrale, o alla Banca della Nazione, i cui programmi di ricerca sono stati fondamentali per trovare le prove da utilizzare nei processi che riguardano i complici della dittatura militare, in cui vi sono ancora decine e decine di persone imputate per il reato di lesa umanità. Questi programmi di ricerca non solo hanno procurato le prove contro i militari ai giudici, ma hanno anche garantito la possibilità di aprire nuovi campi di indagine giudiziaria relativi alle responsabilità degli imprenditori e dei potentati economici e alla complicità con la dittatura militare. Si tratta di linee di ricerca che avrebbero potuto rendere possibile, se non fossero state brutalmente interrotte, la creazione di nuovi meccanismi istituzionali capaci di difendere la società dal potere finanziario, dalla cosiddetta “dittatura della finanza”. Tutto ciò è stato smantellato, hanno licenziato chi ci lavorava, chiuso i programmi.
Un altro caso riguarda la legge sui media, una legge piena di limiti ma di certo un avanzamento enorme rispetto alla legge precedente, imposta dalla dittatura. Una legge che puntava ad impedire grandi concentrazioni di monopolio mediatico, che limitava in una certa forma lo strapotere del gruppo Clarín, una legge votata dalla maggioranza di senatori e parlamentari per cui è stato creato un organo apposito, l’ AFSCA, che avrebbe gestito i finanziamenti alle radio comunitarie, alle televisioni popolari. La Corte Suprema ha cercato di rallentare tutte le misure di applicazione, e adesso il nuovo governo ha smantellato l’organo incaricato di applicare la legge, non si è nemmeno tornato a discutere della legge, si è semplicemente deciso di chiudere l’organo che l’avrebbe dovuta applicare, di non applicare la legge e basta. E adesso la questione è in mano ai tribunali internazionali. Sono state smantellate aree di sostegno alle politiche educative, alla salute mentale, in qualche modo tutti gli spazi interessanti che realmente hanno reso differente il kirchnerismo da altri governi, tutti quegli spazi di permeabilità rispetto a settori di militanza e di lotta che si erano creati negli anni. Questo generale retrocesso in tutti questi settori è espressione chiara dell’egemonia neoliberale nel paese.
Il caso della biblioteca nazionale è emblematico in questo senso: cosa è accaduto e quali spazi sono stati chiusi dal governo? Recentemente in un pamphlet presentato alla scorsa Fiera del Libro di Buenos Aires intitolato “Macri è la cultura” come collettivo avete parlato di banalizzazione della cultura. Cosa vuol dire più in generale parlare oggi di politica culturale sotto il governo Macri?
Innanzitutto va segnalato come la Biblioteca Nazionale sotto la gestione di Horacio Gonzalez sia stata davvero un caso esemplare. Horacio ha saputo costruire una vera e propria istituzione libertaria all’interno dello Stato, un caso emblematico e paradossale al tempo stesso. Dico libertaria perché non solo tutti i settori politici potevano usare quello spazio e attivare politiche culturali, ma anche perché le pubblicazioni hanno dato spazio e dignità pubblica al pensiero anarchico, trotzkista, peronista radicale, alle opere complete di León Rozichner, ha pubblicato la riedizione di collane di libri e autori cancellate o rimosse dalla dittatura, penso alle opere di Roberto Carri, a riviste importanti come “Passato e presente”, tutta la memoria distrutta dalla repressione è stata rielaborata e pubblicata dalla collana della Biblioteca Nazionale, la Mostra della Parola con tante opere, una grande partecipazione aperta del mondo della cultura critica ed eterodossa, alla creazione di una rivista ufficiale della biblioteca in questo stile. Tutto questo è stato chiuso dal macrismo. La politica culturale è oggi tornare ad una lettura incentrata sulla centralità del Borges più liberale, meno ironico, quello che meno problematizza le questioni sociali. La Biblioteca Nazionale adesso sceglie di non problematizzare le politiche editoriali, dà spazio solo ad intellettuali conosciuti all’estero, edita le riviste in base al modello europeo. Si punta alla digitalizzazione senza porsi il problema di mantenere le specificità dello spagnolo che si parla e si scrive qui, viene di fatto smantellata la cultura popolare. Si tratta dell’adeguamento ad un processo di docilizzazione della cultura: l’idea di base è che per avere fondi bisogna rivolgersi alle grandi imprese, che la cultura sia al servizio del mercato. Si tratta di ciò che abbiamo chiamato banalizzazione della cultura, ovvero ad una riduzione della complessità sociale e politica a tre principali elementi, che sarebbero la fede, l’impresa e la polizia. Con questi tre elementi si organizzano complessivamente le risposte che si devono dare alla società: se gli unici problemi sono la corruzione, l’assenza di sicurezza, l’eccessiva politicizzazione (ovvero una diffusa coscienza critica) allora il significante principale di questo processo è il “sinceramiento”, cioè affermare con schiettezza che la volontà politica è solo una bugia, che l’uguaglianza non arriva mai, che quindi bisogna rendere a loro modo “sincere ed oneste” ovvero, secondo la loro idea di sincereità ed onestà, semplificare le complessità del mondo.
