PRECARIETÀ

Alzare la testa, battere la solitudine: la sfida delle Camere del Lavoro Autonomo e Precario

Un contributo dell’ultimo numero della rivista “Inchiesta” (ed. Dedalo, in questi giorni in libreria) sulle Camere del Lavoro Autonomo e Precario e sul tema della coalizione sociale

CLAP è un acronimo, sta per Camere del Lavoro Autonomo e Precario. Le Camere nascono nell’autunno del 2013, in tre spazi autogestiti della città di Roma, e si connettono in una comune associazione sindacale. Gli spazi sono: la fabbrica recuperata Officine Zero (Casal Bertone), l’atelier autogestito Esc (San Lorenzo), lo studentato autogestito Puzzle (Tufello). Un esperimento giovane, dunque, con tanta strada ancora da percorrere, molte verifiche da fare. Ma un esperimento che tenta di affrontare, senza timidezze, il problema più significativo del nostro tempo: l’insignificanza (o quasi) del sindacato che c’è nella tutela del lavoro precario, intermittente, autonomo, migrante. Prima di descrivere l’esperimento, presento lo sfondo o le scommesse all’interno delle quali l’esperimento ha preso vita (§ 1). Uno sguardo alle premesse, uno a quanto fatto fin qui (§ 2), infine la prospettiva politica (§ 3) che CLAP, tra gli altri e con altri, contribuisce ad animare.

1. Le due trasformazioni

CLAP ha scommesso, fin dall’inizio, su due traiettorie: la trasformazione degli spazi autogestiti, dei centri sociali, in nuovo dispositivo sindacale; il ritorno del sindacato alla forma Camera del lavoro. Le due traiettorie convergono su un’esigenza decisiva: mettere fine alla dicotomia tra pratiche mutualistiche e contrattazione, tra conflitto (verticale) e solidarietà (orizzontale).

Sono quasi tre decenni che in Italia i centri sociali e gli spazi autogestiti innervano la scena urbana di socialità alternativa, formazione, difesa dei più fragili (soprattutto i migranti), pur essendo del tutto ininfluenti nelle lotte del e sul lavoro. In questi tre decenni – gli anni della contro-rivoluzione neoliberale – il sindacato, salvo alcune nobili eccezioni (la FIOM, al pari del sindacalismo di base, è una di queste), ha dismesso il conflitto e reso possibili la precarizzazione e il conseguente impoverimento di un’intera generazione. Con l’epilogo del movimento No Global e l’esplosione della Grande Depressione, a partire dal 2008, l’impasse dei centri sociali da un lato, incapaci di rinnovarsi e di funzionare da polo attrattore delle forme di vita giovanili, l’impotenza sempre più marcata dei sindacati tutti di fronte all’accelerazione neoliberale dall’altro, hanno reso più ruvida la verità: non c’è comunità elettiva che possa sopravvivere al working poor e alla disoccupazione di massa; non c’è sindacato che possa sopravvivere – pena il prevalere della corruzione e della collaborazione subalterna con le imprese – senza rimettere in campo il conflitto e, con esso, la ricerca e l’espansione di nuove pratiche mutualistiche.

Traiettorie soggettive, indubbiamente, che richiedono coraggio, impegno, tenacia. Traiettorie imposte dalla svolta d’epoca nella quale siamo immersi. La gestione bismarkiana e ordoliberale della crisi europea sta portando con sé un attacco violentissimo al salario, quello diretto e quello indiretto, le prestazione del Welfare State (formazione, sanità, previdenza). La sotto-occupazione, soprattutto nei paesi del Sud Europa, da eccezione si è fatta norma. In Italia salta lo Statuto dei lavoratori, la contrattazione collettiva nazionale, i contratti a tempo determinato senza causale vengono liberalizzati: una nuova scena, dove all’occupazione si sostituisce l’occupabilità, e dai sotto-salari si procede speditamente verso il lavoro gratuito, non pagato (vedi EXPO). Pur di lavorare, ogni lavoro va bene.

