editoriale

La messa è finita

Note sulle mobilitazioni del 25 marzo

Si è detto da più parti, e a ragione, che la denuncia del dispositivo securitario e fascista messo all’opera nella giornata del 25 marzo, con la sua ingiustificata e ingiustificabile limitazione della libertà di movimento e di dissenso, quello che ha trattenuto senza alcun motivo centinaia di attivisti da tutta Italia e che ha dispensato degli insensati fogli di via, deve essere massima e precedere qualsiasi considerazione sull’esito politico delle mobilitazioni. Tuttavia, precedere non vuol dire occultare. Lavorare alla costruzione di una campagna politica che si opponga alla guerra preventiva contro i movimenti sociali messa in scena dal Ministro Minniti – da tenere assieme a quella contro la guerra interna ai poveri, elaborata dallo stesso Ministro – è un’urgenza improrogabile, che tuttavia non deve in alcun modo lasciare inevasa la questione circa l’inefficacia complessiva delle mobilitazioni contro il vertice europeo del 25 marzo. E non basta richiamare l’indecente clima di paura montato ad arte dai media nei giorni precedenti: da Genova 2001 in poi, non c’è stato controvertice che non sia stato preparato dall’allarmismo più eclatante. Questo però, per 15 anni, non ha mai ostacolato che le piazze fossero oceaniche. Anzi, talvolta ci è sembrato che l’allarmismo mediatico che puntava a tenere le persone lontano dai cortei, ottenesse l’effetto contrario.

Stavolta, invece, le piazze, tutte, non sono riuscite a mobilitare oltre i giri larghi dei soggetti organizzati che le hanno convocate. Non ci sono state, il 25 a Roma, manifestazioni «di massa», né una partecipazione «eccedente». Converrebbe riflettere su questo dato: in primo luogo perché è su questo limite che i dispositivi di controllo trovano spazio e legittimazione. Non il contrario. Questi limiti riguardano tutti. La rete di attivisti che anima questo sito non meno degli altri.

Il dilemma dell’Europa e il realismo politico dei movimenti

Le celebrazioni ufficiali hanno confermato la direzione di marcia a cui tutti i paesi membri devono attenersi per accedere a maggiori gradi di integrazione comunitaria. Nonostante il flebile e retorico richiamo ai principi ispiratori delle origini, è il complesso sistema di premi, sanzioni e ricatti a definire la regola aurea dei rapporti tra gli Stati. La tanto sbandierata Europa a due velocità non fa altro che ratificare una situazione già esistente, traducendo il principio secondo cui assieme al mercato delle merci, delle persone e dei capitali, sono gli stessi Stati a dover esser sottoposti al regime della concorrenza. Le due velocità, non si riferiscono ad altro che alla differente capacità e disponibilità di gruppi di paesi, di realizzare il progetto dell’Unione Europea, il che coincide, in estrema sintesi, con l’attuazione delle riforme strutturali e del consolidamento dei bilanci pubblici. La neoliberalizzazione forzata dell’economia e della società, deve permanere come pietra angolare per la valutazione delle performance delle istituzioni e ad essa bisogna riferirsi per «misurare il valore» della vita dei suoi cittadini. Meccanismi correttivi (tanto annunciati quanto non pervenuti) devono in ogni caso non turbare il meccanismo di disciplinamento delle condotte dei Paesi, dei territori e delle persone. La riflessività e la coscienza critica delle élite europee di fronte alla povertà e alle minacce xenofobe si riduce al classico idiotismo neoliberale: se vi sono storture, costi sociali o effetti politici indesiderati, è perché il processo di neoliberalizzazione dell’economia non si è ancora completato.

Di fronte a questo scenario, che differenzia le velocità per lasciare immutato il percorso neoliberale, le posizioni critiche che si sono rappresentate nella giornata del 25 sono sembrate incapaci di intercettare la diffusa avversità riscontrata dalle istituzioni europee. Nell’editoriale che precedeva le mobilitazioni, avevamo sottolineato l’infruttuosa polarizzazione delle opzioni in campo, tra un europeismo molle e un anti-europeismo centrato sull’ipotesi del ritorno alla sovranità nazionale: entrambe le opzioni rimangono mute di fronte al problema, per noi centrale, dell’inversione dei rapporti di forza interni all’Europa. Detto altrimenti, entrambe le polarità evitano di indicare le forze sociali e politiche (così come i processi di conflitto) in grado di istituire ed esercitare contro-poteri capaci di mutare il quadro e di forzare il blocco attuale. A conti fatti, di fronte a questo silenzio e all’impossibilità di reperire concreti conflitti sociali che ne esprimono le istanze, il problema del Sì o il No all’Europa si riduce alla seguente questione: se cioè una scomposizione ulteriore dello spazio europeo in senso nazionalistico, costituisca o meno una condizione positiva per il rilancio dei movimenti sociali e l’estensione della lotta di classe.

