EUROPA
È guerra civile mondiale?
Mentre in questi giorni abbondano definizioni ed analisi, proviamo ad aprire un dibattito.
Per costruire una possibile risposta politica agli attacchi di Parigi abbiamo la necessità e il dovere di comprenderli, per quanto sia doloroso e difficile.
È guerra, questo è chiaro. E vorremo azzardare di più su questo: è guerra civile mondiale, perché è organizzata direttamente su base transnazionale sia dal fondamentalismo islamico che dai patrioti occidentali, che rispondono nelle proprie società con guerre civili striscianti contro tutti i musulmani, contro tutti i migranti e contro tutti i diversi. Ma è allo stesso tempo guerra civile all’interno degli stati: in Siria, in Turchia con forme più velate, come in Nigeria, in Tunisia, in Kenya… ed è guerra ai confini d’Europa, dove lasciamo che migliaia di rifugiati muoiano pur di non farli arrivare nella nostra “pace”. I migliori patrioti occidentali giocando al peggior gioco lanciato dagli integralisti islamici hanno reso questa guerra civile e permanente, perché l’hanno costruita come scontro religioso e di civiltà, togliendo così qualsiasi umanità al nemico. Così, gli attacchi di Parigi diventano la risposta diretta all’offensiva nel Sinjar, dove, sotto il cappello della Coalizione Internazionale, il PKK curdo insieme ai Peshmerga, con la copertura aerea degli USA e il supporto dal lato siriano da parte delle YPG, ha riconquistato la città da Daesh e tagliato la linea di collegamento principale tra Mosul e Raqqa. È guerra civile e quindi senza regole, così lo stato francese non attende niente e nessuno e bombarda Raqqa, mentre decreta lo stato di emergenza permanente. Eppure nelle guerre civili siamo abituati ad avere uno stato oppressore e dei partigiani che lottano per la libertà, mentre in questa guerra civile mondiale si stenta a comprendere chi non sia oppressore.
Se volessimo ricostruire un discorso di libertà, di uguaglianza e di fratellanza, certo oggi non dovremmo guardare alla Francia e forse nemmeno all’Europa. Ma dovremmo andare a scoprire chi si è organizzato per autodifendersi dagli attacchi del Daesh: i curdi siriani e con loro le varie minoranze oppresse e massacrate dai miliziani del Califfato. Lì nel cuore di questa guerra civile mondiale che è la Siria, i curdi siriani stanno lottando per la loro sopravvivenza, ma soprattutto per costruire un possibile futuro di pace per la Siria e per il Medioriente. Un futuro che non può passare dall’accettazione del regime di Assad, come il male minore nella regione. Ancora, bisognerebbe andare a vedere le manifestazioni avvenute in Iraq pochi mesi fa contro la corruzione e per i diritti, e le manifestazioni in Afghanistan da parte delle minoranze per rivendicare un paese sicuro dove vivere.
In questi giorni molti hanno commentato che dovrebbero essere le “masse islamiche” a piangere per Beirut o per la Siria e loro a ribellarsi contro questo massacro. Non esistono masse islamiche, ma centinaia di giovani di tanti e diversi paesi arabi che nel 2011 sono scesi per strada e hanno spodestato – o provato a spodestare – regimi autoritari che governavano gli stati in maniera privatistica da decenni, con la compiacenza dell’Occidente. In Tunisia, in Egitto, in Bahrein, poi in Libia ed infine in Siria. Cosa è successo a tutti quegli uomini e quelle donne, a quelle speranze di cambiamento? Pensiamo che tutto sia stato semplicemente e ferocemente riassorbito dal fondamentalismo islamico? È con quelle società civili che dobbiamo tornare a riallacciare i fili, con quelle persone che involontariamente hanno dato lo slancio per la costruzione dei movimenti anti-austerity in Europa – ricordiamo, del resto, che senza piazza Tahir non ci sarebbe stata Plaza del Sol.
