DIRITTI

Cie: atti parlamentari e garanzie costituzionali smentiscono Minniti e Gabrielli

Il rapporto sui CIE redatto dalla Commissione straordinaria del Senato smonta la proposta del Ministro degli Interni e del Capo della Polizia di aprire nuove strutture di detenzione amministrativa, denunciando violazioni dei diritti e profili di incostituzionalità

Arriva puntuale, al termine della settimana dei proclami diffusi dal Capo della Polizia Franco Gabrielli e dal Ministro degli Interni Marco Minniti sulla volontà del Governo di istituire venti nuovi Cie, il Rapporto sui Centri di identificazione ed espulsione redatto dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, che ne mette in dubbio l’opportunità politica e anche quella giuridica. L’indagine conoscitiva sulla situazione dei centri di trattenimento avviata all’inizio della XVII Legislatura – “che ha focalizzato il tema dal punto di vista del rispetto della dignità e dei diritti della persona”, come è scritto nell’introduzione al rapporto diffuso qualche giorno fa – rappresenta un aggiornamento (alla fine di dicembre del 2016) del lavoro di monitoraggio già svolto dalla stessa Commissione parlamentare e dà conto delle novità introdotte a livello legislativo e procedurale proprio in materia di identificazione, trattenimento ed espulsione dei cittadini stranieri. Evidenziando critiche severe. Sin dalle prime dieci pagine delle quarantadue che costituiscono il rapporto, infatti, sono messe in discussione un po’ tutte le disposizioni sin qui adottate dal legislatore italiano in materia di detenzione amministrativa. Atti di legge, dalla Turco Napolitano (1998) in poi, che secondo quanto scrive la Commissione: «devono portare a una riflessione che investe la compatibilità con la Costituzione italiana della stessa detenzione amministrativa».

Del resto, è la stessa Corte costituzionale ad aver riconosciuto, con la sentenza n. 105 del 2001 che il trattenimento «è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione». Non soltanto. Gli stessi giudici della Consulta hanno stabilito in passato che nei posti come i Cie si verifica una «mortificazione della dignità dell’uomo, dovuta all’assoggettamento fisico all’altrui potere», una condizione, questa, riconducibile ad una lesione della libertà personale. Di più: è ancora l’articolo 13 della Costituzione, al secondo comma, a stabilire che qualsiasi restrizione della libertà personale è ammessa solo «per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi previsti dalla legge». Dunque, la decisione in merito alla detenzione non potrebbe essere affidata alla discrezionalità del questore, come accade ancora oggi, bensì – si legge ancora nel rapporto elaborato dalla Commissione presieduta dal senatore Luigi Manconi – «deve essere un giudice a stabilire la suddetta restrizione motivando la propria decisione per fare in modo che la detenzione non risulti costituzionalmente illegittima». Da questo punto di vista le censure contenute nel rapporto riguardano anche il contenuto dell’art. 14 del Testo Unico sull’Immigrazione, il quale, proprio rispetto ai requisiti di eccezionalità e di non arbitrarietà della decisione della misura detentiva, prevede di contro il trattenimento come strumento ordinario (e non eccezionale) per eseguire i provvedimenti d’espulsione di stranieri irregolari. E ancora: lascia all’amministrazione, cioè alla questura, un certo margine di discrezionalità, sia nella valutazione della pericolosità sociale, che nella determinazione del rischio di fuga dello straniero che si sottrae al provvedimento d’espulsione. Infine, appare ancor più grave il fatto che sia la stessa autorità di polizia (e non quella giudiziaria) a stabilire misure limitative della libertà personale, a farlo attraverso due atti amministrativi, cioè il decreto d’espulsione con accompagnamento coatto alla frontiera, oppure il provvedimento di trattenimento del Questore, disposto nell’impossibilità di eseguire «immediatamente l’allontanamento». Che tutto ciò avvenga: «senza l’obbligo di supportare dettagliatamente con prove e argomentazioni le ragioni della decisione» è altrettanto significativo.

È una dura presa di posizione contro i Centri di identificazione e di espulsione, quella contenuta nel rapporto (già richiamato) della Commissione straordinaria per la promozione e la tutela dei diritti umani del Senato. E mina alla base i propositi del Ministro dell’interno di riaprire nuovi Cie.

Ma chi può finire in un Cie? All’interno dei centri di questo tipo possono essere trattenute donne e uomini stranieri sprovvisti di un titolo di soggiorno valido in Italia. Nello specifico, può trattarsi di: persone che non hanno mai avuto un documento regolare, oppure che erano in possesso di un documento regolare, ma non sono riuscite a rinnovarlo. Possono essere trattenuti, inoltre, coloro che si trovano nella condizione attuale di richiedenti asilo ma che non avevano presentato la domanda al momento dell’arrivo; gli apolidi che non hanno fatto richiesta dello status, gli ex detenuti (per poter essere identificati); infine, anche i minori nati in Italia o giunti nel Paese minorenni che al compimento della maggiore età non abbiano potuto rinnovare il documento, proprio per la sopraggiunta maggiore età. Ma al di là degli status giuridici, contano le storie di vita. Ed è così che, ad esempio, come già evidenziato nel precedente Rapporto del febbraio scorso elaborato dallo stesso organo parlamentare: «uno degli aspetti che più affligge i trattenuti nei Cie riguarda la presenza dei loro familiari all’esterno». Perché in molti casi si tratta di persone che vivono in Italia da anni e che qui hanno avuto dei figli, a volte persino con partner italiani. In situazioni come queste basterebbe che il giudice di pace non convalidasse il trattenimento. Eppure, spesso ciò non avviene, così la procedura viene rimbalzata al Tribunale dei Minorenni. In attesa che arrivi la pronuncia del Tribunale, intanto, il genitore si può ritrovare a trascorrere anche diversi mesi trattenuto all’interno del Cie.

