editoriale
Europa. Invertire la rotta
Affrontare la tematica europea dal punto di vista dei conflitti dei precari e degli studenti
Crediamo sia importante, in questo inizio di 2014 e in questa precisa fase, affrontare radicalmente la tematica europea a partire dal punto di vista di chi, fin dall’inizio di questa crisi economica, ha vissuto una violenta e progressiva contrazione di diritti, reddito e possibilità
Con un’”agenda comunitaria” così fitta (elezioni europee in maggio, semestre italiano di presidenza e vertice sulla disoccupazione giovanile a luglio) non ci resta che ricominciare a parlare di austerità, facendolo però in un’ottica diversa.
I movimenti degli ultimi anni, aprendo un aspro scontro nei confronti dei poteri economico-finanziari, hanno avuto la capacità di individuare nelle banche e nella Troika un nemico comune, tentando di stravolgere la logica definita come incontrovertibile dei governi nazionali, diventati meri attuatori di politiche e di decisioni prese altrove e da altri soggetti.
Restano comunque molto chiare le responsabilità dei governi nel tentativo di attuare vincoli e patti imposti, nel nome di una “sobrietà” che nasconde scelte di politica economica molto chiare. Attacco frontale a welfare, diritti, previdenza, lavoro e salari, università e diritto alla salute, aumento dello sfruttamento e della devastazione dei territori, applicazione di politiche migratorie criminali: sono sempre più evidenti le intenzioni di chi porta avanti questi provvedimenti e soprattutto sono sempre più evidenti le disparità, le disuguaglianze e le incertezze sul futuro di milioni di giovani e precari in tutta Europa, seppur con differenze significative tra i vari Stati.
Impossibile in questo contesto non sottolineare come si stia ridefinendo il processo di integrazione dell’Unione Europea in senso decisamente autoritario, dipinto come irreversibile, tanto sotto il profilo normativo quanto sotto quello della funzione governamentale e capitalistica. Pensiamo, ad esempio, alla ridefinizione in senso sempre più identitario e restrittivo del diritto di cittadinanza europeo, tramite le politiche migratorie xenofobe e securitarie introdotte negli anni ‘00 per regolare i flussi verso l’Europa e nella diversificazione e stratificazione delle garanzie fornite dalla cittadinanza all’interno degli stessi stati membri, in base a prerogative economiche, geografiche e razziali.
La logica sembra essere questa: se il processo d’accumulazione capitalistica, e quindi di espropriazione, ha la necessità di estendersi senza limiti, quale metodo migliore per regolare le tensioni sociali e garantire la stabilità della “ripresa” se non quello di acuire la sensazione di solitudine negli individui che vivono la crisi, scarnificando i diritti e riducendo l’intero sistema welfaristico e le politiche sociali ad efficaci strumenti di gestione governamentale dei corpi e delle esistenze?
Mentre cresce l’euroscetticismo e il disincanto verso l’Europa, alimentando le ipotesi di un ritorno alla sovranità nazionale o di una divisione geopolitica dell’Europa tra un nord ricco governato dalla Germania e un’alleanza dei Paesi più poveri del Sud (i Piigs) come vie d’uscita dalla crisi, c’è invece chi individua nell’Europa tutta il terreno minimo e indispensabile di dibattito e conflitto, di scontro e di aggregazione, per poter abbattere la dittatura della finanza e restituire nelle mani di centinaia di milioni di cittadini il potere di determinare le proprie vite.
Mai il tempo è stato così maturo per intraprendere questa sfida: liberali, economisti, riformisti e socialdemocratici di tutta Europa concordano, pur esprimendo punti di vista differenti, nel ritenere un pericolo troppo grande per la stabilità dell’Unione monetaria un indice di disoccupazione giovanile che nei Piigs fluttua ormai intorno al 50%. Troppo pericoloso perché alimenta le tensioni sociali, per alcuni; troppo pericoloso perché mina la fiducia dei mercati e le possibilità della “ripresa”, per altri.
A noi non resta che affermare ancora una volta che non c’è via d’uscita da questa crisi se non si riconosce una volta per tutte che la cura proposta dalla tecnocrazia europea altro non è che la causa del male stesso.
È necessario affermare che l’austerità e la ridefinizione del mercato del lavoro, nei termini di una precarietà crescente e permanente, non possono che provocare l’aumento della disoccupazione dilagante, della povertà e dell’esclusione.
Gli stessi devastanti effetti si dispiegano nell’ambito della formazione attraverso la privatizzazione degli atenei, la diffusione del numero chiuso e di meccanismi di inclusione differenziale nell’accesso all’istruzione superiore, quindi l individuazione di università per le “eccellenze meritocratiche”, ridotte comunque a una mera appendice funzionale al mercato del lavoro, e distinguendo un sapere di serie A da uno di serie B.