Così, il primo passo di breve periodo per riallacciare i pezzi e capire che cosa significa la guerra civile mondiale che stiamo vivendo è ripartire da là: dalla controrivoluzione che i petrodollari del golfo hanno armato contro i sogni di libertà – con tutti i suoi significati, da quello più moderato e liberale a quello più rivoluzionario e religioso – che le rivoluzioni arabe hanno espresso. Bisognerebbe riaprire la scatola nera egiziana e guardare che cos’è successo lì, dove centinaia di persone sono state uccise in quelle strade in nome della sicurezza e della laicità dello stato. Ed infine bisognerebbe guardare alla Siria, dove una resistenza civile è stata cancellata e massacrata, lasciandoci di fronte allo scenario di morte e distruzione che abbiamo di fronte oggi.
E il secondo passo, di medio-lungo periodo, ci costringe a guardare più lontano, quando alla fine degli anni ’70 l’egemonia americana scricchiolava ed è stata ricostruita usando la forza militare ed economica, la corruzione e la sussunzione delle possibili idee e gruppi sociali contro-egemonici in tutto il mondo. Con la prima Guerra del golfo, Bush Senior chiariva ai paesi dell’Opec che nessun altro ricatto sul prezzo del petrolio sarebbe più stato tollerato (dopo le due crisi energetiche degli anni ’70). È in questi decenni che un nuovo modo di produzione si sviluppa, il capitalismo si allarga nei servizi, la finanza si espande e la produzione diventa globale. Si struttura in questi decenni un nuovo modo di agire delle organizzazioni internazionali che ha come primo obiettivo la trasformazione istituzionale dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo, o qualsiasi mondo dove l’Occidente – e la sua nuova mano pervasiva che prende il nome di governance – voglia arrivare. Ribellioni, rivolte e leader con idee non allineate vengono uccisi dal Sud America, all’Africa, all’Asia, in nome della pacificazione. Così, con la caduta del blocco sovietico, nessuna alternativa al capitalismo rimane possibile e anche se l’egemonia americana diventa sempre più traballante, non vi è potere globale e regionale che non si fondi sulle premesse del profitto a qualsiasi costo – non la Russia, non la Cina, mentre le possibili alternative del continente sudamericano non riescono ad emergere come poteri globali. E così senza costruzione di possibili alternative contro-egemoniche rimane il fondamentalismo, il terrorismo e la barbarie.
Tiziano Terzani, guardando l’Asia negli anni ’90, scriveva che l’Islam stava diventando la nuova lingua degli oppressi, come lo era stata il comunismo negli anni ’50, ’60 e ’70, e probabilmente come questo non avrebbe mai realizzato i sogni di libertà di cui si faceva portatore. Nella lingua del Daesh, nei suoi gesti, nelle sue azioni, non c’è nessuna liberazione. Qui l’oppressione coloniale è diventata esclusione, che è diventata separazione, che è diventata rigetto, che è diventato odio, che è diventata morte. Al XXI secolo manca una lingua per la libertà, per l’eguaglianza e per la fratellanza.
Migliaia di civili muoiono sotto le bombe americane, poi russe, poi francesi, poi negli attacchi bomba, poi nei raid senza pietà… migliaia di persone ogni giorno continuano a morire, senza vedere nessuna possibile via d’uscita da questa guerra civile mondiale. Ed è per questo che dobbiamo provare a trovare questo nuovo discorso comune: per tornare a mangiare e a bere liberamente nei bar di Beirut e di Parigi, per tornare a ballare e a seguire concerti, per poter tornare a pregare qualsiasi religione, senza che il tutto venga ridotto al solito ristorante etnico dell’ennesima megalopoli in cui saremo costretti a vivere.
In questi ultimi anni abbiamo provato a costruire un’agenda politica contro l’austerity e ci siamo riusciti con difficoltà, oggi ci viene richiesto ancora di più: a partire da quelle basi dobbiamo costruire un’agenda per la pace e per la libertà. Ma non possiamo farlo se continuiamo a guardare solo all’Europa, alla Francia e a Parigi. C’è chi ha fatto molto più di noi: mettiamoci in ascolto.