Di fronte a tanta violenza, tutti gli strumenti esistenti sono spuntati, chi lavora è senza diritti, senza forza, frammentato, quasi sempre immerso in una competizione selvaggia con i più poveri (in particolare i migranti). Affermare la solidarietà, dove vige la solitudine rassegnata e rancorosa, è la prima grande battaglia. Così come costruire luoghi dove la frammentazione possa essere ricomposta, la quotidianità con i suoi drammi condivisa, il poco tempo che c’è messo in comune. Per far sì che le tante piccole vertenze, i tanti rifiuti, che pure ci sono, non siano maledettamente fragili, inoffensivi. Coniugare il conflitto sul lavoro con il mutualismo significa dunque tornare alle origini, le Camere del lavoro appunto, con armi nuove: la comunicazione informatica, la socializzazione dei saperi, la circolazione virale delle istanze e delle lotte, la connessione transnazionale degli esperimenti organizzativi.

2. Cos’è CLAP?

Ritorno alle origini carico di innovazione: con tanti limiti, propri della giovinezza, questa è la sfida delle Camere del Lavoro Autonomo e Precario. Ma conviene entrare più nel dettaglio.

CLAP prova a connettere tre funzioni che, nella crisi dei sindacati tradizionali, tendono sempre più alla scomposizione: servizio, organizzazione, mutualismo. In primo luogo la consulenza e l’assistenza legale, per vertenze collettive come per quelle individuali, e quella fiscale, per freelance e professionisti atipici, associazioni e cooperative. Strumenti essenziali per entrare in contatto (con), inchiestare e tutelare un mondo del lavoro frammentato, impaurito, non sindacalizzato. Di più, occasioni imprescindibili per avviare un primo, semmai lacunoso, processo di alfabetizzazione sindacale. In secondo luogo, quando la vertenza lo consente, l’avvio di una vera sperimentazione organizzativa. Va da sé, e lo impone la composizione tecnica di classe come la barbarie del contemporaneo mercato del lavoro, spesso ci si trova di fronte a vertenze che coinvolgono pochi lavoratori, spesso vertenze individuali. Il supporto organizzativo della Camere, in questo senso, si fa decisivo: nell’organizzazione di un picchetto, nell’articolazione di una campagna comunicativa, nella conquista del tavolo di trattativa istituzionale (se a esser coinvolte sono le istituzioni di prossimità). In terzo luogo il mutualismo, che significa soprattutto formazione fiscale e sul diritto del lavoro (quel poco che rimane dopo il Jobs Act), ma anche banca del tempo e mutualismo delle lotte. Solo il sostegno reciproco, infatti, può rispondere alla debolezza, drammatica, che la frammentazione porta con sé.

Nelle sue attività, dunque, CLAP prova a connettere figure del lavoro diverse, spesso ostili l’un l’altra. La prima frattura è la linea del colore, indubbiamente. Con la crisi, e in particolar modo la disoccupazione di massa, la forza-lavoro migrante è una “minaccia”: ricattabile e ricattata, costa meno e impone un abbassamento generalizzato del salario e delle tutele, ecc. La seconda frattura riguarda la percezione di sé: seppur povero, con fatturati che non superano i 12-15 mila euro l’anno, un freelance tende a non confondersi con il precario di McDonald’s. Forza-lavoro qualificata la sua, sicuramente afflitta da bassi compensi e pressione fiscale alle stelle, ma di certo capace, se la fortuna lo vuole, di fare strada… Peccato che la fortuna, in Italia, è sparita da un pezzo, la mobilità sociale un ricordo del passato. Per la forza-lavoro qualificata, quando non c’è l’aiuto del paparino, ci sono due strade: l’esodo, e sono 100.000 l’anno i giovani che scappano dal Bel Paese, o la sotto-retribuzione. E il disastro del lavoro povero vale sempre più, non solo per i professionisti atipici, ma anche per quelli degli ordini, dagli avvocati ai giornalisti, dai para-farmacisti agli ingegneri. Dunque l’urgenza della coalizione, oltre i corporativismi, comincia a farsi strada.