Emerge come centrale in questo contesto il discorso della meritocrazia come strumento ideologico del neoliberismo, che torna con forza al centro del discorso pubblico nei media e dalle voci dei ministri in Argentina. Si tratta di un discorso esplicitamente contrario alla richiesta di uguaglianza di opportunità. Un discorso pedagogico che dalla scuola e dalle università coinvolge appieno tanto il lavoro nel settore pubblico quanto in generale altri settori sociali e funziona come dispositivo di disciplinamento. In questo senso il discorso meritocratico si estende arrivando a chiamare in causa il finanziamento e le forme del riconoscimento di tutte quelle forme di lavoro cooperativo ed autogestito, di pratiche educative, di sperimentazioni e di modalità di organizzare il sociale e la vita in comune nate dalle lotte degli ultimi decenni e che possiamo definire come quel mondo articolato e complesso delle economie popolari. Cosa accade in questo campo con il governo Macri?
Dovremmo ricostruire la sequenza: attorno al 2001 si conclude un ciclo di lotte che con il Collettivo Situaciones abbiamo chiamato soggettività della crisi, quelle soggettività che contaminano la società, definiscono capacità collettive di elaborare strategie e dare risposte ai problemi causati dalla crisi. Penso che tutte queste esperienze abbiano attirato tanto interesse a livello mondiale in quanto sono stati fucina di invenzione di strategie e forme organizzative, di modi di vivere gli spazi e produrre la città, di sperimentare nuove forme di economia, reinventare i processi di insegnamento/apprendimento e la produzione di conoscenza. Alcune di queste hanno creato spazi di organizzazione permanenti che si sono sviluppati e sono cresciuti negli anni, come le scuole popolari, le fabbriche recuperate, mantenendosi nel tempo e aprendo nuovi spazi, altre possiamo definirle piuttosto come capacità di un saper fare che torna e ritorna in campi e ambiti differenti.
