EUROPA
«Arrestata perché parlavo in italiano», un racconto da dentro il carcere speciale di Amburgo
Shendi è un’attivista dei Berlin Migrant Strikers, collettivo di italiani a Berlino. Poco dopo la fine delle mobilitazioni contro il G20 è stata arrestata dalla polizei, apparentemente senza motivo, e trasferita nella struttura detentiva di Gesa, creata apposta per il vertice. Qui il suo racconto
• Amburgo G20, la “polizei” voleva arrestare anche una europarlamentare italiana
• Le giornate di Amburgo non sono finite
Perché siete stati fermati?
Sabato abbiamo partecipato al grande corteo conclusivo delle mobilitazioni contro il G20. Molto bello, potente e variegato. Sostanzialmente è stata una manifestazione tranquilla, a parte gli attacchi della polizia in coda, respinti grazie alla solidarietà degli altri spezzoni, e alle provocazioni che gli agenti in anti-sommossa hanno realizzato nella piazza finale. Qui, infatti, gli agenti continuavano a provare a intimidire chi doveva intervenire dal palco o chi stazionava là intorno. Noi avevamo bisogno di trovare del cibo e di avere un momento per discutere e ragionare a freddo sulle cose fatte e su quelle da fare. In generale, il nostro approccio collettivo è stato quello di alternare i momenti di massa e di piazza con delle occasioni per riflettere insieme in situazioni più tranquille. Siamo stati fermati mentre defluivamo dal corteo. Siccome avevamo partecipato a una manifestazione autorizzata, e tutto sommato tranquilla, non ci siamo preoccupati troppo di quello che poteva accadere muovendosi in gruppo. Eravamo circa un quindicina. Mentre camminavamo siamo stati circondati da vari lati da celere e camionette. Solo in seguito abbiamo saputo, grazie al legal team, che quasi tutti i fermati erano stranieri. Quindi forse il nostro essere più di due e il parlare italiano sono state le cause del fermo. Un nostro compagno ha giustamente detto all’avvocato che si è trattato di un vero e proprio racial profiling, visto che non c’erano altri elementi distintivi tra noi e le persone che avevano partecipato al corteo e si trovavano là intorno.
Che cosa è successo dopo?
Da subito, gli agenti hanno avuto un atteggiamento molto aggressivo. In particolare con chi dimostrava di non essere intimorito o con chi provava a usare il cellulare per avvisare il legal team. Dopo la prima identificazione e perquisizione ci hanno fatto salire su due blindati, al cui interno c’erano delle celle. Insieme a noi, era presente anche l’europarlamentare Eleonora Forenza, che ha provato in tutti i modi a ostacolare l’operazione della polizia. Senza riuscirci. Anzi, anche lei è stata portata via con noi. Finché eravamo in stato di fermo nei furgoni il morale era molto alto. Perché stavamo tutti insieme, sebbene divisi tra uomini e donne. Facevamo cori, continuavamo a chiedere di andare in bagno, anche per infastidire la polizia. A un certo punto ci hanno portato nella struttura detentiva di Gesa (Gefangenensammelstelle), costruita apposta per il vertice del G20. Lì ci siamo resi conto di essere effettivamente in stato di arresto e abbiamo iniziato a sperimentare le diverse tattiche di controllo proprie dell’ambiente carcerario. Per prima cosa, siamo stati pian piano separati e isolati. Uno alla volta scendevamo dal furgone ed entravamo nell’edificio, attraverso una scala circondata dal filo spinato. Più che un vero e proprio carcere, sembrava un magazzino di Amazon. E noi la merce inscatolata nei piccoli scaffali. La logistica della repressione poteva avere inizio. Il flusso di soggetti era continuo, sia in uscita che in entrata, e gli addetti allo smistamento tendevano a comprimere il più possibile le soggettività per garantire il massimo dell’efficenza. Quasi subito, è diventato chiaro che un’arma nelle loro mani era il pieno possesso delle informazioni, mentre noi, al contrario, non sapevamo dove stavamo andando, dov’erano gli altri, se e quando saremmo usciti. Non sapevamo nemmeno di cosa eravamo accusati, perché si rifiutavano di dircelo.
Dentro com’era la situazione?