Sotto la scure dei commissari parlamentari è finita anche la pratica del trattenimento ripetuto nei confronti di persone che, di fatto, sono inespellibili. In particolare dei rom che, in alcuni casi, sono stati reclusi addirittura sei, sette volte. Tutto ciò avviene perché non riescono quasi mai a sanare la propria posizione giuridica. E accade anche per la mancanza di un’adeguata informativa. Ed è proprio l’assenza di adeguate informazioni circa il diritto a chiedere la protezione internazionale per lo straniero che sbarca sul nostro territorio, un nodo critico che appare in diverse circostanze. Un groviglio che alcune sentenze hanno sciolto, per fortuna positivamente, per i migranti ricorrenti, riconoscendo il loro diritto a ricevere un’adeguata informativa legale. È il caso di un uomo nigeriano che il giudice di pace di Roma aveva convalidato il trattenimento nel Cie di Ponte Galeria. Una volta recluso, l’uomo aveva presentato domanda di asilo e impugnato il provvedimento di respingimento perché riteneva che il suo diritto a ricevere informazioni sulla procedura di riconoscimento della protezione internazionale al momento dell’arrivo in Italia fosse stato violato. La Corte di Cassazione gli ha dato ragione, accogliendo il ricorso e annullando i provvedimenti di espulsione e trattenimento. Così, la sentenza in questione ha rappresentato un precedente importante, richiamato poi in altri procedimenti. Come si dice in gergo: facendo giurisprudenza.

È il caso di una sentenza altrettanto importante emessa dal tribunale civile di Bari riguardo un fatto analogo accaduto in Puglia a dicembre del 2015. Ne riferisce la stessa Commissione nel rapporto, raccontando di un uomo proveniente dalla Nigeria che «ha denunciato di essere giunto al porto di Taranto dove avrebbe provato a comunicare la volontà di richiedere asilo senza riuscire a fare domanda, a causa forse dell’assenza di mediatori nel momento dello sbarco». Per questo motivo, si legge negli atti parlamentari, «avrebbe firmato alcuni documenti senza realmente comprendere di cosa si trattasse e realizzando solo in seguito che si trattava rispettivamente di un decreto di respingimento e di uno di trattenimento nel Cie di Bari». Entrambi quei provvedimenti sono stati impugnati e considerati illegittimi, accogliendo il ricorso presentato dal legale dell’uomo, l’avvocato Dario Belluccio. In questo modo, il giudice Maria Rosaria Porfillo ha stabilito che le questure di Bari e Taranto avrebbero violato la libertà personale del ricorrente, dato che in Italia – come si legge nella sentenza in questione in cui è richiamato il dettato della Carta costituzionale – «non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». È la storia a lieto fine di Moses, che abbiamo già raccontato qualche tempo fa: richiamarla serve a ricordare i guasti prodotti sin qui dall’approccio hotspot, cioè la procedura adottata nei luoghi di sbarco (ma anche in alcune questure) dalla polizia italiana, insieme ai rappresentanti delle agenzie europee Frontex, Europol, Eurojust che serve a distinguere o a qualificare i richiedenti asilo dai migranti economici. È in base a questo tipo di catalogazione sommaria che i migranti vengono differenziati: tra chi può essere inviato nelle strutture di accoglienza per richiedenti asilo da chi, invece, sarà destinatario di un provvedimento di respingimento rilasciato dalla questura. E come tale sbattuto in strada o peggio ancora rinchiuso in un Cie.

Cosa può un hotspot? Resta da definire la natura giuridica dei luoghi in cui si attua l’approccio hotspot: «continueranno ad essere centri di prima accoglienza o diventeranno dei centri di identificazione ed espulsione?». È la domanda contenuta nel rapporto parlamentare che dà la cifra di quali potrebbero essere le evoluzioni nelle procedure previste. Ma allo stesso tempo rende ufficiali, codificandole in atti parlamentari, le prese di posizione di numerosi giuristi, attivisti ed operatori del settore che da tempo denunciano l’assenza di una cornice giuridica che definisca il sistema hotspot. Eppure, in una comunicazione della Commissione europea al Governo, del 15 dicembre 2015, si chiedeva all’Italia di «incrementare gli sforzi, anche a livello legislativo, per assicurare una cornice legale allo svolgimento delle procedure previste per l’hotspot». Peccato che in questo caso i commissari si riferissero, in particolare, agli auspici di normare l’uso della forza per il rilevamento delle impronte digitali, che – lo ricordiamo – è vietato dal nostro ordinamento costituzionale. E su questo punto l’orientamento della Commissione diritti umani è altrettanto fermo: «il ricorso all’uso della forza incide evidentemente sulla sfera della libertà personale e non si può prescindere da quanto previsto in questi casi dalle leggi italiane». In particolare, da quanto prevede il comma 2 del art. 349 bis del codice di procedura penale che consente soltanto nei confronti di una persona sottoposta a indagini preliminari il prelievo coattivo di capelli o saliva, comunque nel «rispetto della dignità personale del soggetto e previa autorizzazione del Pubblico ministero». Quella relativa al prelievo di capelli e saliva è pertanto l’unica forma di identificazione coatta contemplata dal legislatore.