Il kirchnerismo al governo ha definito la crisi come una pagina negativa, e la soluzione alla crisi proposta come una sostituzione. Si è trattato di fatto di sostituire alla potenza di queste soggettività della crisi l’idea di inclusione, che è sempre una idea interessante nel senso che smuove nella società un certo spirito di riparazione, di attenzione agli esclusi, riconoscimento dell’altro, di chi sta peggio di te. Lo Stato ha cominciato a prendersi carico di questioni e settori sociali di cui non si era mai occupato, come i diritti umani. Si è messo però in moto un inconscio coloniale, assieme a questa mano tesa all’altro, al riconoscimento delle ingiustizie che lo Stato argentino aveva ereditato e continuava a produrre, non vi è stata una messa in discussione dello spazio dell’inclusione, ma solamente una sua affermazione, senza una messa in crisi delle forme di quello spazio di inclusione, quello spazio a cui si invitano gli esclusi a partecipare. L’orgoglio di una economia recuperata, di un paese recuperato, di un capitalismo nazionale produttivo, di un capitalismo “serio”, di uno spazio immaginario, che è sempre lo stesso spazio rivendicato dal peronismo, ovvero quello di uno Stato capace di includere tutti attraverso il lavoro, e infine di un’idea del lavoro molto convenzionale. Accanto a questa postura troviamo anche l’idea che l’altro (il povero, l’escluso) possa sempre essere incluso in modo subalterno, in quanto vittima, indentificandolo in base a ciò di cui è mancante, in quanto persona esclusa, disoccupata, che ha bisogno di un sussidio o di una inclusione subordinata. Si tratta di uno spazio, anche mentale, che non consente di creare nuove categorie, che non si pone le domande che ci ponevamo tutti durante la crisi, come per esempio chiedersi cosa vuol dire lavoro per tutti quando non siamo più nell’era del pieno impiego, cosa vuol dire un protagonismo popolare che non rientra nelle categorie di due decenni fa, e dunque come creare nuove categorie che disegnino una nuova mappa sociale e politica.
Invece di cercare queste nuove categorie si è preferito invitare tutti ad entrare in una mappa precedentemente definita, in forma molto precaria, semplificata. Seppure si sono dati certamente dispositivi di inclusione interessanti, inclusivi rispetto alle forme precedenti di brutale esclusione, così come momenti di dialogo, mobilitazione e partecipazione sociale e militante inediti in questo paese, il limite fondamentale di tale inclusione è stata a mio avviso quel suo aspetto normalizzatore, che ha ridato spazio a micropolitiche neoliberali che alla lunga hanno determinato la situazione politica attuale. Si è definito un meccanismo di inclusione attraverso il consumo, senza mai mettere in discussione le forme del consumo: non si è mai riflettuto sul fatto che gli inclusi siano una forza sociale e politica capace di prendere posizione, decidere come si produce e come si consuma. Non si è voluto mettere in discussione la struttura del consumo. Entrando in questo spazio di inclusione si può solo accettare o rifiutare il consumo così come è. Siamo stati tutti d’accordo che il consumo, dopo quello che abbiamo vissuto nei decenni passati, doveva essere garantito in misura maggiore alle classi popolari, ma non c’è stata la capacità di approfittare di questa grande mobilitazione che ha coinvolto la società per mettere in discussione qualcosa che non fosse solo l’autorità politica, quanto piuttosto l’ambito stesso del consumo.
Proprio rispetto al tema del consumo, il vice presidente della Bolivia Alvaro Garcia Linera ha parlato il mese scorso nella facoltà di Scienze Sociali qui a Buenos Aires, facendo esplicitamente autocritica rispetto alle esperienze dei governi progressisti in America Latina ed individuando quello relativo al consumo come uno dei limiti principali delle politiche dei governi progressisti a livello continentale. Cosa ne pensi?
Le parole di Alvaro Garcia Linera sono a mio modo di vedere parzialmente interessante e parzialmente no. Mi spiego meglio: per la prima volta un esponente importante di un governo afferma esplicitamente che questi governi non hanno la capacità di comprendere i processi sociali relativi alle mutazioni della soggettività sotto il loro stesso governo. Mi sembra un passo avanti molto importante, perchè nessun altro governo si è mai chiesto cosa fosse accaduto con tutte quelle persone che sono state incluse grazie alle politiche progressiste. Gli inclusi, coloro che hanno ottenuto benefici (pensati sempre e solo come i nuovi beneficiari), la nuova classe media, hanno sviluppato un habitus, hanno un rapporto con la politica che i governi progressisti non hanno saputo interpretare. Quel che appare come certo è il limite della teoria politica, che Linera è il primo che lo riconosce in quanto grande intellettuale. D’altra parte mi sembra un discorso molto limitato, una sorta di giustificazione di ciò che è stato senza rimettere in gioco le categorie pregresse per crearne di nuove. Dunque, cosa faranno di nuovo oggi questi governi? Attendo di vedere se accadrà qualcosa di diverso da adesso in avanti.
