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MONDO

“Bienvenidos a la Mina Mirador”: miniere su larga scala e resistenze in Ecuador

La costruzione di una miniera di rame sconvolge il sistema ambientale e sociale di una valle abitata da meno di mille persone, che lottano in difesa del loro territorio. Il governo promette investimenti per la comunità insediata ma in realtà distrugge il modello economico sostenibile che già esiste

La Mina Mirador, prima miniera di rame su larga scala per estensione in Ecuador, si trova nella parrocchia di Tundayme, provincia di Zamora Chinchipe, quasi al confine sud-orientale con il Perù. Il territorio si estende per 25mila ettari, di cui più di 8mila sono di bosque protector. La popolazione è di 706 persone, senza contare i minatori, che vanno e vengono.

Il nome, Tundayme, deriva dalla fusione di due culture: Shuar e Kichwa, che convivono in questa valle da tempo. Qui prospera la pianta di Tunda, identificata con la terra stessa, che gli Shuar utilizzano per l’artigianato o la fabbricazione di frecce. Il suffisso “me“, in kichwa, significa “mia”: Tundayme è “La mia Terra“.

Qui è stata scavata una miniera di un km di diametro e uno di profondità, a cono invertito. Il progetto, concesso nel 1994, inizia con le fasi di esplorazione iniziale e avanzata, valutazione economica del giacimento e costruzione delle infrastrutture necessarie allo sviluppo della miniera. Avrà una durata di vita di ventisette anni, con un investimento privato di 2.015 milioni di dollari e un beneficio di 7.635 milioni di dollari per lo Stato. Si prevede anche che le esportazioni varranno 30.305 milioni di dollari.

Inoltre, si promettono nuovi posti di lavoro. Durante la costruzione della miniera, l’azienda Ecuacorriente (ECSA), responsabile del progetto, ha generato 2.400 posti di lavoro diretti. Ora, una legge amazzonica prevede che più dell’80% dei lavoratori siano assunti tra i membri delle comunità locali. Questo sarebbe l’obiettivo di sviluppo a cui l’azienda si appella. Ma la legge è debole, utilizzando la parola “preferibilmente”, lascia carta bianca alle multinazionali.

Difatti, la maggior parte dei mineros non sono ecuadoriani, ma cinesi: anche i cartelli stradali hanno doppio idioma. Sembra un luogo dove le culture convivono, fino a quando non ci si rende conto che i minatori vivono in campeggi appositamente costruiti, alienati dalle comunità. A uno sguardo più attento, questo è un luogo fantasma, dove l’unica cosa che si incontra lungo la strada sono i camion pieni di materiali e i militari che controllano l’area.

La prima cosa che si vede arrivando è l’enorme scritta posta nel mezzo della montagna: “Bienvenidos a la Mina Mirador“, che incornicia un paesaggio distrutto dalla miniera. Quello che si vede dalla strada è la laguna artificiale formata dai residui del trattamento dei minerali, mentre la miniera è nascosta dietro la montagna.

Per contenere il bacino di scarico, sono state costruite due dighe, quella di Tundayme e quella di Quimi. Qui, il fiume Quimi si unisce al fiume Zamora, affluente del fiume Santiago, che scorre direttamente verso il Perù e il Rio delle Amazzoni. Proprio nel mezzo della valle, c’è la diga più alta: 230 metri di altezza, concessionata fino a 320 metri.

Intorno, varie torrette di incanalazione d’acqua per controllarne il livello. Un tunnel sotterraneo collega le torrette: quando una si riempie, l’acqua viene deviata verso un’altra. Così viene scaricato il fango con metalli pesanti, contaminando il fiume lì e tutto intorno.

Gli scarti vengono caricati sui camion e portati alla diga, che continua a alzarsi. Così sembra che non si perda nulla, parlano di economia circolare. In realtà sono milioni di tonnellate di rifiuti che rimarranno per l’eternità in questa valle.

L’azienda Ecuacorriente assicura che le dighe sono state costruite con materiali e tecnologie innovativi, rassicura sulla tenuta. Contemporaneamente, elargisce doni alla comunità: regala polli, offre lavoro per delegittimare le organizzazioni comunitarie. Da lì sorge la protesta: la gente pensa «L’azienda mi ha regalato polli, maiali. E quelli dell’organizzazione cosa mi danno?»ı. Nulla: non sono un ente benefico. Sono un’organizzazione di difenditrici dei diritti umani e della natura, come sostengono loro stesse.

Luis Sánchez è uno dei leader di queste organizzazioni ed è con lui che facciamo il giro intorno alla laguna. Afferma: «Ci chiedono fino a quando durerà la lotta: per sempre. La resistenza non finisce mai».