Ad un anno dalla sua istituzione, il bilancio dell’approccio hotspot, a partire dai dati e da quanto emerso nel corso delle visite, «non può che considerarsi deficitario ed evidenziare un sostanziale fallimento del piano europeo». Si legge così nel Rapporto citato: «a fronte del raggiungimento di un tasso di identificazioni di oltre il 94%, non sono corrisposti risultati positivi in termini di persone ricollocate». Infatti, alla fine di dicembre 2016, sono state ricollocate dall’Italia in altri Stati membri solo 2.350 persone, su un totale di 40.000 previste dall’Agenda europea delle migrazioni. È evidente che la maggior parte dei richiedenti asilo sono destinati a rimanere in Italia e a concludere nel nostro paese la procedura. E l’esito è in molti casi negativo. In Italia, nei primi sei mesi del 2016 i non riconoscimenti sono stati il 60%, un dato costantemente in crescita. Per tutti coloro che hanno ricevuto un diniego definitivo alla domanda di asilo si aprono – come è noto – le porte dell’irregolarità, perché in attesa di essere rimpatriati nel Paese di origine, non avrebbero nessuna possibilità di rimanere legalmente in Italia. Per qualcuno si potrebbero aprire anche le porte dei Cie, ma, scrive ancora la Commissione parlamentare: «proprio alla luce dell’elevatissima percentuale di persone identificate all’interno degli hotspot e alla disponibilità immediata di una banca-dati condivisa da tutte le forze di polizia degli Stati membri, la funzione istituzionale dei Cie risulta residuale se non praticamente esaurita». A tutto ciò si deve aggiungere che – di recente – attraverso la sentenza Richmond Yaw e altri contro Italia, pubblicata il 6 ottobre 2016, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art.5 par.1, lett.f e par. 5 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, per il prolungamento arbitrario del trattenimento amministrativo all’interno del Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria. Non solo. La sentenza in questione è significativa perché ne permette una sua interpretazione estensiva. Infatti, nella parte in cui afferma il principio di legalità rispetto alla detenzione, il giudizio potrebbe estendersi fino a ricomprendere tutte le ipotesi nelle quali si verifichi una privazione della libertà personale da parte delle autorità di polizia. In questo senso, la sentenza sul caso Richmond Yaw, seppure relativa alla proroga del trattenimento all’interno di un centro di identificazione ed espulsione, è particolarmente interessante perché presenta profili di contestazione simili al trattenimento amministrativo prolungato che si verifica oggi all’interno di centri di prima accoglienza utilizzati immediatamente dopo lo sbarco e l’ingresso “irregolare”, seppure “per esigenze di soccorso” nel territorio dello stato. Sono i centri nei quali si pratica il cosiddetto Hotspot Approach, in cui viene prolungata la limitazione della libertà personale per le esigenze del prelievo delle impronte digitali e del foto segnalamento.

Ecco dunque spiegato perché il piano Minniti-Gabrielli è pura propaganda. Sono gli stessi atti parlamentari e le garanzie costituzionali a smontarlo. Oltre a tutto ciò, è la storia italiana degli ultimi diciotto anni che ci parla di centri detentivi dove le condizioni di vita sono delle peggiori e in cui sono stati documentati numerosi pestaggi all’interno. Ma non c’è soltanto la violenza evidente, c’è quella più silenziosa che prende la forma del cibo scadente, dei servizi igienici sporchi, degli scioperi della fame e degli atti di autolesionismo. E, soprattutto, non bisogna dimenticare che i CIE negli ultimi anni sono stati chiusi dalle rivolte dei detenuti, che li hanno distrutti e dati alle fiamme da Nord a Sud, rendendoli di fatto ingovernabili. Questo sono stati i Cie. Ecco dunque perché devono essere chiusi gli ultimi centri rimasti e non bisogna aprirne di nuovi. Cosa prevista, invece, dal piano predisposto dall’intelligence Minniti-Gabrielli che, per ora attraverso l’emanazione di una scarna circolare ministeriale, ha soltanto sondato le disponibilità: delle forze politiche, di quelle sociali, ma soprattutto ai grandi gruppi editoriali è stato chiesto se saranno disposti (o meno) a dare sponda alla “svolta”, per dirla proprio con il titolo di fine anno comparso su uno dei quotidiani “appartenenti” ad essi.