Dato che parli dell’inclusione come di uno spazio a cui i poveri e gli esclusi sono stati “invitati” ad essere parte, mi viene in mente una immagine particolare che ha molto circolato in questi mesi, quella di una scritta su un muro che diceva “Macri è la festa a cui non sarai mai invitato”. Cosa succede oggi con i soggetti inclusi che tornano pericolosamente al bordo dell’esclusione? Cosa accade con le lotte sociali nel paese?
Penso che le micropolitiche neoliberali durante i governi progressisti siano proliferate e abbiano avuto un effetto di soggettivazione profondo determinando le mutazioni del paesaggio continentale. L’accesso al consumo ha soggettivato più delle retoriche politiche: non aver messo in discussione, nel momento in cui si accedeva al consumo, il modello della felicità, è diventato letale per questi governi che hanno adottato una retorica del tipo “non ti ho dato tutto questo perché diventi un piccolo borghese, ma perché tu faccia rinascere dalla storia un popolo mitico”. Il problema è che in questo popolo mitico non crede ormai più nessuno. Tutti si soggettivano attraverso il consumo e gli oggetti del consumo, e le retoriche della politica diventano impotenti di fronte a questo processo. Tornando all’Argentina, io credo che una parte importante del paese continui a ringraziare veramente Cristina per queste politiche, infatti la accompagna e la segue ovunque, come per esempio il 13 aprile quando oltre duecentomila persone hanno partecipato ad una delle cinque grandi mobilitazioni contro Macri, accompagnando Cristina quando è andata a testimoniare in tribunale. Erano in tanti a difendere l’accesso al consumo, l’inclusione, i diritti umani, in tantissimi venuti dai quartieri popolari, perché c’è ancora molto da difendere dal punto di vista simbolico.
Un’altra grande mobilitazione è stata quella del 24 marzo, in occasione del quarantennale del colpo di stato, e della visita di Obama, poi c’è stata anche la grande manifestazione del 29 aprile in cui si sono ritrovati tutti i sindacati che, mentre si avviano verso la riunificazione, fatto molto importante per la politica argentina, chiedevano al governo di rinegoziare gli adeguamenti salariali all’inflazione e di non calpestare i diritti dei lavoratori. C’è stata la grandissima manifestazione femminista autorganizzata di massa di Ni Una Menos che ha inondato le strade di tutto il paese, c’è stata la gigantesca manifestazione universitaria. Non sono mobilitazioni capaci di definire l’agenda pubblica, si tratta di attori organizzati che provengono dal periodo precedente che cercano di determinare lo scenario politico, ma non mi pare che si muova molto più di ciò che era già organizzato politicamente, non si è mossa fino ad ora una dimensione più ampia nella società. Secondo me è davvero una situazione interessante, perché queste esperienze sono una risorsa disponibile per le lotte, ma da sole non hanno la capacità di modificare la politica del governo, seppure possono essere capaci di elaborare alternative, hanno bisogno di una forza che le ecceda. Ma riflettiamo anche attorno a cosa c’è di comune tra queste mobilitazioni: cosa hanno in comune la manifestazione Ni Una Menos con il corteo della CGT? Io non vedo nulla di più distante tra le due piazze. Cosa c’è di comune tra queste e il 24 marzo, o tra questa e chi era in piazza con Cristina? Non si tratta di un blocco politico unitario, ma di un complesso di attori sociali e soggettività differenti che rappresenta un intreccio di reti militanti molto ricche ed importanti, di numeri importanti ed impressionanti, ma non sufficienti al momento per fermare il governo. Non mi sembra siamo riusciti a fermare le misure principali e fondamentali del governo di Macri fino adesso.