A noi pare che altre forze, altri immaginari politici, altri orizzonti culturali a noi irriducibilmente avversi, sembrano essere oggi i soli in grado di codificare questa scomposizione, riproponendo il significante – fin troppo pieno – della «nazione».

La distanza che si misura tra l’impopolarità delle politiche dell’Unione Europea presso settori crescenti della società, registrata dai sondaggi di opinione, e la partecipazione sociale alle mobilitazioni in occasione dell’anniversario del 25 marzo, risiede probabilmente in questo vuoto: le manifestazioni si sono limitate a registrare staticamente lo stato del dibattito all’interno dei movimenti, senza indicare l’apertura di uno spazio di possibilità per la lotta. Una composizione sociale ampia ha di conseguenza mancato l’appuntamento. Questa assenza è stata tuttavia dettata dal realismo politico, non dalla passività, né dalla rassegnazione. E non sarà l’appello alla società civile europea a colmare questo vuoto, né tantomeno le liturgie da controvertice dell’antagonismo, né ancora le varianti di sinistra del sovranismo, condannate a farsi rappresentanti di un populismo senza popolo. Di fronte al dilemma dell’Europa, i movimenti non possono fare altro che percorrere una via indiretta: impegnarsi nella costruzione di processi di conflitto a medio termine e impiantati nella realtà, interpellando soggettività parziali ma in grado di stabilire connessioni generali. L’estensione transnazionale di alcuni conflitti già in atto (da quello delle donne alle lotte dei migranti, dalle mobilitazioni per il reddito e il salario minimo su scala continentale) deve divenire il metodo a partire dal quale sedimentare infrastrutture di collegamento, dare continuità e forza ai processi di mobilitazione, dare vita a alleanze sociali e politiche sempre più ampie e definire un programma di lotta comune.

Anche per questo, il 25 marzo siamo scesi in piazza costruendo uno spezzone meticcio per la libertà di movimento (#libertadimovimento #europeforall), partecipato da molti e diversi: studenti, precari, rifugiati, richiedenti asilo, transitanti. Abbiamo deciso di condividere la giornata con un soggetto parziale ma paradigmatico, quello migrante, che esprime il conflitto costante per la libertà di movimento e l’apertura delle frontiere ed è direttamente oggetto delle politiche securitarie europee (la cui diretta derivazione nazionale sono i due discussi Decreti Minniti). Non solo i migranti, meglio di altri in questa fase, esprimono il senso dell’Europa come il luogo da raggiungere – a costo della propria vita – lo spazio più immediato in cui iscrivere una battaglia radicale per il riconoscimento di diritti universali e nel quale conquistare nuovi spazi di agibilità politica. Abbiamo deciso di animare questo spezzone perché finora l’uscita dall’Unione Europea comporta nell’immediato, come mostra la Brexit, l’innalzamento di nuovi confini. Blocchi materiali ma anche dispositivi di inclusione selettiva con effetti disastrosi sulla vita di milioni di persone. In Gran Bretagna l’accesso al welfare e ai diritti sociali diventerà molto più difficile per milioni di migranti residenti sull’isola che durante la campagna elettorale sono stati oggetto di violenti attacchi razzisti, che non si sono più fermati. Per tali ragioni riteniamo decisivo superare, non solo, le limitazioni attualmente poste al movimento interno delle persone, ma soprattutto di estendere la libertà di movimento anche ai cittadini dei paesi extra UE.

I prossimi appuntamenti internazionali, come Amburgo, devono in questo senso proporsi come momenti di convergenza e di rilancio dei conflitti che stanno già attraversando lo spazio europeo, e che non hanno avuto alcun ruolo e visibilità nelle mobilitazioni romane del 25 marzo.

Solo in questo modo potremo sensatamente tornare a parlare d’Europa e della necessità della sua radicale trasformazione: senza questo realismo politico, i movimenti sociali rischiano di condannarsi alla più completa irrilevanza, limitando la propria azione nello spazio angusto della testimonianza e il conflitto a quello della liturgia.

Questo ci sembrano suggerire le mobilitazioni del 25 marzo. La messa è finita.