Nel 2006, il Progetto Mirador ha ottenuto l’approvazione dello Studio di Impatto Ambientale (EIA) per un periodo di 12 anni con una produzione pianificata di 25mila tonnellate al giorno di minerale. Nel dicembre di quell’anno, uno scontro tra gruppi pro-mineria, anti-mineria e forze dell’ordine, schierate davanti ad un cordone di donne Shuar, poste a mo’ di scudi pacifici. Le attività vennero sospese fino al 2009, quando venne elaborato un nuovo Studio di Impatto Ambientale Ampliato. Questo prevedeva un aumento del periodo del progetto a 18 anni e una maggiore produzione: 27mila tonnellate al giorno.

Nel 2010, il conflitto si istituzionalizzò, quando la CEDHU (Commissione Ecumenica per i Diritti Umani) e Azione Ecologica presentarono una petizione formale alla Corte dei Conti Generale dello Stato affinché effettuasse un audit ambientale sul progetto. Due anni dopo, il Ministero dell’Ambiente approvò lo Studio per la fase di sfruttamento dei minerali metallici del progetto Mirador. Poco dopo, fu firmato il primo contratto di sfruttamento minerario su larga scala in Ecuador.

Nel 2014, sotto mandato dell’ECSA e con la complicità dello Stato, vennero distrutte in modo arbitrario e illegittimo la chiesa e la scuola. Una scuola comunitaria, costruita con minga (azione collettiva) tempo fa, che però il Ministero dell’Istruzione decretò essere statale. «Falso: quei territori sono comunitari, così come la chiesa. Il proprietario è il popolo! Ma queste sono le sporche modalità con cui entrano le aziende minerarie», afferma Luis.

Lo stesso anno, fu scoperto il cadavere di Tendetza Antù, leader anti-minerario della comunità Shuar di Yanua, galleggiante nel fiume, con segni di morte violenta. Mentre ce lo racconta, Luis è sereno, rassegnato all’idea che questo sia il destino delle attiviste e attivisti contro «il grande progesso estrattivista del paese».

L’anno successivo, trentadue famiglie furono sgomberate dalle loro case alle prime ore del mattino. Non venne pagato loro un indennizzo, né tantomeno vennero ricollocate. Ci furono grandi manifestazioni a Quito contro le politiche del governo; in ogni caso, poco dopo, il secondo sgombero. Il presidente dell’epoca, Rafael Correa, dovette ricorrere all’intervento di militari per sgomberare la gente, che si rifiutava di abbandonare le proprie case. L’anno successivo lo stesso trattamento venne riservato ad un altro gruppo Shuar.

Chiaramente, c’è chi ha beneficiato dall’arrivo della mineria e chi, al contrario, ha perso tutto: la comunità ora è divisa. Il primo passo per l’azienda è creare fratture nel tessuto sociale, ricorrendo anche alle minacce. «Il problema non è che ti uccidono, ma il messaggio che condividono. A me hanno bruciato la casa, ma il vero problema è la paura che ti lasciano. Questo può accadere a chiunque, qui e nel resto del mondo. Non possiamo vivere tranquilli. La comunità è intimidata».

Nel 2018, diverse opere furono interrotte a causa di violazioni ambientali. Gli attivisti cercarono anche di appellarsi alla protezione dei popoli indigeni, che prevede la necessità di una consulta previa alla ricollocazione di una comunità indigena. Tuttavia, l’anno successivo, il giudice competente dichiarò che «(Tundayme) non è una comunità indigena ancestrale, proviene da processi migratori […]. Non è una comunità a cui va applicata la consultazione preventiva», respingendo il ricorso.

Luis dice che «la questione giuridica è fallita, perché il problema è che stiamo lottando contro un sistema corrotto, obsoleto, coloniale. Per cambiare situazione sappiamo cosa serve: un popolo che si ribelli contro il sistema».

Ma il sistema sa nascondersi bene. Nei primi anni di progetto, Ministri e rappresentanti del governo promisero nuovi investimenti nella comunità: riparare le strade, costruire un centro sanitario, una nuova scuola, promettendo la “città del millennio”. Il Ministero dell’Energia e delle Miniere proclama: «Nel 2018 sono stati investiti 1,7 milioni di dollari in programmi come salute, educazione, sviluppo locale, sostegno ai gruppi di attenzione prioritaria, comunicazione e informazione, rafforzamento agricolo e attività artistiche, sociali, culturali e sportive».