Guardiamo alle questioni centrali: la principale questione politica di questi mesi è stata quella relativa all’ indebitamento pubblico, misura che è stata anche appoggiata dal peronismo. A parte Cristina e la (ormai piccola) parte di deputati e senatori che la sostengono, tutti gli altri hanno votato a favore. I sindaci e i governatori vogliono questi fondi per finanziare le politiche locali, i movimenti sociali e le economie popolari in parte ricevono finanziamenti in questo modo, i sindacati dipendono da questi fondi per l’adeguamento salariale. Si sta giocando una forma di governance nuova, la vedo molto complessa, e anche se definire schematicamente le questioni è molto complicato, il tipo di povertà che si sta definendo mi fa pensare più ad una implosione sociale che una esplosione sociale, non mi sembra che siamo davanti ad un nuovo 2001. Il governo sta cercando di inventare una nuova mediazione sociale che non passi per il peronismo: si tratta di un fatto politico nuovo, inedito in Argentina. Si cerca di riconvertire la società in termini di logiche di investimenti e mercato, e non di diritti e cittadinanza. Per fare questo il discorso attorno alla questione della corruzione e il suo portato politico è decisivo, dato che gli unici oppositori di questo modello sono i kirchneristi, che oggi appaiono in televisione come un gruppo di persone impegnato a testimoniare e difendersi in tribunale per evitare di finire in carcere.
Macri è un nemico assoluto e sta portando avanti un esperimento pericoloso per l’Argentina e per tutta l’America Latina, perché a differenza del Brasile ciò che sta accadendo qui è apparentemente legale dal punto di vista democratico formale. Il PRO è un partito politico nato nel 2001, non è un vecchio partito politico anacronistico, è un partito che nasce dalla crisi del radicalismo e segna l’interpretazione neoliberale dei fatti del 2001, un partito di imprenditori, chiesa, volontariato, ONG, un partito che vuole recuperare lo Stato attraverso la critica della classe politica come classe corrotta. Fa una lettura liberale del 2001, totalmente opposta a quella del kirchnerismo, o a quella che abbiamo fatto come movimenti. Macri potrà sopravvivere solamente nel caso in cui ottenga un risultato ben preciso, ovvero normalizzare la società: l’Argentina è un paese che si può prestare a questa normalizzazione? Non credo del tutto, né per tanto tempo. Ma il fatto che si cerchi di imporre una certa docilità rispetto alle imposizioni del mercato mondiale mi sembra evidente, ed è un processo che sta avanzando fortemente nel paese già in questi mesi.
In generale credo che la meritocrazia sia lo strumento ideologico più adeguato per questa offensiva che ha l’obiettivo di rendere tutti docili al comando neoliberale. Cosa diventa l’uguaglianza in questo contesto se seguiamo il loro discorso? Quella di avere tutti quanti la garanzia che nessun “mafioso o ladrone” ti rubi ciò che è tuo! Una ideologia secondo la quale se il ricco è ricco lo è per meriti suoi, ha ricevuto un meritato premio per il suo sforzo individuale, e se nessuno pone limiti alla tua possibilità di arricchirti, anche tu povero puoi tentare questa strada, ognuno potenzialmente potrebbe diventare ricco, è questa la morale. In questo discorso scompare la questione della giustizia sociale e trionfa l’individualismo. Facciamo un esempio: il kirchnerismo ha flirtato con l’idea che il capitalismo è in qualche modo ingiusto e che la memoria, i diritti e l’uguaglianza siano strumenti di lotta politica. Con il macrismo emerge chiaramente in primo piano la dimensione coloniale e capitalista del modello di società. Il Macrismo esprime a chiare lettere ciò che ogni capitalista dentro di sé sa benissimo: che il capitalismo è in sé una denuncia dell’uguaglianza, in quanto ciò che afferma è essenzialmente il fatto che non tutti possiamo essere uguali.
In questo senso torna la questione della banalizzazione del discorso e della cultura, intesa come tentativo di imporre l’impossibilità della critica del capitalismo e delle sue logiche. Come è possibile invece tornare in tale contesto a mobilitarsi e a denunciare le conseguenze nefaste delle politiche neoliberali? Cosa non ha funzionato del discorso precedente attorno all’uguaglianza e come possiamo a tornare a pensare una alternativa?