Il loro obiettivo era isolarti il più possibile e lasciarti in questo limbo informativo. Io sono stata abbastanza fortunata perché in cella non ero sola, ma con un’altra ragazza che era stata portata lì prima di me. La cella era piccola e praticamente senza finestra. Aveva solo una piccola fessura. Ho notato che questo buio e questa ristrettezza, le pareti bianche e la mancanza di qualcosa che scandisse il tempo provocava soprattutto una grande sonnolenza. Sia io che le altre avevamo un sonno indicibile, praticamente ci svegliavamo solo per andare in bagno. Questo effetto psico-fisico era molto forte. Questa sorta di annichilimento della persona era evidentemente voluta. In generale, se ti concentri su quello che ti sta succedendo rischi di perdere il controllo: sei in un cunicolo bianco e non sai perché. E non te lo dicono, rimandando questo aspetto al giudice.
Questa sensazione è stata interotta quando diversi da noi hanno iniziato a contrattaccare. Suonando in continuazione il campanello per chiamare le guardie. Avanzando in continuazione la richiesta di parlare con l’avvocato. Chiedendo ripetutamente dell’acqua e poi di andare in bagno. A un certo punto, ho anche chiesto di andare dal dottore. Come escamotage per rimanere sveglia e non dormire. Anche perché, nonostante questo grande sonno, dormire non era semplicissimo: passavano di continuo a controllare che nelle celle fosse tutto apposto. Abbiamo avuto l’impressione che siccome la nostra detenzione era al limite della legalità, e sicuramente illegittima, i poliziotti avessero una particolare attenzione affinché nessuno si facesse male. Cosa che avrebbe potuto creargli dei problemi ulteriori. Comunque il modo di sabotare questa fabbrica della detenzione era rallentare i processi, andare al bagno lentamente, far perdere tempo, creare degli intoppi. Tutte queste cose ci sono venute abbastanza spontaneamente. Solo all’uscita abbiamo saputo che ognuno di noi si era inventato qualcosa per dargli fastidio e per reagire psicologicamente all’isolamento del carcere.
Nel mio caso, poi, la compagna che era in cella con me è stata rilasciata molto presto. Hanno detto anche a me che a breve sarei uscita, invece un’ora dopo una poliziotta mi ha presentato un foglio, dicendomi di firmarlo. Con quel documento avrei risonosciuto che la polizia di Amburgo mi aveva giudicato un soggetto pericoloso e avrebbe potuto trattenermi fino alla fine del vertice, che loro stabilivano nel lunedì successivo alle sei di mattina. Essendomi preparata su come comportarmi in caso di arresto, mi sono riufiutata di farlo. Sapevo, infatti, che non bisogna firmare niente. Dopo qualche ora sono ritornati in cella, mi hanno sollevata per le braccia e trascinata in un ufficio. Qui, un poliziotto mi ha letto il verbale che la polizia avrebbe trasmesso al giudice, il quale avrebbe convalidato o meno il fermo preventivo. Come molte altre cose, anche questa è stata arbitraria: ad alcuni è toccata, ad altri no. A me questo verbale è sembrato soprattutto ridicolo.
In una prima parte, veniva descritto il contesto nel quale il fermo era avvenuto, cioè una situazione in cui estremisti violenti di sinistra sarebbero accorsi da tutta Europa per dare manforte a quelli di Amburgo. Questa parte era abbastanza comica e comunque indica la cornice politica che la polizia più che descrivere, voleva produrre. La seconda parte, invece, era centrata su di me. Anche in questo caso gli elementi accusatori erano da un lato assurdi, dall’altro incosistenti. Del tipo: «l’accusata aveva un impermeabile nero»; «l’accusata aveva una mappa della città» (questo era falso, ma anche fosse stato vero, è diventato illegale avere degli strumenti per orientarsi?); «l’accusata conosce come comportarsi in caso di arresto ed è consapevole dei suoi diritti»; «l’accusata non è stata collaborativa durante l’arresto». Insomma, la capacità di muoversi in un contesto legale estraneo veniva riconosciuta, dagli stessi che ti hanno arrestato illegalmente, come indizio della tua colpevolezza. Un bel capolavoro! Nonostante ciò, alcune persone che sono andate dal giudice si sono viste convalidare il fermo. Come ad esempio, Giorgio, l’ultimo di noi ad uscire. Dopo questo teatrino mi hanno riportato in cella. Il giorno dopo non mi hanno dato nessuna informazione, se non dirmi che il giudice stava convalidando quasi automaticamente i fermi. Io ho continuato a cercare dei modi per rimanere attiva e sveglia. Poi a un certo punto, verso le sei di pomeriggio, sono entrati in cella e mi hanno portato fuori. Lì ho trovato i miei compagni che erano già stati liberati poco prima. Tutti, tranne, appunto, Giorgio.