E ora non c’è più niente. «Abbiamo solo i camion e la polvere, per quanto asfaltino, ci sarà sempre polvere e fango. Nient’altro.”, dice Luis. E invece, “È estremamente importante presentare un’alternativa economica alla mineria. Perché la gente ha bisogno di mangiare. E quando una madre non ha nemmeno un chicco di riso da mettere sul tavolo, si inginocchia di fronte alla dominazione».

Il tema economico è prioritario: è necessario sviluppare nuove fonti di lavoro, unico modo per uscire da questa situazione di sfruttamento. Le aziende minerarie rompono il modello comunitario, proprio come hanno fatto i conquistadores secoli fa, presentandosi come unica alternativa possibile e distruggendo i meccanismi socio-economici presenti sul territorio.

«L’Europa è già collassata. Ora le aziende si uniscono agli Stati Uniti o alla Cina. E noi siamo nel mezzo: stanno controllando i minerali dell’America Latina e noi siamo soggetti al loro modello industriale. Ma le nostre conoscenze erano differenti: desideriamo tornare al modello che avevano i nostri antenati, alle culture ancestrali dell’America Latina. Vivevano qui milioni di persone, con un’economia completamente solida, pensata a lungo termine e focalizzata sulla difesa dell’ambiente».

E le aziende occidentali, offrendo stipendi eleveati, attraggono la gente e la distraggono. Luis sostiene: «La nostra gente è abbattuta, non guarda più il Taita Inti (Papà Sole) e Mama Quilla (Mamma Luna) da molti anni. Questo è stato il problema, le aziende ci hanno incantato con argomenti falsi, grazie ai mezzi di comunicazione a loro favore. Hanno denunciato tutte le attiviste e attivisti, dicendo addirittura che avevano armi in casa. Continuiamo a lottare, ma ci sono giochi sporchi in ballo».

Perché alle aziende minerarie e al governo centrale interessa controllare il territorio in molti modi, arrivando a infiltrarsi anche nelle istituzioni locali. O prestando il lavoro dei militari, che dovrebbero essere a servizio del paese, a un’azienda privata, tutt’al più su suolo pubblico. «E questo succede perché gli interessi privati sono più attraenti: per vincere le elezioni, hanno portato gente da fuori, hanno cambiato il loro domicilio e li hanno autorizzati a votare e lavorare nella miniera. In più, lo Stato consegnava alle aziende la terra pezzetto dopo pezzetto. Questo è il capitalismo. Il modello di economia autosufficiente, produttiva, pulita e di alimenti vivi e sani, viene sostituito da un modello di dipendenza salariale».

E questo modello economico sostenibile sta scomparendo. Ora si distrugge l’ambiente e poi si risemina, lavoro inutile se non fosse per la distruzione causata prima dalla stessa miniera. Si crea così un circolo vizioso di morte: un’emorragia curata con un cerotto.

Il Ministero dell’Energia e delle Miniere comunica: «Nel periodo 2016-2019, mediante una tecnologia innovativa (idrosiembra), sono stati ripristinati 1 milione 700 mila metri quadrati di tutti i fronti di lavoro […]. Inoltre, vengono effettuati monitoraggi semestrali del componente biotico […]. L’Ecuador promuove una mineria responsabile, sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale, di mano con aziende che rispettino gli standard più elevati di operatività del settore, nel rispetto della natura e delle persone, generando nuove opportunità di sviluppo nazionale».

Così si occupano anche di mettere cartelli per vietare la raccolta dei fiori sulla strada. Come se i problemi sociali, economici e ambientali portati dalla mineria fossero paragonabili a un fiore reciso. Questi cartelli mi sembrano sottolineare l’alienazione dalla realtà che si vive qui, il brusco spostamento di focus rispetto ai reali problemi. Forse per questo molti non si fidano più di ciò che lo Stato ordina e promette.

Intorno alla laguna non c’è più una valle, ma ci sono ancora le montagne. E quando la diga si romperà, l’acqua verrà incanalata naturalmente, proseguendo verso il centro abitato di Tundayme, causando allagamenti fino al Perù. «Sarà un luogo morto, soprattutto dove si ha produzione agricola: la crisi principale sarà alimentare. E il danno sarà permanente».

E le conseguenze sono evidenti se si osservano le torrette di scarico. Una è già quasi completamente sommersa nella laguna, un’altra è costruita al di sopra della strada dove ci troviamo. E ce n’è una ancora più in alto. Quando Luis ci spiega che la laguna arriverà fino all’ultima torretta, non posso crederci. Questa valle diventerà una sola immensa laguna finché il muro di contenimento reggerà. «Ma noi, continuando con la resistenza, lottiamo affinché non sia questa la fine della storia».

Tutte le immagini sono dell’autrice

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