Il kirchnerismo ci lascia come bilancio l’assenza di un nuovo processo, post 2001, di messa in discussione dei meccanismi di sfruttamento nella società. Il macrismo sembra affermare che ci saranno sempre ricchi e poveri, ma che i “cosiddetti” poveri possono migliorare la propria condizione attraverso l’ideologia imprenditoriale, e i ricchi saranno al loro fianco in questo processo. Accade così, anche se è difficile da comprendere, che i ricchi e i poveri possano entrambi identificarsi in nozioni come onestà, progresso, senza identificarsi più nella politica, vista come retorica o come appannaggio di una casta. I settori popolari hanno ricevuto fondi e benefici e hanno visto migliorare di molto la loro condizione, ma non sono usciti fino in fondo dalla miseria strutturale, le profonde diseguaglianze della società non sono state intaccate, così come non sono state modificate strutturalmente le gerarchie di classe. Immagina di trovarti in un quartiere popolare: tutti i giorni vengono a dirti “un giorno saremo tutti uguali” ma l’uguaglianza non arriva mai. Chi viene a parlarti di uguaglianza nei quartieri arriva con la sua macchina, ha dei buoni vestiti, vive la politica come una passione e come una tappa di ascesa sociale: quando nei quartieri popolari chiedono più polizia perché rubano davanti casa tua o spacciano, la risposta è che si tratta di una misura di destra, mentre occorre difendere i diritti umani, ma il povero sta chiedendo la garanzia della sicurezza della proprietà. La differenza sta tutta qui: c’è chi ha garantita la sicurezza della proprietà e chi no. C’è un malinteso di fondo in questo discorso, ed è dovuto al fatto che il kirchnerismo non è stato capace di gestire gli antagonismi nati all’interno del suo stesso modello di sviluppo e accumulazione, non ha saputo o potuto, anche per motivi strutturali, radicalizzare questo processo, e il macrismo ha capitalizzato dal punto di vista reazionario questo malessere, articolando e connettendo tra loro le mutazioni sociali avvenute durante il kirchnerismo nel modo più reazionario possibile.
Il punto principale però mi sembra il fatto che ci manca oggi una nuova teoria politica, perchè non è più sufficiente, da anni, l’autonomia del 2001 nè tantomeno il populismo kirchnerista. Come rispondiamo alle seguenti domande è oggi questione centrale: come si prendono oggi decisioni politiche? Come si costruisce organizzazione collettiva e si rilanciano le lotte? Come si ferma l’avanzata del macrismo? Qui mi sembra sia il cuore del problema, perché il kirchnerismo è impegnato oggi a difendere la propria memoria, i diritti ottenuti, cercando di non farsi strappare tutto in pochi mesi e ci troviamo quindi in una situazione di impasse, inerzia, non si riesce ad andare oltre la teoria politica kirchnerista anche se oggi non è più produttiva politicamente. Come si possono legare nuove lotte, creare nuove forme di organizzazione, fare una analisi della società che renda conto delle trasformazioni e delle forme di vita attuali? E’ necessaria una mappa nuova per orientarsi e rilanciare la lotta politica, crearla è la sfida di questo secondo semestre per i movimenti.
Come è possibile in tali condizioni inventare delle pratiche di resistenza efficaci? Come si inserisce questa situazione in un contesto in radicale mutamento come quello regionale latinoamericano?
Ci troviamo in un contesto complesso, c’è la crisi in Brasile che è la più drammatica, ma è drammatica anche la situazione venezuelana: possiamo dire che le politiche di inclusione e redistribuzione portate avanti dai governi progressisti erano legate ad una fase specifica e strategica legata al particolare momento relativo all’inserimento nel mercato mondiale delle economie latinoamericane e al prezzo delle commodities, delle materie prime, del petrolio, della soia, dei beni di esportazione. Mi sembra che questa fase sia finita, e che in America Latina oggi siamo davanti al tentativo di costruire un nuovo modello, un nuovo esperimento di governo della società. Secondo me un dato emblematico di questo nuovo modello è il fatto che sia Papa Francesco il principale portavoce di una opzione non liberale della società latinoamericana, un tentativo di riorganizzare la società che mette la centro la povertà, che si scontra con il neoliberismo, ma che non mette più al centro la capacità di rivolta plebea, la capacità di protagonismo dei poveri nel prendere le decisioni politiche.