Crediamo anche che parlare di disoccupazione solo in questi termini sia insufficiente: arricchire il quadro e individuare le lotte per il reddito di base, quelle per il salario minimo, quelle contro la precarietà e i diritti di cittadinanza come condizioni comuni, dalla “povera” Grecia alla “ricca” Germania, può aprire un orizzonte fertile per organizzare risposte e alternative all’altezza del momento storico che viviamo.
Affrontare e costruire la primavera che viene con questa consapevolezza significa mettere alla prova una generazione già europea, globalizzata e migrante, facendo della sua “transnazionalità” il nuovo spazio nel quale organizzarsi e riconoscersi; scommettere sulla necessità di dar vita a mobilitazioni direttamente europee che da condizioni e obiettivi comuni sappiano accumulare la forza necessaria a individuare e immediatamente fronteggiare il nemico e, allo stesso tempo, e ad affermare il proprio desiderio, rivoluzionario, la volontà di costruire un nuovo modello di democrazia. Se lo spazio dell’offensiva capitalistica è l’Europa, lo spazio delle resistenze e della controffensiva dei movimenti non può che essere immediatamente continentale!
Oggi, in tutta Europa (e non solo), accanto alle lotte degli studenti, dei precari e dei migranti, riesplodono battaglie sui luoghi di lavoro per l’aumento del salario, da parte di chi perde, o rischia di perdere, insieme al posto di lavoro, tutta una vita (logistica, fabbriche occupate): rivendicare reddito, in questo quadro, significa libertà e autonomia dal ricatto della finanza, significa possibilità di scegliere e non dover piegare la testa di fronte a chi saccheggia e devasta il futuro e il presente di milioni di persone. Rivendicare, contemporaneamente, un salario minimo Europeo, vuol dire non dover accettare le regole che vengono imposte in tutto il continente, come l’esempio dell’Electrolux evidenzia con chiarezza!
Soggetti “invisibili”, volontariamente esclusi da qualsiasi tipo di garanzia e lasciati in uno stato di subalternità che li rende più deboli e sfruttabili, privati dei diritti assoluti affermati solo nelle carte, come i migranti, (intra- o extra- europei), sollevano la propria voce per affermare che la dignità non dipende da un pezzo di carta e per immaginare una cittadinanza europea che non sia la sommatoria di quelle nazionali e che nasca e cresca nelle lotte, legata a doppio filo alla necessità di conquistare forme di welfare universale effettivamente europee. Le rivendicazioni dei migranti di Lampedusa in Hamburg, ad esempio, reclamano la cittadinanza legandola allo stesso tempo al diritto alla casa, all’istruzione e alla sanità per tutti!
Come non considerare, in questo momento storico, la rivendicazione di un reddito, di base e incondizionato, probabilmente uno degli strumenti più efficaci e radicali, in grado di rompere il ricatto del lavoro e la minaccia dell’esclusione sociale e della povertà che incombono sulla vita quotidiana di miliardi di persone? Come non comprendere la necessità di farlo insieme alla richiesta di un salario minimo europeo, che rompa la guerra tra poveri alimentata da chi dentro la crisi continua ad arricchirsi senza freni?
In questo senso, le elezioni europee a Maggio (soprattutto per chi non guarda a questa scadenza come opportunità elettorale), il vertice sulla disoccupazione giovanile di Luglio in Italia, ma anche l’apertura della nuova sede della Banca Centrale Europea in autunno, rappresentano obiettivi concreti per riorganizzare e ricomporre le lotte che da nord a sud, da est a ovest, stanno rappresentando l’ultimo vero baluardo di speranza per un’Europa diversa. Un’Europa di democrazia, di diritti, welfare e beni comuni, di salario e reddito minimi. Un’Europa costruita dal basso con la forza dei movimenti sociali che devono avere l’ambizione di guardare al di là delle barriere nazionali e di fare delle singole lotte territoriali, dalle università alle fabbriche, dalla sanità ai migranti, dai precari ai disoccupati, un progetto transnazionale più ampio e costituente che ridefinisca direttamente lo spazio europeo.
Non è una partita facile, ma i molti appuntamenti e meeting europei degli ultimi mesi (da Amsterdam a Roma, da Francoforte a Marsiglia fino a Lampedusa) ci parlano già di esperienze politiche e di lotte lontane ma analoghe, eterogenee ma desiderose di trovare obiettivi comuni. In questo contesto, a qualche mese dal meeting di Agora99, crediamo che non si possa prescindere dallo sperimentare nuove forme di lotta e ripensare gli strumenti che abbiamo utilizzato finora. Dare vita a campagne che superino i confini nazionali, in grado di far emergere parole d’ordine e rivendicazioni comuni; stringere rapporti transnazionali, immaginando terreni di inchiesta e di ricerca comuni su cui strutturare un lavoro continuativo di mobilitazioni e di produzione culturale e politica autonoma.
La sfida che si pone davanti ai movimenti in questa primavera di lotta e mobilitazione è quella di riprendere, tutti e tutte insieme, il controllo del timone e di invertire la rotta.
Un’altra Europa è possibile!