Dalla sua nascita, poco più di un anno, CLAP ha incrociato una trentina di piccole e medie vertenze, che hanno visto e vedono coinvolti: partite Iva del settore sanitario, operatori sociali, precari dei servizi e delle catene commerciali, lavoratori della logistica, lavoratori migranti. Si contano quasi 200 iscritti, età media giovane, in alcuni casi giovanissima. Dramma ricorrente: il mancato pagamento del lavoro svolto. Non sempre la vertenza è motore di politicizzazione, ma nuovi legami stanno nascendo, un piccolo tessuto di resistenze, laddove prima vigeva la solitudine, sta prendendo forma.

3. L’urgenza della Coalizione

Perché dare vita a una piccola struttura sindacale piuttosto che immettere forze giovani nei sindacati già esistenti? Le risposte a questa domanda sono almeno due. La prima: il sindacato che c’è, anche quando sinceramente conflittuale, insiste su una figura specifica: il lavoro subordinato. Con il Jobs Act anche per il lavoro subordinato si mette male, malissimo, ma persistono le differenze, quanto meno sul piano della percezione di sé dei soggetti e, di conseguenza, sul piano delle pratiche organizzative. La seconda: parlare di lavoro, oggi, significa fare i conti con una pluralità irriducibile di forme di sfruttamento, di profili etici, di linguaggi e di relazioni. La stessa pluralità deve qualificare i dispositivi organizzativi e sindacali. Fa da sfondo a queste due risposte, poi, una convinzione: i sindacati confederali sono ormai irriformabili, la loro conversione neoliberale, in diversi casi, ha raggiunto un punto di non ritorno.

Se valgono le due risposte, si impongono due sfide: la piena politicizzazione dello scontro economico; la Coalizione sociale. Meglio chiarire.

Obiettivo principale della governamentalità neoliberale, oltre la piena affermazione del principio di concorrenza, vera e propria legge divina che occorre rendere vigente sulla Terra senza troppe storie, è la spoliticizzazione della sfera economica. Cosa significa? Significa destituire di ogni senso e marginalizzare con violenza il conflitto tra capitale e lavoro. Conta solo un interesse, quello di impresa, perché, secondo le retoriche dominanti, siamo tutte e tutti imprenditori di noi stessi, capitale umano. Anche quando fatichiamo ad arrivare a fine mese. Meglio, se a fine mese non arriviamo, la colpa è nostra, abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Riconquistare il “due”, la separazione, il conflitto verticale, vuol dire ri-politicizzare il lavoro e le sue lotte. Ma la politicizzazione necessaria è anche quella capace di mettere in scacco, una volta per tutte, la divisione tra Politico e Sociale. Organizzare e difendere il lavoro non sindacalizzato deve coincidere, sempre più, con un processo di soggettivazione politica: è la nuova composizione tecnica di classe (scolarizzazione di massa, accesso alle tecnologie della comunicazione, ecc.) che, da anni, impone questo salto di qualità!

La Coalizione sociale, in questo senso, è il modo di intendere il sindacato che viene. Tradizione vuole che il sindacato tutela il mondo del lavoro e, quando vuole far politica, costruisce alleanze con la “società civile”, il tessuto associativo. Al centro il sindacato, attorno tutti gli alleati, ognuno stretto nella sua identità. Con la nozione di Coalizione, invece, si chiama in causa quel pluralismo di figure e di pratiche organizzative che respinge ogni reductio ad unum. Il multiplo, per riprendere le parole del filosofo, si fa sostantivo. C’è sì il sindacato che difende il lavoro subordinato, ma poi ci sono i tanti dispositivi, piccoli o grandi, utili alla tutela del lavoro precario, delle partite Iva e del professionismo, degli studenti, del lavoro migrante. Lo Strike Meeting e lo Sciopero sociale dello scorso 14 novembre, due fatti ai quali con generosità e tra gli altri ha contribuito CLAP, sono esperimenti di Coalizione sociale. Nulla più di un debutto, ma l’atteso imprevisto al quale dedicare le energie migliori.