Un cambiamento che potremmo sintetizzare con due immagini, che rendono conto delle diverse sensibilità, dei colori e dei volti: quando la dimensione plebea era presente sui volti e nelle sensibilità egemoniche avevamo Kirchner, Chavez, Lula, Maradona che assieme hanno respinto il progetto di Bush del mercato libero americano a Mar del Plata, mentre oggi abbiamo Papa Francisco e Messi. Qualcosa è cambiato nella sensibilità complessiva, nella fase, se la guardiamo a partire da queste immagini che ben ci raccontano quello che accade oggi. Credo che se i governi progressisti non fanno seriamente ciò che Alvaro Garcia Linera ha solo timidamente accennato, ovvero costruire nuove categoria di interpretazione ed azione politica, non hanno futuro: si tratta perlomeno di interrogarsi su tre questioni ovvero lavoro, territorio, finanza. Se non si creano nuove istituzioni ed organizzazioni che possano disattivare alcune delle modalità di dominio della finanza e delle nuove forme di sfruttamento, se non si riesce ad articolare su un nuovo terreno l’inclusione intesa come effettivo avanzamento nella capacità di decisione politica, vedo davanti un periodo duro di sconfitte dei settori progressisti e populisti, in generale di questa teoria politica latinoamericana, e al tempo stesso una fase in cui le destre a livello continentale tenteranno di riprodurre il modello Macri in tutto il continente.
Quello che è interessante oggi è indagare quale nuova teoria politica, intesa come pratica di lotta concreta, emerga dalle lotte nella vita quotidiana dei settori popolari, delle esperienze comunitarie, degli indigeni, dei subalterni, dei poveri, dei lavoratori. Ci troviamo in un contesto segnato pesantemente dalla violenza, una violenza domestica, che permea i quartieri popolari, segnata dal divenire mafioso della polizia, dalla logica narcos che dilaga nei territori, ma a differenza di anni fa la possibilità che questa situazione esploda in forma di nuove lotte politiche di massa, che torni ad imporre un veto al neoliberismo, è secondo me al momento molto bassa.
I governi in America Latina possono anche affermare che dal basso non vengano messe in discussione le politiche pubbliche, ma sappiamo che questo avviene solo perché abbiamo al momento una limitata capacità di intervenire nel dibattito pubblico, perché non siamo ancora capaci di imporre sul terreno pubblico questioni che per adesso implodono nei territori. I processi di distruzione delle relazioni comunitarie e dei legami sociali avvengono oggi all’interno della casa, del quartiere, del territorio, occorre pensare a come imporre queste questioni come problemi politici e sociali sul terreno pubblico, come questioni urgenti sulle quali poter prendere decisioni in comune, imporre nuove soluzioni, trasformarle in lotte che sappiano fermare le politiche di impoverimento di massa del governo. Guardiamo alla campagna Ni Una Menos, che è una mobilitazione straordinaria e moltitudinaria: ancora non si riesce a trovare il modo di rendere efficace ed effettivo questo straordinario protagonismo di donne e ragazze, questa disobbedienza di massa, questa energia, trasformandole in una mediazione sociale capace di modificare le relazioni sociali in contesti segnati da un aumento della violenza patriarcale. Non solo non riusciamo a limitare il governo Macri, ma nemmeno stiamo riuscendo a fermare questo processo di banalizzazione violenta delle relazioni sociali, del lavoro, di genere. Mi sembra che la sfida decisiva oggi riguardi la capacità di articolazione tra macro e micro politica: credo che si giochi molto su questo piano per riaprire nel prossimo futuro spazi di conflitto e di innovazione politica all’altezza della sfida che abbiamo davanti.
Diego Sztulwark fa parte del Collettivo Situaciones ed è editore della casa editrice indipendente Tinta Limón di Buenos Aires e del blog LoboSuelto!.