Perché Giorgio è stato trattenuto e voi no?
Non si sa. Tutto è stato completamente arbitrario. Sia la convalida, che il rilascio. Ad esempio, alcuni di noi sono stati rilasciati quasi subito, mentre altri trattenuti un giorno intero. Dal momento che non hanno trovato alcun elemento accusatorio concreto, tutti siamo stati ritenuti potenziali colpevoli. Di cosa non si sa bene. Comunque la selezione è stata completamente casuale. Da un lato, quindi, c’è l’arbitrarietà di questa operazione. Dall’altro, però, la questione politica centrale è il valore rappresentativo di queste centinaia di arresti di attivisti internazionali. È stato un modo per evitare di dover riconoscere che: uno, scegliere Amburgo e i quartieri più autonomi di questa città per il G20 era stato folle; due, la polizia tedesca agli ordini di Dudde era stata incapace, con la sua tolleranza zero e le provocazioni nei campeggi e al corteo Welcome to Hell, di gestire l’ordine pubblico. Quindi l’arresto di tanti stranieri serviva alla polizia a dire che il problema erano quelli venuti da fuori solo per fare casino. Insomma, l’operazione non aveva nulla a che fare con il diritto, ma serviva a fare un colpo mediatico nell’ultimo tentativo di salvare la faccia, approfittando dello stato di eccezione che è un momento di sospensione dei diritti e delle formalità legali che disvela l’autoritarismo delle forze dell’ordine e del governo.
Quidi si può dire che la polizia ha mantenuto un “modello tedesco” di gestione degli arresti. Non ci sono state macellerie come a Genova, ma delle forme di violenza più sottili…
Noi, che comunque siamo stati fermati in una situazione non particolarmente caotica, non abbiamo subito violenza fisica. La gestione è stata “tedesca”, nel senso che alternava momenti di gentilezza a provocazioni pure e anche ai limiti del sadico, ad esempio facendo delle battute sulla lunghezza della detenzione e nascondendoci delle informazioni fondamentali. Una sorta di comportamento passive-aggressive che aveva come primo scopo quello di isolare e indebolire, attraverso un andirivieni di informazioni contraddittorie o con la costruzione di una bolla di silenzio intorno alla persona detenuta.
Sappiamo che vi siete aspettati l’un l’altro, dormendo davanti al carcere. Come è stato uscire e ritrovare tutti i compagni?
Davanti alla struttura detentiva c’era il prisoner support, che distribuiva cibo e faceva caricare i telefoni a chi era in attesa. Uscire è stato molto bello perché, anche se siamo stati dentro solo 24 ore, comunque la macchina del carcere produce i suoi effetti. All’uscita ho avuto una forte sensazione fisica di pienezza, di odori e di colori. E poi la cosa fondamentale è stata poterci riabbracciare tutti, anche se rimaneva la macchia di questo compagno ancora in carcere. Sebbene eravamo sollevati dal sapere che in qualche ora sarebbe stato liberato anche lui. Ci siamo sentiti molto uniti e ci siamo raccontati quello che avevamo vissuto. Alcuni di noi erano riusciti a scambiarsi delle occhiate o delle parole anche dentro, cercando di mantenere il contatto affettivo. In generale, è stata una quattro giorni molto intensa e l’arresto ci ha congelato una serie di impressioni ed emozioni. All’uscita ci siamo ritrovati dove ci eravamo lasciati, in quell’idea di partecipare al controvertice con le nostre pratiche e modalità conflittuali, ma soprattutto insieme. Usando i nostri legami per rompere la paura che la polizia avrebbe voluto provocare, ma anche il senso di schiacciamento delle soggettività che la stessa agenda delle mobilitazioni può produrre. Questa modalità penso abbia funzionato, perché ce la siamo portata anche dentro quelle celle, rappresentando uno scudo collettivo. La notte dopo il rilascio, poi, abbiamo preso i sacchi a pelo e siamo andati davanti al carcere dove era ancora trattenuto Giorgio, che è uscito la mattina dopo alle sei. Il pensiero, adesso, è per chi è ancora ostaggio di quelle mura. A loro va la nostra più grande solidarietà e il desiderio che presto possano riconquistare la libertà.